Di tutti i punti da cui si può
guardare il mondo, Diderot scelse nel 1748 forse quello più
indecente, ma sicuramente il più sincero. Torna “I gioielli
indiscreti”, divertente romanzo sospeso fra filosofia, satira
politica ed erotismo.
Susi Pietri
Così parlò,
inascoltata, la gaia fessura femminile
Nel suo celebre Elogio
di Richardson, Diderot scriveva: «Per romanzo si è inteso finora un
ordito di avvenimenti fantasiosi e frivoli, la cui lettura era
ritenuta pericolosa per il gusto e i costumi. Io vorrei proprio che
si trovasse una diversa definizione (…) Il nostro mondo è il luogo
della scena, la sostanza del suo dramma è vera. Egli mi mostra il
processo generale delle cose che mi circondano. (…) Pensate di
questi dettagli ciò che vi piacerà; ma essi saranno interessanti
per me se sono veri, se fanno emergere le passioni, se mostrano i
caratteri. Essi sono comuni, voi dite; è ciò che si vede tutti i
giorni! Vi sbagliate: è ciò che passa ogni giorno sotto i vostri
occhi e che voi non vedete mai…»
Questa appassionata
professione di fede per le potenzialità euristiche e formali del
romanzo potrebbe valere come paradossale prefazione retrospettiva
ai Gioielli indiscreti – la prima opera narrativa di
Diderot, pubblicata nel 1748 e poi, postuma, nel 1798, con tre
capitoli supplementari – proposta ora in una nuova edizione
italiana a cura di Mario Cosenza che riproduce la «storica»
traduzione di Aldo Germonti (Alessandro Polidoro Editore, pp. 311,
euro 15,00).
Scritto furiosamente in
due sole settimane da un Diderot trentaquattrenne assillato
dall’urgente bisogno di denaro, e nato da una piccante scommessa
con l’amante (la scrittrice Madeleine d’Arsant de Puisieux, che
avrebbe provocato il filosofo sfidandolo a comporre un romanzo
licenzioso), Les Bijoux indiscrets riprende e contamina diversi
generi narrativi settecenteschi innovandoli radicalmente.
Dietro l’ironica
finzione
Nella cornice immaginaria di un improbabile Congo inventato di sana pianta, lo spiritoso e raffinato divertissement del giovane Diderot ricapitola i modi e le mode orientaleggianti in auge nel Settecento disegnando con leggerezza i tratti dei protagonisti, l’annoiato sultano Mangogul, alla ricerca della «verità» sui sentimenti delle sue concubine e delle dame di corte, la battagliera favorita Mirzosa, l’immancabile «genio della lampada» Cucufa, insieme al sortilegio sensuale del suo dono, un anello magico che ha il duplice potere di rendere invisibili e di far «parlare» i genitali femminili (vale a dire, com’è noto, i «bijoux» del titolo).
L’ironica finzione di
un mondo «altro» e straniante dà così il via alla
rappresentazione spietata dei costumi della Francia di Luigi XV: la
scrittura del romanzo si trasforma in un rigoroso esercizio di
critica sociale che rimette in questione ogni valore fondato sulla
gestione-repressione degli istinti, denunciando il condizionamento e
la censura della naturalità dell’uomo sepolta dalle convenzioni –
ma anche disseminando il testo di riferimenti satirici e filosofici
alle controversie tra cartesiani e newtoniani, di vere e proprie
lezioni di metodo sperimentale, di allusioni non certo velate allo
stesso Luigi XV e a Madame de Pompadour, abilmente dissimulati in
Mangogul e Mirzosa.
L’ariosa, spumeggiante configurazione narrativa dei Bijoux indiscrets alterna la storia della relazione amorosa del sultano e della favorita alle avventure dei «gioielli», organizzandone sapientemente gli intrecci e le interferenze; le «trenta prove dell’anello» si dispongono in una trama di rimandi reciproci tra i diversi racconti dei «bijoux» stessi, interrogati da Mangogul, orchestrandosi in una vera e propria arte della fuga – come una sorta di matrice unitaria con trenta variazioni sul tema, che la narrazione sviluppa moltiplicando le voci e le prospettive dei personaggi, insieme alle sollecitazioni «dialoganti» destinate a risvegliare lo sguardo critico del lettore.
Questa complessità
prismatica e compositiva è rilanciata nell’edizione curata da
Cosenza restituendoci la diversità dei registri stilistici praticati
nei Gioielli, la commistione dei generi filtrata dall’ironia di una
scrittura agile e sperimentale, che non esita a farsi apertamente
parodistica sovvertendo canoni e statuti romanzeschi – come
attesta, in modo esemplare, il capitolo XLVII, «Il gioiello
viaggiatore», dove il linguaggio cifrato del bijou dell’avventuriera
Cypria rimescola le lingue dei paesi visitati esibendosi in francese,
inglese, latino, italiano e in un esilarante ibrido «mezzo congolese
e mezzo spagnolo».
Diderot vinse con
innegabile brio ed eleganza la sfida lanciatagli da Madame de
Puisieux. Opera «leggiadramente erotica», I gioielli indiscreti si
inseriscono a pieno titolo nella tradizione del romanzo libertino e
attingono spunti e motivi sia da prodotti di puro intrattenimento,
sia da testi di notissimi autori come Crébillon fils, a cominciare
da Le Sopha, storia dissacrante e irresistibilmente seduttiva di un
gentiluomo trasformato per maleficio in un voluttuoso divano che
racconta le avventure galanti di cui è testimone.
Ma, nell’opera di
Diderot, ciò che parla direttamente, come afferma il sornione e
provocatorio Cucufa, è «la parte più sincera del corpo»: l’organo
sessuale femminile che dà voce al desiderio represso, in uno scontro
serrato tra libertà e alienazione. «L’anello magico», scrive
Cosenza nella prefazione al volume, «non dona ai ‘gioielli’ la
parola, bensì offre un ‘microfono’, porta a galla il regolare
brusio della natura, rende manifesta una parola che sempre si esprime
ma mai è ascoltata liberamente.»
I gioielli, nel pensiero
di Diderot (ormai incamminato, al momento della stesura del romanzo,
verso il materialismo antidogmatico che sarà proprio della fase più
matura delle sue opere filosofiche e letterarie), sono fatti della
stessa sostanza infinitamente e diversamente modificata di cui si
compone l’intero universo e, parlando, rivelano le determinazioni
materiali che collegano l’uomo al cosmo; la finzione letteraria
diviene allora la scintillante, eversiva mise en scène dello scontro
tra la parola sociale – ipocrita, menzognera, dominata dalle
convenzioni e dalle maschere mondane – e la parola «naturale» e
pulsionale della materia e del corpo.
Sul «sentiero dei fiori»
Nella Passeggiata dello scettico, scritta in forma dialogata e allegorica nel 1747, si contrapponeva al «sentiero delle spine» dell’ortodossia cattolica il «sentiero dei castagni» della filosofia, itinerario di liberazione e d’engagement etico e noetico prescelto dagli spiriti liberi per meditare i problemi della conoscenza; anche una terza via si apriva nondimeno nello spazio teorico della Promenade, il «sentiero dei fiori» e del pieno godimento dei piaceri sensibili della vita, dapprima imboccato gioiosamente e poi abbandonato, sia pure a malincuore, in favore della via del pensiero ombreggiata dai castagni.
Ma, un anno dopo, il
«sentiero dei fiori» fa ritorno, non più in contraddizione con la
riflessione filosofica: è l’itinerario intrapreso con la
leggerezza aerea e irridente dei Gioielli indiscreti che, con la sua
scorribanda apparentemente eccentrica nelle periferie letterarie del
romanzo licenzioso, aprirà la strada alle grandi narrazioni della
piena maturità di Diderot, dal Nipote di Rameau a Jacques il
fatalista e alla Monaca.
Il Manifesto/Alias – 15
aprile 2018
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