Tradotta per la prima
volta «La storia di Shiva e Parvati», splendido poema che
rappresenta la visione tantrica della sessualità.
Giuliano Boccali
Kalidasa IV-V sec.
d.C.) Eros e ascesi: l’amore hindu
Come spesso accade nei miti indiani, un demone – Taraka in questo caso – si è impadronito dell’universo e ne fa scempio; nessuno degli dèi lo può debellare, ma il creatore Brahma sancisce che un dio non ancora esistente, figlio di Shiva e Parvati, lo potrà vincere. Il suo nome sarà Kumara e il poema della sua origine (Kumarasambhava in sanscrito), tradotto per la prima volta in italiano, è la bellissima storia d’amore dei suoi divini genitori, storia che sprigiona una grande densità di significati destinati a dilatarsi.
Come molte ’fiabe’,
esordisce con la descrizione del reame ricco e felice dove nasce e
cresce la protagonista Parvati: quello di suo padre Himalaya, re
supremo dei monti, di cui è offerta nell’incipit la straordinaria
descrizione; mentre dell’eroina si narrano in breve il
concepimento, la nascita accompagnata da fausti segni, l’infanzia e
l’adolescenza felici fino a descriverne la forma stupenda all’età
di sedici anni, ritenuta nell’India antica quella della perfezione
fisica sia per la donna sia per l’uomo. E questa descrizione
completa di Parvati è la prima così estesa di una beltà femminile
dell’intera letteratura indiana, rappresentando il prototipo di
un’espressione letteraria destinata a grande successo anche come
forma autonoma.
Il canto iniziale si chiude con una breve descrizione di Shiva immerso nell’ascesi come rifugio dal dolore lacerante del suo lutto per la tragica morte della prima sposa, di cui Parvati è la reincarnazione; adolescente ingenua e già innamorata, ma istruita dal padre, la meravigliosa fanciulla gli si affaccenda intorno per compiacerlo e attirarlo. Il Dio la lascia fare.
Kalidasa (IV-V sec.
d.C.), l’autore del poema, con questo pone subito i due poli della
figura del dio supremo che appare dividersi fra l’ascesi e l’eros,
o meglio integrarli in se stesso, contrassegni della sua
complessiUrquharttà fra i quali non esiste mediazione. La
polarizzazione particolare ascesi-eros si riverbera anche sulla
figura della fanciulla divina e sull’intero poema, anche se l’amore
è destinato qui a prevalere definitivamente pure per evidenti
ragioni di plot.
Come sempre accade nelle
opere indiane classiche di più alto valore poetico e di coerenza
interna meglio evidente, sono così poste le strutture significanti
fondamentali dell’opera, che coincidono in questo caso con quelle
dell’intera civiltà indiana; essa sembra infatti alimentarsi
incessantemente del distacco e del desiderio posti in una condizione
non tanto contraddittoria quanto speculare.
E così, a vincere la refrattarietà di Shiva all’amore è chiamato il Cupido indiano, Kama, che come il suo collega occidentale opera con arco e frecce; male però gliene incoglie: disturbato nella sua meditazione profonda, in un impulso irrefrenabile di collera il Grande Asceta incenerisce con l’energia sprigionata dal suo terzo occhio l’incosciente arciere.
A conquistare Shiva non è
dunque il dardo del dio dell’amore, sarà invece l’intelligente
Parvati, che lo attrae gareggiando con lui in un’ascesi
implacabile. Lo sposalizio trionfale nella capitale del regno,
fantasmagorica e festante, e una notte d’amore senza fine coronano
la storia di una delle coppie più amate della religione hindu e
dell’immaginario mondiale, capace di meravigliare i lettori di ogni
epoca.
Composta secondo i principi raffinati della letteratura indiana classica, costruita in maniera magistrale nella scansione degli episodi e dei sentimenti, La Storia di Shiva e Parvati si può leggere anche come un’introduzione poetica ai grandi temi della relazione fra ascesi ed erotismo e della visione tantrica della sessualità. Dietro e attraverso la trama iconica dei significati profondi, scintilla sempre l’arte di Kalidasa, forse il più grande genio poetico dell’India classica, capace di evocare tutti gli aspetti dell’emozione.
E questa si rivela
soprattutto nelle immagini originali che ricorrono copiose nel poema,
ispirate in particolare dalla natura, da accostamenti di colori, da
bagliori improvvisi e giochi di riflessi luminosi, da coraggiosi
confronti e contrasti di forme. Ecco per esempio una strofe dalla
descrizione del sorgere della luna (VIII, 60) con cui Shiva incanta
la sua sposa: «L’Oriente, incitato dalla notte, rivela / come un
segreto questo cerchio di luna, / l’apparizione trattenuta sino
alla fine del giorno, / mentre prima si scorge il sorriso di un tenue
chiarore».
Ma c’è un altro aspetto della poesia di Kalidasa che si desidera mettere in luce; un aspetto niente affatto diffuso nella mentalità indiana, che si può chiamare “umanistico” e che trova a mio parere particolare consenso nella sensibilità di un odierno lettore europeo. Si esprime in tratti di grande attenzione a particolari concreti dei rapporti, come nel caso della strofe III, 22, dove il re dei celesti Indra congeda Amore cui ha appena affidato la missione di trafiggere Shiva:
«“Così dev’essere!” Ricevendo come una ghirlanda sul capo / l’ordine del suo signore, Amore che inebria si avviò; / con la mano ruvida per gli incitamenti al suo elefante Airavana, / Indra toccò il corpo di lui».
La mano “ruvida” (di un Dio!) per le carezze all’elefante suo veicolo e compagno è un tratto geniale, assolutamente unico nella consuetudine poetica indiana. Al lettore non sarà però sfuggito anche il tratto ironico nel paragone sull’attitudine di Amore che riceve «come una ghirlanda sul capo», cioè come un coronamento trionfale… l’ordine sornione che gli costerà l’incenerimento.
Ma l’acume psicologico di Kalidasa non solamente abita in rappresentazioni sottilmente ironiche o mondane; altrove infatti anima di verità i due sentimenti più forti dei protagonisti, il dolore e l’amore. È il caso della strofe (VII, 74) che evoca la gioia radiosa di Shiva poco prima della cerimonia di nozze con l’amata:
«Congiungendosi a quella giovane, sempre più bella la luna del suo volto, / i loti degli occhi di Shiva fiorirono, / le acque della sua anima si illimpidirono: / divenne come il mondo quando si congiunge alla stagione autunnale».
Divenne cioè come il mondo dopo la stagione delle piogge, con l’aria trasparente, il cielo terso, le notti di luna bianche d’incanto sospeso… Potremmo moltiplicare gli esempi, forse finiremmo per richiamare ogni strofe del poema, come potrebbe accadere per altri capolavori dello stesso Kalidasa e di altri grandi poeti indiani: dove ogni strofe, se ascoltata in un lento e assorto assaporare, dischiude la magia di segrete risonanze, di corrispondenze sottili fra mondo esterno, naturale o umano, e silenziosa interiorità.
Il Sole 24Ore – 18 febbraio 2018
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