Tucidide
Tra il 1991 e il 1992 uscirono
due libri assai interessanti, quando finita
l'Unione Sovietica e archiviato il sogno comunista, infuriava la
retorica democratica e si proclamava la necessità di
universalizzazione della democrazia occidentale, il cui modello
originario veniva fatto risalire all'antica Atene. Il primo, tratto
dall'opera di Tucidide, ne isolava, per la cura di Luciano Canfora,
Il dialogo dei
Melii e degli Ateniesi
(Marsilio, 1991), il secondo – dello stesso Canfora, affrontava in
termini più generali il tema di Tucidide
e l'impero (Laterza,
1992). Luciano Canfora non ha cessato di scavare sul tema della
democrazia, estendendo la propria indagine ad altri momenti storici.
Ricordo qui soprattutto La
democrazia. Storia di un'ideologia,
pubblicato da Laterza nel 2004.
Quella
qui “postata” è la recensione ai quei libri del 1991-92, scritta
per “la talpa libri” de “il manifesto” dal filosofo Mario
Vegetti, che mi pare sintetizzare efficacemente i punti chiave della
ricerca di Canfora, facendo anche ricorso a un aureo volumetto della
Sellerio che Canfora aveva curato 10 anni prima per la collana “La
memoria”, diretta da Leonardo Sciascia.
Si gioca senza regole la partita del potere
Mario Vegetti
Luciano
Canfora viene da tempo proponendo all’attenzione (non solo degli
specialisti) due testi del pensiero politico antico, tanto lucidi
quanto scomodi per il rigore inquietante delle loro analisi
storico-sociali. Scomodi lo sono stati senz’altro per la
storiografia di ispirazione classicistica (di cui Canfora è buon
conoscitore e critico impietoso), che a lungo ha cercato di
«normalizzarli», con tutte le risorse della filologia, perché non
disturbassero troppo il quadro armonioso, pacificato ed esemplare
della grecità che essa amava presentare.
Il
primo di questi testi è il saggio anonimo sulla Costituzione degli
ateniesi (La democrazia come violenza,
Sellerio, Palermo 1982). Il secondo è il dialogo tucidideo fra gli
Ateniesi e i Meli.
Un maestro violento
Entrambi
derivano dalla lezione di quel «maestro violento», che fu per i
Greci, secondo le parole di Tucidide, la guerra del Peloponneso, con
i conflitti che essa scatenò, all'esterno e all’interno delle
città, fra regimi democratici e regimi oligarchici. La
Costituzione degli ateniesi
costituisce una cruda analisi, da un punto di vista oligarchico,
della democrazia ateniese. Si tratta, senza dubbio. di un regime che
funziona ed esprime al meglio gli interessi di chi vi detiene il
potere. Essa è, nel senso letterale del termine, «violenza di
popolo», della moltitudine dei poveri, a danno dei ricchi.
Se
questi governassero, il loro regime sarebbe migliore, perché essi
sono più colti, più intelligenti, più virtuosi della «canaglia»:
e proprio per questo, essi la ripagherebbero con la stessa moneta,
riducendola in schiavitù.
Non
ci sono valori condivisibili universalmente o comuni regole del
gioco, secondo quegli assiomi cari ai moderni teorici della
democrazia, che Tucidide, sulla scorta del «maestro violento»,
considerava soltanto come arnesi buoni per la retorica assembleare o
tutt’al più argomenti validi quando ci fosse una momentanea
impasse del conflitto, un equilibrio transitorio delle forze in
campo. I peggiori (democratici) e i migliori (aristocratici)
conquistano e gestiscono il potere esattamente nello stesso modo, con
l’oppressione degli avversari. Da questo punto di vista, la
«democrazia» ateniese è stata a lungo considerata (e
legittimamente, secondo Canfora), come l’antenata della dittatura
giacobina e della dittatura del, proletariato - frutti inevitabili
anche se non desiderati del pensiero liberatore di Rousseau e di
Marx.
Nel
dialogo tra Ateniesi e Meli - che Tucidide isola volutamente dal suo
contesto storico per farne un caso esemplare destinato alla
riflessione politica - sono in questione non i rapporti fra gruppi
sociali ma quelli fra stati. Il potente impero ateniese impone alla
piccola isola di Melo la secca alternativa fra asservimento e
distruzione. I Meli cercano di sottrarvisi ricorrendo agli argomenti
classici della morale greca: invocano le norme universali della
giustizia, e confidano nella speranza della protezione ai giusti. La
risposta ateniese é implacabile. La giustizia esiste solo laddove
c’è parità di forze, «eguale necessità», altrimenti i forti
agiscono in ragione del loro potere e i deboli subiscono. C’è una
sola legge eterna, di natura, che vale sia per gli dei sia per gli
uomini, ed è che essi «laddove hanno la forza, lì esercitano il
potere».
La razza dei
signori
Del
resto, gli Ateniesi stessi non sono liberi di scegliere: o conservano
l’impero, con il terrore che esercitano su sudditi e nemici, o
finiranno a loro volta asserviti. Dopo un’accanita resistenza,
tanto negli argomenti quanto in battaglia, la conclusione è
inevitabile: i combattenti meli catturati vengono massacrati, le
donne e i bambini venduti schiavi, e gli Ateniesi ripopolano l’isola
con i loro coloni. Questi testi furono usati fin dall’inizio dai
loro autori - entrambi di tendenza oligarchica, sia pure con diverse
intonazioni - per smascherare l’ideologia della città: cioè il
tentativo - prima di parte aristocratica, poi democratica - di
convincere che con l’avvento della forma politica, della legge,
delle regole del gioco assembleare, della giustizia giuridica, il
conflitto fra gruppi sociali e stati avesse ormai trovato la sua
soluzione definitiva, la sua mediazione in un confronto pacificato di
opinioni, ragioni, argomentazioni e valori. Ciò che viene ricordato
- e l’avrebbero fatto in questa epoca anche sofisti come Crizia e
Trasimaco - è che una simile ideologia copre soltanto l’oppressione
esercitata da chi detiene il potere, e che questo potere è in ultima
istanza legittimato solo dalla forza.
Canfora
riutilizza i suoi testi come una medicina da guerra contro le
ideologie classiciste che riattualizzano l’antica ideologia della
città per fare della Grecia il regno esemplare della legge, della
giustizia, dell’armonia fra classi e stati. La «bella» grecità
non fa purtroppo eccezione, nonostante ogni edulcorazione del
classicismo di ogni tempo, alla dura legge, sociale e antropologica,
del primato del conflitto e della forza. Ciò non significa tuttavia
che Canfora faccia di questa legge, alla maniera di quella che egli
definisce la teoria «demenzial-razzistica» di Nietzsche - la
«bestia bionda», le «razze dei signori», che siano Ateniesi,
Vandali o Goti - il pretesto di un’esaltazione della violenza
superomistica. Egli ne trae piuttosto ragioni per una riflessione che
coniughi realismo storico-antropologico con ragionevoli valutazioni e
«insopprimili auspici utopistici».
Se finisce il
bipolarismo
Le
prime: tutto sommato l’impero ateniese, per quanto necessitato
dalla logica del dominio, finirà per risultare comunque preferibile,
agli occhi dello stesso Tucidide, rispetto al feroce «monopolarismo»
spartano che ne prese il posto (un’allusione tanto più chiara in
quanto Canfora paragona la vittoria ateniese sui Persiani a Salamina,
su cui essi fondano la legittimazione dell’impero, alla battaglia
di Stalingrado).
E
la democrazia, come violenza di popolo, è pur sempre preferibile al
dominio oligarchico, in quanto è collettivamente esercitata dalla
parte più ampia della società. Per il futuro - un futuro lontano,
dice Canfora - resta l’auspicio che democrazia e libertà possano
finalmente coniugarsi: che cioè, secondo il pensiero dei suoi
teorici, democrazia possa significare non oppressione e dittatura, ma
libertà per tutti.
Per
sperare ancora nel progetto illuministico, bisogna intanto non far
finta di credere - sembrano volerci dire Canfora e i suoi testi
«violenti» - che esso si sia mai realizzato, nell’antico e nel
moderno. E quindi compiere le scelte possibili con lucidità, senza
inganni ideologici o orpelli retorici.
il
manifesto, venerdì 28 febbraio 1992
Nessun commento:
Posta un commento