E' da una vita che Asor Rosa parla e scrive di POPOLO E POPULISMO senza sapere di cosa parla. Cominciò nel 1965, in un saggio intitolato "SCRITTORI E POPOLO", che tanto danno ha prodotto nella cultura e nella politica italiana. Erano gli anni quelli in cui, grazie alle lotte del PCI e del Sindacato, nel triangolo industriale del Paese, la classe operaia aveva acquistato un potere ed una centralità che non aveva mai avuta nella storia nazionale. Eppure sorsero in quegli stessi anni movimenti ( tipo "Potere Operaio" , "Lotta Continua", ecc.) che avevano la pretesa di criticare da "sinistra" sia il PCI che il Sindacato. Asor Rosa fu allora uno di quei giovani intellettuali che con libri e riviste cercò di mettere in difficoltà il PCI. In particolare, con la sua discutibile ricostruzione della corrente populista che avrebbe attraversato la tradizione letteraria nazionale, Asor Rosa, nel goffo tentativo di criticare la politica culturale del PCI, s'inventò un immaginario Gramsci populista esistente solo nella sua mente. 60 anni dopo lo stesso Asor Rosa è tornato a discutere quel suo giovanile lavoro, aggiornandone l'analisi e riconoscendone anche qualche limite. Ma la sua antica arroganza e supponenza continuano ad impedirgli di capire la realtà presente anche se riesce a cogliere qualche elemento di verità. (fv)
Alberto Asor Rosa
Il popolo si è
dissolto nella massa
Recentemente è apparso un libro bellissimo, Popolocrazia, di Ilvo Diamanti e Marc Lazar, che mi augurerei fosse letto dal numero più ampio di italiani, e in modo particolare di politici italiani, per la natura precisa e circostanziata delle analisi. La mia opinione è che il termine- concetto “ populismo” sia inappropriato alla materia che pretenderebbe di descrivere: e che perciò, usato a sproposito (non è certo il caso di Diamanti e Lazar), possa produrre qualche equivoco. Perché “ inappropriato”?
Perché il termine-
concetto, da cui esso prende ovviamente origine, è a sua volta
desueto e inappropriato alla materia da descrivere. In che senso? Nel
senso che il “popolo” — non più in questo caso termine-
concetto, ma realtà politico- sociale attivamente presente sul piano
storico — sta uscendo di scena da diversi decenni. Dove accade
questo? In tutte — io penso — le forme di democrazia
rappresentativa esistenti e funzionanti nel mondo occidentale, ma
soprattutto qui in Italia.
Il “popolo”, storicamente inteso, è un organismo estremamente complesso, fatto di classi, ceti sociali, orientamenti culturali e ideali, categorie professionali, ecc. spesso in lotta fra loro, ma al tempo stesso sempre, o quasi sempre, riunificati alla fine sotto il segno di un interesse comune (non a caso il concetto di “popolo” è storicamente connesso con quello di Nazione).
È ciò di cui si
trattava, quando io scrissi Scrittori e popolo nel 1965: in cui
rampognavo il Pci di aver optato per la complessità e al tempo
stesso unitarietà (nazionale) del popolo invece di rappresentare
strategicamente la diversità antagonistica della classe operaia. Non
negavo che ci fosse “ il popolo”, e neanche ne attaccavo la
radice storico- sociale ( capirai, aveva fatto la Resistenza!):
negavo che il “ popolo”, proprio in ragione di quella complessità
e di quella finale unitarietà, potesse diventare il protagonista di
una lotta seriamente rivoluzionaria.
Ora di quella
complessità, e al tempo stesso di quella finale unitarietà, non
esiste quasi più nulla. Sarebbe da studiare in che misura la crisi
politica ha messo in crisi la sfera sociale; e in che misura la crisi
sociale ha messo in crisi la sfera politica. È indubbio peraltro che
l’uscita di scena dei due grandi partiti ( italiani, s’intende,
in questo caso), il Pci e la Dc, abbia contribuito alla rapida
disgregazione di quel sistema e all’altrettanto rapido e
inesorabile affermarsi di questo.
Se non c’è più il “popolo”, cosa c’è? Io dico — l’ho già detto altrove — che c’è la “ massa”. La “ massa” è il vero protagonista dell’attuale momento storico nel mondo occidentale, ma con virulenza particolare in Italia. Il concetto di “ massa”, cui io penso e di cui mi servo, sta a significare quella realtà umano-sociale in cui caratteri e funzioni delle principali forme associative e identitarie sono sempre meno visibili e sempre meno rilevanti ( dai sindacati ai partiti): mentre prevale una caratterizzazione individuale in senso stretto, di singolo individuo accanto a singolo individuo.
Però questi singoli
individui tendono sempre di più ad assomigliarsi fra loro,
diversamente dal passato, a riconoscersi e, appunto, a “far massa”.
Non hanno altro modo, la società e la politica oggi non offrono
altro modo per riconoscere che ci sono.
Quello che si costituisce
è perciò un agglomerato confuso e oscillante, peraltro non
contraddittorio, o meno contraddittorio che in passato, al proprio
interno; quindi, in un certo senso, particolarmente coeso e uniforme,
che risponde soltanto a quei messaggi che corrispondono di più ai
suoi fondamentali modi di essere, e che consistono essenzialmente in
un atteggiamento di esaltazione e gratificazione dei suoi
fondamentali modi di essere. Il sociale diventa ipso facto l’ideale.
La proposta politica e
ideale (se tale si può definire) consiste essenzialmente nel
garantire alla “massa” che si costituiranno le condizioni
(monetarie, economiche, sociali e istituzionali) perché le sia
consentito di restare, sostanzialmente, quello che è ( la
predicazione di Beppe Grillo e Matteo Salvini è da questo punto di
vista anche retoricamente esemplare; il programma del Reddito di
cittadinanza va risolutamente in questa direzione).
Esiste una vasta ed
estremamente autorevole bibliografia di studi e interpretazioni della
“massa”, quasi tutta però concentrata nella fase storica che va
dagli inizi agli anni ‘30 del secolo scorso. Come mai? Ma perché
in quella fase veniva maturando quell’estesa, profonda e drammatica
crisi della democrazia rappresentativa che avrebbe portato in Italia
e in Germania all’avvento del fascismo e del nazismo, movimenti
come pochi altri di “ massa”.
Non voglio tentare
paragoni azzardati, anzi, non li penso neanche. Però non c’è
dubbio che in ogni manifestazione di “massa” ci sia una
componente mentale totalitaria: essere per sé quel che si è, e
basta. Oggi infatti predominano — anche a livello di “massa”,
sì, di “massa”, — il disprezzo sostanziale per la democrazia
rappresentativa e il rifiuto, anzi, di più, l’ignoranza di
qualsiasi elemento storico ( Resistenza, Costituzione, organizzazione
visibile ed esplicita degli interessi, ecc.) abbia costituito finora
la concreta manifestazione di un’identità italiana sopra le parti
(non caso, insieme al termine-concetto di “popolo”, tramonta
ancor più decisamente quello di Nazione).
Siamo di fronte, dunque, al compito sovrumano che consiste non nel combattere il “populismo” ma nel tentare di ricostituire e rimettere in piedi un “ popolo”, sottraendolo alla dissoluzione nella “massa” (se sono la stessa cosa, tanto meglio). Affrontare questo compito tuttavia non si può, almeno dal nostro punto di vista, senza chiederci e chiarire perché la Sinistra in tutte le sue forme non ha impedito la retrocessione e l’inabissamento del “ popolo” nella “ massa”, anzi ha favorito il formarsi e l’emergere della “massa” come elemento costitutivo fondamentale del nostro (italiano) modo di pensare, progettare e fare politica. Cioè ha operato il proprio suicidio.
La Repubblica – 6
aprile 2018
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