06 aprile 2018

F. MAROTTA, Dalla sabbia e dall'acqua.

“noi siamo acqua, memoria
che semina albe nel passaggio”



Parole
dalla sabbia e dall’acqua

a Yves Bergeret
ai costruttori di carene
ai custodi dei “giardini” di Koyo

I

1
Ci inoltriamo nella notte
col passo deciso e vigile
di chi conosce l’insidia della spina.
Mostriamo al cielo
la mappa degli astri sconosciuti
incisi sulla pelle, i segni
indelebili, febbrili
del morso feroce della fame.
Stretti nel palmo
conserviamo come una reliquia
semi di memoria.
Nell’anfora dei giorni l’infanzia della terra
che si fa spiga e voce
al richiamo delle fonti, canto
augurale, speranza di raccolto.
Sulle labbra
il respiro dell’acqua delle origini
mormora parole senza tempo
per dialogare col silenzio delle ombre.

2
Nel pane condiviso
la vita pianta il seme
da cui ogni alba rifiorisce il cielo.
Impara da quelle mani tese
l’alfabeto immutabile
delle stagioni, il legame perenne
col gesto fraterno che ripara.
Fa della tua parola
una dimora che accoglie, il respiro
che rovescia in canto
l’onda tenebrosa che inabissa e schianta.
Parola d’isola
che restituisce al naufrago
la luce senza mistero
della terra rinata e delle sue radici.

3
Il futuro è qui –
in questa barca sospesa tra naufragio
e volo, in questo abbraccio di destini
che partorisce fuochi
per rischiarare la tenebra
che assedia l’orizzonte.
E’ un verso interminabile, madre
di inauditi accenti, che ci precede
e segue sulle strade di ogni esilio.
E’ la passione antica
che albeggia nel cuore della rosa
che si fa argine alle maree di fango
generate dall’odio e dal rifiuto.

II

Abbiamo attraversato il deserto
per sentieri di sofferenza e speranza
dalla savana al mare. Il ricordo dei fratelli
che affidavamo ogni giorno
all’abbraccio materno delle sabbie
batteva il ritmo inarrestabile
dei nostri passi, ci indicava il cammino da seguire.
Ci insegnava a custodire la libertà
più grande, il dono estremo
di chi, morendo, depone nella terra
delle tue mani il suo frammento di sogno
affinché tu possa farlo fiorire
alla luce di occhi futuri. E allora quel mare
che non conoscevamo
non aveva più segreti per noi.
L’orizzonte lontano parlava la sua lingua
millenaria, era un’arca immensa
sospinta da un coro infinito di voci
mai udite, illuminava la vastità del cielo
col bagliore del primo seme dischiuso
nella stagione feconda delle piogge.
Voi intanto ignari, gioiosi convitati
a una festa oscura, veleggiate al richiamo
di un dio senza occhi che vi guida
verso i sepolcri d’occidente, alle dimore
sbarrate dove la vita che vive
soltanto nel respiro della parola che unisce
subisce l’ingiuria del silenzio, è un fiore
privo di radici partorito da una terra
ormai senza più linfa, senza più domani.

III

1
Non cede alla furia del mare
chi porge ascolto alla parola dell’acqua.
La lingua che ne ripete il canto
riscopre la sua natura di sorgente, l’oscura
matrice di ogni voce, di ogni vita.
Seguendo l’arco sonoro del vento
ogni corpo riemerge alle dimore del respiro.

2
L’immagine che nasce
dalle labbra calcinate da un grido
ha la forma incerta della luce
che non conosce il volo.
Spazio di cenere e miraggi
dove tace la parola che feconda il giorno.

3
Bianca come una mano tesa
nel gesto che disperde il corteo
delle ombre, la parola dialoga
con la cima e la radice, col frutto
e con la fonte. Immagine di immagini
che il vento non dissolve, specchio
luminoso dove tutto ciò che vive
trascorre senza inizio, senza fine.

4
La pietra che sogna
di ricongiungersi al cielo che l’ha generata
è sostanza antica di presagi, pupilla
di un desiderio cristallino. Non un grumo
rappreso di sillabe e di quarzo, ma domanda
inesauribile, voce in cerca di dimora.

5
Voce del principio, salmodia dolente
di montagne rovesciate, il mare
è una ferita che ribolle di suoni
come la sabbia del deserto
nel morire del giorno. Riconosci
nel coro delle sue onde oscure
l’eco dei passi che per millenni hanno varcato
quelle alture. Anche noi imparammo
dalla notte, illuminata dal fuoco
dei nostri fraterni sguardi, con quali colori
il flusso migrante delle dune
dipinge l’orizzonte che ci attende.

6
La stella che indica la rotta
oltre il naufragio, sorge ogni notte
dal cuore inviolato dei ricordi. Ha il volto
verde dell’infanzia e dentro gli occhi
paesaggi di ocra viva, sogni d’acqua sorgiva.
La voce del sangue
che partendo lasciammo come pegno d’amore
a benedire terre di pietre e arsura
è la sua sola luce.

7
I vecchi insegnavano ai nostri corpi
a crescere dritti e flessibili
come alberi che resistono
alla collera cieca dei venti e delle tempeste.
Altrove, figli di altre guerre e di altre
miserie, educarono la loro discendenza
alla danza verticale della vite, all’umile
saggezza dell’ulivo. Noi e loro, lontani
nel tempo e nello spazio, uniti
da un legame perenne che non teme
il mare, la morte, la distanza.

8
Isole di mani ci precedono in sogno
come spazi di azzardo e speranza
sottratti all’uniforme superficie
della morte. Occhi futuri
scrutano il mare con sguardi d’attesa
come lampade accese sulla soglia.
Un canto senza enigma, un coro
di parole visibili da lontananze estreme
guida il respiro affannato dei naufraghi
all’abbraccio materno della riva.

9
L’arca che accoglie i vivi e i morti
è la dimora indistruttibile
di un unico respiro. Ha il nome
di ogni vita che sei stato, è il ricordo
di ogni morte che hai vissuto. Il futuro
si annuncia nella traccia che lasci
quando scopri il tuo volto più vero
nello specchio di altri destini, nell’eco
infinita di colore e parola
che scioglie e disperde a ogni nuovo incontro
la tenebra cieca di rifiuto e violenza.

10
Dalla bocca della pietra
parla la sapienza delle ere, la meraviglia
di ciò che spinge il giorno
attraverso cunicoli di cielo, di storie
immaginate nel disadorno ammanto
del silenzio. Procediamo tra distese di immagini
che svanendo lasciano impronte di fiumi.
Noi siamo acqua, memoria
che semina albe nel passaggio.

11
Un canto di mille voci
modula in cadenze di respiro
la vocazione di essere e passare
lasciando polline di luce nel chiostro delle ombre.
Un fiore senza padroni, restituito all’ordine
della vita e delle stagioni, è questa dimora
insonne, questa barca che solca oceani
di cenere per farsi terra e acqua
di uomini cresciuti sotto cieli di sete.

12
L’arca apre solchi nel mare
rivoltando le onde come fertili zolle
di una terra futura senza più confini.
Mani da semina vi depongono voci
versi di un canto libero dal sonno
feroce del presente. Rifioriranno come il cielo
al richiamo di ogni nuovo giorno
radici grondanti di luci
per disperare il volto della morte.

IV

Come ogni notte, attendo l’arrivo dell’alba
soffiando via dagli occhi
il sale che l’onda impietosa
deposita a strati sul mio volto.
Tra le mie mani che annaspano
sento crescere e avvampare
il fuoco arcuato della morte.
Nell’aria che preme all’altezza dello sguardo
rivedo il deserto bianco
dove sono nato, la pozza limpida della mia infanzia
gli anni prosciugati dalla mia assenza
il tempo inabitabile del mio migrare
il sangue fertile col quale tracciavo segni
sulla mappa del mio ritorno.
Negli specchi della solitudine
visito la dimora delle mie piaghe, lo spazio
lacerato tra sogno e sogno, l’aspra vertigine
del rimpianto che recide parole alla mia voce.
Mormoro in silenzio
il nome dei compagni annegati
alla stella malata che sul mio sentiero
costruì il suo nido. Chiedo alla notte
che sciama insieme alle sue ombre
di restituire alle mie pupille
la speranza di un approdo
senza dolore, il respiro dell’orizzonte
che si colora di suoni
come una madre in attesa che cova nel grembo
la parola che cura ogni ferita.
In queste acque ho ritrovato me stesso
la mia memoria, il mio coraggio, il mio futuro.
Sostenuto dal coro dei naufraghi
ora nuoto sicuro verso la terra
degli uomini, là dove da sempre si coltiva
l’arte fraterna dell’incontro.

Francesco Marotta

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