08 aprile 2018

LA PARADOSSALE RICETTA SCIASCIANA PER SALVARE I BENI CULTURALI


I celebri resti del tempio di Castore e Polluce ad Agrigento



Sono dell’opinione che quel tanto che del passato ci resta in muri, archi e colonne, in monumenti e documenti, lo si debba all’incuria dei secoli, dalla fine dell’impero romano all’unità d’Italia; mentre alla cura e protezione nell’ultimo secolo legiferata e istituzionalizzata siano da attribuire le devastazioni più irreparabili, e le più efferate (tanto più efferate, ovviamente, quanto più diffusa e avvertita veniva facendosi la coscienza di dover curare e proteggere).

Per secoli il monumento godette di una specie di invisibilità. Fu utilizzato per altre costruzioni o incorporato in esse; o fu lasciato dov’era, oggetto di un vago culto del bello e dell’antico, senza particolari cure e senza rapaci o scientifiche attenzioni. Qualcuno si salvò, così, integralmente o quasi; di altri si salvarono i pezzi o le strutture. L’utilizzazione o l’abbandono furono comunque le condizioni per cui gli antichi monumenti, almeno parzialmente, si salvarono. Ma appena cominciarono a diventare visibili, ad essere considerati pubblico bene, patrimonio civile, inalienabili se non per furto, intoccabili se non per restauro, e insomma custoditi direttamente o indirettamente dallo Stato, protetti dalle sue leggi, ecco che incominciarono i guai.

Leonardo Sciascia in  Nero su nero, Einaudi 1979

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