I resti del tempio di Delfi
Si può leggere
l'attività umana anche (o forse soprattutto) come il tentativo
incessante di attribuire senso e significato ad una realtà che ci
pare spesso incomprensibile o comunque inafferrabile. L'unico modo
per passare “dal caos all'ordine” è individuare il centro da cui
si dipartono quei fili immaginari che legano gli aspetti molteplici e
contraddittori della realtà. Lo facciamo con la filosofia, la
religione, la politica, la scienza, l'arte. Gli antichi Greci lo
avevano trovato nel santuario di Delfi, dove i diversi piani
della realtà si incontravano.
Davide Susanetti
Pausania a Delfi,
ombelico e archivio di tutte le storie
«Vedi, figlio mio, qui
il tempo diviene spazio». Così dice il saggio Guremanz a Parsifal,
al puro folle, nel primo atto dell’opera wagneriana che dall’eroe
prende nome. I due si stanno approssimando al castello incantato del
Graal e al suo indicibile mistero. Il «qui» è il raggiungimento di
un luogo, manifesto o solo immaginale, che rappresenta e costituisce
ciò che possiamo chiamare «centro»: il cuore pulsante e immobile
ove la sapienza, la tradizione e il sacro vengono custoditi,
irraggiando la loro potenza su chi a esso si approssima.
Il «centro» è
congiunzione del visibile e dell’invisibile, dell’umano e del
divino che entrano in comunicazione reciproca e in rigenerante
metamorfosi. Per questo, le coordinate del tempo e dello spazio, che
sorreggono l’usuale rapporto con il sensibile, vengono meno,
dischiudendo una dimensione ove tutto è presente, ove tutto diviene
un unico orizzonte, un’unica visione. Accostarsi al «qui»
significa entrare in uno stato non ordinario di coscienza, che fa
accedere al «sempre» e, insieme a esso, a quel cosmo di potenze di
cui i miti sono riflesso.
Il qui del centro è, in terra greca, il santuario di Delfi, ombelico del cosmo, individuato dal volo delle aquile regali di Zeus. È il centro della profezia e del tripode sacro, la casa dell’Obliquo e del Lungisaettante Apollo, la dimora della Pizia invasata, ove i mortali cercano se stessi e insieme il segno essenziale del loro viaggio. È il centro che consacra gli uomini sapienti, che legittima l’ordine della legge umana e insieme consegna i soggetti alla cifra della loro identità nascosta e più profonda.
Dai Sette Savi dell’età
arcaica a Socrate, il centro suggerisce e indica la misura e il modo
della saggezza, racchiusi nella formulazione di due celebri massime:
«conosci te stesso» e «niente di troppo». Apparente banalità di
semplici parole che sollecitano tuttavia un’interrogazione profonda
e un diuturno lavoro: il conoscere se stessi cui il dio appella non
significa solo diventare consapevoli del proprio ethos, del proprio
carattere e delle proprie passioni, ma è anche soprattutto portare
alla luce il nucleo essenziale del sé e, con esso, la direzione di
un compito e di una funzione, affidati a ciascuno nel disegno del
cosmo.
Ed è attraverso tale
conoscenza che si perviene a un «niente di troppo» che non
corrisponde affatto al senso comune di un giusto mezzo, quanto
piuttosto alla misura aurea che discende dall’individuazione del
proprio centro interiore, lo si voglia chiamare anima – come faceva
Socrate –, o demone – come suggeriva Plutarco, sacerdote
consacrato di Apollo.
Licurgo, dopo la
costituzione
Nel qui del centro, il
legislatore della comunità umana chiede il suggello della propria
opera, la sanzione trascendente che essa corrisponda al «meglio»
per gli uomini cui è destinata. Così fece Licurgo dopo aver
disegnato la costituzione di Sparta: si recò a Delfi per chiedere
l’approvazione del dio e là si lasciò morire, perché il suo
compito era terminato e perché sapeva che, non facendo ritorno in
patria, i suoi concittadini, vincolati da un giuramento, avrebbero
dovuto rispettare per sempre il suo ordinamento.
Nel qui del centro,
sovrani e detentori del potere cercano un lume per il tracciato della
loro politica, per la pace e per la guerra, per la conservazione dei
regni e della terra. Come nel caso di Creso le cui iterate e
insistenti domande ad Apollo – domande sulla sua felicità futura e
sul destino del suo trono – diedero luogo a un vero e proprio
romanzo oracolare: un romanzo dove la parola del dio viene
sistematicamente fraintesa dal mortale perché il responso viene ogni
volta piegato alla prospettiva fin troppo ovvia del desiderio
soggettivo, delle aspettative individuali e dell’ambizione mondana.
L’unico modo per intendere il «segno» dell’Obliquo è uno stato
effettivo di neutralità interiore e di distacco, ma di questo i
mortali sono assai poco capaci.
«Per i saggi il dio fa
sempre enigmi con le sue profezie, ma per gli sciocchi è un maestro
da poco» diceva Sofocle. Bisogna accogliere la densità dell’enigma,
fermarsi con riverenza dinanzi a esso, lasciandosene penetrare in
ogni fibra, e non pensare che il responso sia una semplice e
letterale indicazione da attuare o da evitare. Fu l’errore di Edipo
che, senza farsi domande, si preoccupò soltanto di non far
realizzare il dettato di quel terribile responso che lo diceva
parricida e incestuoso.
Nel qui del centro, ancora, si radunano le immagini essenziali, l’archivio di tutte le storie, l’altrove della memoria che abbraccia la totalità del tempo. Una memoria che opere d’arte e monumenti ravvivano, come nei dipinti di Polignoto che, a Delfi, aveva raffigurato splendidamente due episodi fondanti: la distruzione di Troia e la discesa iniziatica di Odisseo nel regno dei morti, tra gli spettri degli eroi e delle eroine del passato assoluto.
Ed è appunto nel «qui»
dell’ombelico di Delfi che Pausania, viaggiatore attento e curioso,
conduce ancora oggi il suo lettore al termine di un lungo itinerario
attraverso il suolo ellenico: prendendo le mosse dall’Attica, la
sua Periegesi, la sua Guida della Grecia, termina, non a
caso, con Delfi e la Focide, cui è dedicato il libro X
dell’opera – ora disponibile nell’edizione commentata della
Fondazione Valla, a cura di Umberto Bultrighini e Mario Torelli
(Mondadori, testo greco a fronte, pp. C-548, euro 35,00).
L’effetto, dopo il
lungo tour, è appunto quello di tornare al centro, di riavvolgersi
all’ombelico dell’origine e della fondazione, dove tutti i
destini sono racchiusi. Provenendo da Daulide, Pausania passa per la
via chiamata Schiste, per il bivio fatale dove Edipo aveva incontrato
e ucciso suo padre Laio, e di là procede dritto verso Delfi, in
quella isolata valle montana su cui si stagliano le pareti verticali
e sdirupate del Parnaso. Spettacolare teatro di ulivi e terrazze che,
per la via Sacra, conducono al santuario del dio. Il tempio che
Pausania contemplava era solo l’ultimo di una serie. Non solo
perché il santuario fu ricostruito più volte per le distruzioni
causate dalla storia e dalla natura, ma perché, sul piano simbolico,
il tempio dell’origine è, per sua stessa natura, sempre perduto e
destinato a essere periodicamente riedificato dal lavoro e dalla
fatica dell’uomo.
L’uccisione del
serpente
Il primo tempio –
racconta Pausania – aveva la forma di una semplice capanna, fatta
interamente di alloro: la pianta sacra, sempre verdeggiante, che
simboleggia l’immortalità divina – la non-morte dei celesti –
e che insieme si connette alla purificazione. Lo stesso Apollo,
d’altro canto, si era dovuto purificare nel tempo dell’inizio,
espiando la propria violenza fondatrice: prendendo possesso di Delfi,
egli aveva ucciso il serpente posto a custodia della potenza sacra
del luogo, aveva sgominato le forze ctonie e la signoria della dea
Terra, che, prima di lui, vegliavano sul dono della profezia e della
veggenza.
Dopo questo primo atto,
un secondo tempio era stato interamente costruito dalle api, creature
della purezza assoluta e immagini dell’anima disincarnata («api»
si chiamavano le stesse sacerdotesse profetiche consacrate al dio).
Le operose api edificarono un tempio fatto interamente di piume
saldate tra loro dalla cera: un santuario leggero e quasi
impalpabile, un edificio, per così dire, aereo, che Apollo trasportò
magicamente nel paese lontano e misterioso degli Iperborei, in quel
Nord assoluto in cui il dio solare si rifugia periodicamente finché
l’intera rivoluzione degli astri non sia compiuta.
Quel Nord che coincide e
replica, in perfetta corrispondenza, l’idea stessa di «centro»:
l’asse, terrestre e insieme celeste, del Polo e del Carro
dell’Orsa, l’asse attorno cui si dispiega il ciclo del Grande
Anno. Le piume di quel tempio divenuto invisibile, le piume che
attraversarono leggere l’aria al soffio – come racconta Pindaro –
di un vento impetuoso, sono immagine del potere del volo, del potere
di librarsi e viaggiare in altre dimensioni, al modo degli sciamani,
e come si racconta sapesse fare anche Pitagora, aurea incarnazione di
quello stesso Apollo Iperboreo.
Il terzo tempio fu quindi opera di demiurghi divini, edificato dalle mani sapienti di Atena ed Efesto che lo fecero tutto di bronzo scintillante alla luce del sole nascente. Sul frontone sedevano inquietanti ed esiziali Incantatrici che, con il loro canto, paralizzavano e procuravano la morte ai visitatori: Sirene celesti che liberavano dalla vita mortale aprendo le porte del cielo.
Solo con il quarto tempio
– come in una sorta di successioni di età del mondo, che procedono
dal regno della natura e dall’opera degli dei per giungere al piano
dell’esistenza umana – entrarono in scena artefici umani: il
santuario fu costruito in pietra dai leggendari architetti Agamede e
Trofonio che il dio ricompensò della loro opera avvolgendoli nel
sonno della morte.
Dopo di che si entra nel
tempo della Storia: il quinto tempio edificato per iniziativa della
potente famiglia degli Alcmeonidi, esuli da Atene; il sesto, quello
che ancora Pausania contemplava, opera di Spintaro di Corinto. Di
tutto ciò, oggi, a noi si offrono rovine e lacerti. Ma possiamo
sentire e immaginare, accordandoci con l’aura sacra che, ancora
potente, aleggia nel luogo. Possiamo intuire, muovendo lo sguardo dai
resti del tempio alle rocce del Parnaso, dove le «Furenti»
danzavano per Dioniso, quando il sole dell’aureo Apollo si
occultava nel grande Settentrione.
Il manifesto/Alias – 7
gennaio 2018
Nessun commento:
Posta un commento