Dopo anni di silenzio
la critica torna ad interessarsi a Davide Lajolo. Una biografia ne
traccia il percorso politico e letterario, dalla convinta adesione al
fascismo prima e poi al comunismo togliattiano. Uno scrittore calato
nel mondo “grande e terribile” (per usare l'espressione di
Gramsci), ma che mantiene profonde radici nel mondo di Langa.
Ed è proprio questo elemento che ce lo fa sentire autentico
nonostante le ambiguità. Un libro da leggere per chi ama Fenoglio e
Pavese.
Massimo Raffaeli
Lajolo, un’epica
elementare come il paesaggio piemontese
Fu in tutto un uomo del
suo secolo, segnato da profonde lacerazioni e contraddizioni, Davide
Lajolo (Vinchio d’Asti 1912 – Milano 1984), nella cui fisionomia
si sovrapposero e interagirono la militanza politica, la vocazione
letteraria e più in generale il desiderio di testimoniare, per
quanto fosse doloroso e onusto di ferite, il proprio tempo.
Fu infatti, lui di origine contadina e per così dire appartenente alla generazione fascistissima, volontario nella Guerra di Spagna e nei Balcani, poi un transfuga e un leggendario capo partigiano in Piemonte nella 98ª Brigata Garibaldi col nome di «Ulisse», poi un giornalista (tra l’edizione milanese dell’Unità, 1945-’58, e la direzione di «Giorni/Vie Nuove» dal ’69 al ’78) e quindi un parlamentare comunista tra i più vicini a Palmiro Togliatti e Luigi Longo nonché il primo biografoģģģg di due scrittori con i quali divideva sia la couche, tra il Monferrato e le Langhe, sia un aspro e disadorno sentimento del vivere, vale a dire Cesare Pavese e Beppe Fenoglio cui dedicò rispettivamente Il vizio assurdo (1960) e Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe (’78), due opere che restano fondamentali pure se non ambivano alla intangibilità filologica (e la prima in ispecie, quanto a ciò, fu discussa) ma semmai a scolpire e anzi a cogliere nel vivo i ritratti di maestri e compagni di via che potesse sentire fraterni e nello stesso tempo diametrali: da un lato il senso di un’esistenza costruita come mitobiografia in un perpetuo e irresolubile romanzo di formazione, Pavese, dall’altro il cimento asperrimo, alla lettera spietato, con una realtà refrattaria e rugosa, deprivata di speranza e di orizzonti salvifici che è invece propria di Fenoglio.
Per parte sua Lajolo
si mantiene nella zona intermedia, non meno impervia, di colui che
riceve l’impatto della realtà, fra storia e natura, fra duro
condizionamento ambientale e improvvisa esposizione ai fatti del
mondo, ma tuttavia rende il colpo dentro una dinamica di primitiva
inconsapevolezza che diviene via via, nel dolore e nella fisica
ustione, coscienza o comunque certezza finalmente onesta di esistere.
Tale è il decorso di
alcuni libri firmati da Lajolo nella sua piena maturità, testi che
oggi si direbbero di autofiction, tra narrativa e memorialistica,
capaci di raccontare dall’interno e con una intensità che davvero
è di pochi altri il Bildungsroman del ventenne sventato, entusiasta,
in camicia nera ai tempi dell’Impero e di un ormai trentenne, quel
medesimo ex adolescente, che sale in montagna con in partigiani ed è
costretto a battersi contro un doppio nemico, il nazifascista che lo
bracca ma anche e soprattutto l’ombra del giovane prima
imprigionato nella camicia nera, ferito e plagiato da un regime che
tutto prometteva a quelli come lui (un riscatto dalla miseria
familiare, un futuro di pace e lavoro, addirittura la rivoluzione
proletaria contro l’Italietta demoliberale) nello stesso momento in
cui li tradiva e li mandava a morte: dentro una bibliografia
cospicua, centrifuga, da autentico poligrafo, questa è la materia
prima di un trittico autobiografico, di grande spessore, che si
inaugura con gli appunti stesi in presa diretta di Classe
1912 (1945, poi col titolo A conquistare la rossa
primavera, ’75, e con una splendida prefazione di Giorgio
Amendola), prosegue con l’eponimo, che è anche il suo
capolavoro, Il voltagabbana (1963, riproposto anni fa nella
Bur) e si conclude idealmente con un’opera già di bilancio e
testamento, scritta nell’inframondo di una tarda
convalescenza, Veder l’erba dalla parte delle radici (’77).
Molto utile a
riordinare la sequenza dello scrittore piemontese e a mantenerne vivo
il nome nel senso comune dei lettori è adesso la monografia firmata
da Antonio Catalfamo, Davide Lajolo: il «nido» e il «sogno in
avanti» Il politico, il giornalista, lo scrittore (Solfanelli,
pp. 199, € 16,00), che si segnala per l’equilibrio interpretativo
(non era facile ordinare una produzione tanto fitta e talora
divaricata fra impegno politico, giornalismo e narrativa) così come
per la chiarezza espositiva, analitica e talora necessariamente
didascalica, pur in assenza, e sia detto per inciso, di una
bibliografia generale e di un indice dei nomi.
Il volume è diviso in
due parti, la prima e più sommaria è dedicata alla vicenda
politico-giornalistica, la seconda alla produzione letteraria vera e
propria dove, oltre ai titoli menzionati, si segnalano altre raccolte
di matrice autobiografica (I mè, 1977, Il merlo di campagna e
il merlo di città, ’83) e i testi che contengono incontri e
conversazioni con alcuni e primari compagni di via (Leonardo
Sciascia, Mario Soldati, Piero Chiara).
Quella di Davide
Lajolo è un’epica elementare e severa come il paesaggio da cui si
origina, la sua parola è schietta e denotativa, talvolta dura e
spessa come una tavola in cui siano visibili le vene del legno e le
successive intagliature. Così ad esempio lo scrittore presentando Il
voltagabbana, ritorna al fascismo dei suoi anni giovani, il fascismo
cosiddetto di sinistra che egli associa oramai alla fillossera che
attacca le vigne del Monferrato: «Questo libro è vero perché veri
sono i fatti, veri e vivi i personaggi. È soprattutto il tentativo
di spiegare, con spietata sincerità e con la maggiore umanità,
vicende che fanno parte della nostra storia nazionale e ai
giovanissimi, ai giovani e ai meno giovani i drammi tanto complessi e
strani di quegli anni. Il titolo del libro si riporta alla facile
accusa di troppi che non sanno o vogliono ignorare gli sviluppi della
vita e della storia rifugiandosi in una dogmatica e falsa coerenza a
idee e costumi che hanno portato tutti sull’orlo della rovina. (…)
Tutto qui: un contributo leale alla conoscenza di noi italiani».
Chi abbia avuto la ventura di conoscere o almeno di incontrare Davide Lajolo sa che il suo sguardo era altrettanto leale, sincero, e sa che somigliava alla sua scrittura.
Il manifesto/Alias – 4
marzo 2018
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