25 Aprile. Una
riflessione sul significato di questa giornata nella stagione delle
nuove diseguaglianze. Più che il presunto «tradimento dei valori»
è la loro mancata realizzazione nel passato che si sta rivelando un
costo insostenibile per la realtà odierna.
Claudio Vercelli
La Liberazione
incompiuta che interroga il presente
Raccontava Umberto Eco a
un pubblico americano: «In Italia vi sono oggi alcuni che si
domandano se la Resistenza abbia avuto un reale impatto militare sul
corso della guerra. Per la mia generazione la questione è
irrilevante: comprendemmo immediatamente il significato morale e
psicologico della Resistenza».
Forse sono queste le
parole che più e meglio raccolgono il senso dell’unicità di
quella esperienza, per molti aspetti irriducibile alle sole categorie
di comprensione, rielaborazione e valutazione che ci sono invece
imposte dal presente. Anche per questa ragione, però, rischiano di
rivelarsi come il più sincero epitaffio di una parabola
esistenziale, prima ancora che politica, dove al senso di un inedito
protagonismo, quello di coloro che fino ad allora erano rimasti ai
margini, si coniugava la gioia della liberazione soprattutto dalla
necessità di avere paura.
Poiché la dimensione
generazionale ha avuto una grande importanza in ciò che
leggiamo e interpretiamo come «lotta di Liberazione», tanto più se
la riconduciamo alle sue letture nell’oggi. E questo non perché
fosse un’impresa dei giovani contro gli «anziani» ma per il suo
costituire un moto di profonda frattura rispetto all’ordine
preesistente delle cose. Non solo, quindi, nei riguardi del fascismo
ma anche rispetto al passato liberale.
La cesura era duplice: da
una parte la necessità di una partecipazione attiva che univa classi
subalterne a esponenti dei ceti abbienti, rimescolando le carte di
una società altrimenti cristallizzata; dall’altra, la repentina
necessità di dovere esercitare una scelta, organizzandosi da sé e
in assenza di punti di riferimento, dopo vent’anni di profonda e
drammatica spoliticizzazione. Non è un caso, infatti, se nelle
memorie partigiane a svolgere una parte importante è il racconto del
rapporto con i luoghi, con il territorio, quasi a volere dire che la
libertà perdeva quel carattere di astrazione per incontrarsi con la
dura fisicità dell’ambiente naturale e sociale, riconquistato con
il «dover reagire». Di contro, invece, all’artificiosità del
fascismo, al suo rivelarsi, oltre che come tragedia nazionale, anche
in quanto messinscena farsesca. La Resistenza si manifestava quindi
soprattutto nei suoi caratteri aspri e imprevedibili, tanto incerti
quanto coinvolgenti.
La storiografia ha
recepito e sancito definitivamente la rilevanza di
quell’esperienza, per molti aspetti corale, collettiva, senz’altro
libertaria e quindi rifondativa. Pertanto identitaria, in quanto
trasfusa come ossatura degli ordinamenti collettivi successivi, a
partire dalla Repubblica e dalla Costituzione, soprattutto con la
partecipazione della collettività popolare al processo politico. Non
di meno, proprio in ragione di ciò, intimamente divisiva e
conflittuale, poiché il nesso tra Resistenza e conflitto rimane a
tutt’oggi insopprimibile.
L’azione politica,
ribadiva l’antifascismo organizzato, o è gestione «partigiana»
del conflitto oppure si riduce a rappresentazione farsesca di una
fittizia unitarietà. I valori, quindi, si formano nel confronto che
una nuova coalizione sociale oppone ai vecchi ordinamenti.
Due nomi tra i diversi che possono essere fatti, vanno ancora una volta richiamati: quello di Claudio Pavone, che nel 1991 ha celebrato i fondamenti morali del percorso antifascista e resistenziale così come quello di Santo Peli, che è riuscito a consegnarci una storia composita, della quale ci è restituita la trama della pluralità e della discontinuità delle appartenenze, delle motivazioni, delle partecipazioni così come della ricomposizione degli esiti.
Anche per questo, la
lotta di Liberazione non fu rivolta solo contro l’occupante e i
suoi tristi e cupi scherani neofascisti. Si trattava semmai di
liberare forze fino ad allora rimaste compresse e devitalizzate
poiché neutralizzate anticipatamente. Forze poste ai margini della
storia del nostro Paese e dell’Europa.
La letteratura, da
Calvino a Meneghello, da Pavese a Fenoglio ha immediatamente
suggellato, con le parole che le sono proprie, questo processo di
emancipazione, focalizzandosi sullo sconcertante sparigliamento di
molte identità precostituite, da quelle private e individuali a
quelle pubbliche.
Fu quindi una profonda fenditura quella che andò
consumandosi, poiché chiamava in causa non il manifesto ma il
celato, non l’evidente ma l’implicito, non il calcolato ma
l’imponderabile. Fu soprattutto un disincanto collettivo, che
obbligò intere collettività a pronunciarsi, fosse anche solo con la
colpevole omissione. Si doveva stare da una qualche parte, quindi per
qualcosa e con qualcuno. Il carattere sociale e per più aspetti
rivoluzionario di questo ribaltamento di ruoli, di questa clamorosa
rivendicazione di potere, di un tale bisogno di emanciparsi, lo si
misurava tanto più dal momento che ad essere interpellate non furono
solo figure d’avanguardia e consapevoli ma, soprattutto, molti dei
«retrocessi» da sempre.
Il bisturi incise a
forza anche in quella che poi sarebbe stata conosciuta prima
come «maggioranza silenziosa» e poi come «zona grigia». Non è un
caso, infatti, se oggi a rispondere livorosamente a quella storia si
sia incaricato perlopiù chi, recuperando la memorialistica
neofascista, celebra il richiamo alla nobilitazione del qualunquismo.
La scrittura di Giampaolo Pansa, fenomeno pubblicistico ad ampio
raggio, vellica quello che è il bisogno di cancellare qualsiasi
ragionamento politico attraverso l’esaltazione dell’indifferenza,
i ripetuti sarcasmi sull’impegno, la refrattarietà verso la
partecipazione e la presa di posizione, il tutto vissuto altrimenti
come la perdita di un confortevole orizzonte d’indistinzione nel
quale riconoscersi e paludarsi.
Dopo di che, ciò che
l’oggi ci consegna è comunque la dura pietra di una riflessione
impietosa. Non sul passato bensì sul presente. C’è infatti un
punto critico ineludibile. Se antifascismo e Resistenza sono alla
radice dell’identità costituzionale e repubblicana, la loro crisi
segna irreversibilmente il tramonto del fondamento sociale della
cittadinanza. Si tratta di un fenomeno non nuovo ma che adesso pare
essere giunto ad un punto di non ritorno.
Non è la dicotomia
fascismo e antifascismo ad essere messa in discussione, pur
nella sua evidente storicità, e neanche quella tra destra e
sinistra, quest’ultima destinata comunque a ridefinirsi in base al
mutamento sociale. Semmai è la dialettica tra inclusione ed
esclusione, laddove la ristrutturazione profonda delle società a
sviluppo avanzato ha rilanciato la diseguaglianza come condizione
immodificabile e, per più aspetti, «naturale». La lunga crisi
dell’antifascismo, allora non risponde tanto al cambio di passo
intergenerazionale – venendo definitivamente meno coloro che si
erano formati negli anni del fascismo, della Resistenza e della
Liberazione – bensì al declino di quelle culture politiche e delle
prassi istituzionali che dal rifiuto del Ventennio mussoliniano sono
concretamente derivate.
Per certi aspetti è la
stessa crisi dell’antifascismo a costituire l’indice di questo
transito definitivo dalla politica al populismo, quest’ultimo
segnato dalla democrazia senza la Costituzione, dalla vuota prassi in
assenza di concreti diritti. Se la Resistenza ci aveva consegnato il
bisogno del pluralismo, l’età che stiamo vivendo ci riconsegna
all’ansia dell’uniformità, senza la quale molti si sentono
perduti, messi ai margini dalle trasformazioni governate
dall’ipertrofia dei mercati. La questione dei diritti sociali,
fortemente ancorata alle politiche redistributive della ricchezza
sociale, è divenuta impronunciabile perché cancellando le seconde
si fa evanescente la prima. Oggi a essere messo in discussione è il
diritto all’eguaglianza, non quello alla differenza. Anche per
questo la società si affanna e ripiega su di sé, cercando nel
bisogno di identico, di «sempre uguale», la compensazione per la
perdita della speranza in un mutamento partecipato.
Un dispositivo,
quest’ultimo, che alimenta razzismi, sovranismi e suprematismi.
Alla grande espropriazione stanno non a caso rispondendo quelle
destre europee post-costituzionali, che hanno trovato uno spazio di
rivalsa proprio all’interno di tali dinamiche, rivestendo di
«sociale» il loro richiamo a un’identità collettiva che torna ad
essere vissuta come mitografia. In ciò sta la reviviscenza del
neofascismo, anche quando si presenta sotto spoglie edulcorate e
compiacenti, falsamente rassicuranti. Riflettere sul 25 aprile non
implica l’esercitarsi su un presunto «tradimento dei valori» ma
su quanto la loro mancata realizzazione nel passato si stia rivelando
un costo insostenibile in questo presente, dove tutto quello che è
solido svanisce nell’aria.
Il Manifesto – 25
Aprile 2018
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