Ricordo di un vescovo disobbediente
Luca Kocci
Nel
dicembre del 1992 a Sarajevo, sotto assedio dal mese di aprile,
cadono le bombe. Cinquecento pacifisti, il 7 dicembre, si imbarcano
ad Ancona e, dopo una traversata burrascosa con mare forza 8,
raggiungono Spalato e poi la capitale bosniaca, la sera dell'11
dicembre, per una marcia della pace attraverso la città promossa dai
Beati i costruttori di pace. Ci sono militanti nonviolenti e dei
partiti della sinistra, i sindaci, qualche parlamentare e diversi
preti. C'è anche don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente
di Pax Christi, che racconterà i momenti salienti di
quell'esperienza sulle colonne del “manifesto”, con cui
collaborava dal 1990. La marcia di Sarajevo sarà una delle sue
ultime azioni: morirà pochi mesi dopo, il 20 aprile del 1993,
sconfitto da un tumore che lo affliggeva già da molti mesi. La
strada per la pace è la «nonviolenza attiva, gli eserciti di domani
saranno questi: uomini disarmati», disse in un cinema di Sarajevo
illuminato da fiaccole e candele perché mancava l'elettricità. Un
discorso che ricorda molto bene Luigi Bettazzi, vescovo emerito di
Ivrea, anche lui presente alla marcia: «Don Tonino prese la parola
per dire che eravamo giunti fin lì per comunicare ai nostri fratelli
che eravamo loro vicini e che il mondo non li aveva dimenticati. In
secondo luogo che volevamo richiamare le nostre responsabilità nel
conflitto, di europei e di italiani. In terzo luogo, per ribadire che
in mezzo a quella violenza e a quella ferocia l'unica risposta
possibile era la nonviolenza».
La
pace, l'antimilitarismo, il disarmo, la giustizia sociale e la scelta
di schierarsi accanto agli oppressi sono state le stelle polari
dell'azione pastorale e sociale di don Tonino Bello. Battaglie
condotte con una radicalità che più volte lo hanno fatto scontrare
duramente con alcuni settori del mondo politico - sulle questioni
della guerra, degli armamenti, dell'obiezione di coscienza al
servizio militare, degli immigrati che all'inizio degli anni '90
iniziavano ad arrivare sulle coste italiane e pugliesi in particolare
- e delle gerarchie ecclesiastiche, che non condividevano le sue
posizioni "estreme", in realtà solo profondamente fedeli
alVangelo e alConcilio Vaticano II. Quando interviene alle assemblee
della Cei, gli altri vescovi lo ascoltano con sorrisetti di
compiacenza e mormorii di dissenso. Ma arrivano anche i richiami
formali. «Mi dicono che sei stato rimproverato», gli scrive in una
lettera padre DavidTuroldo, «a maggior ragione intervieni,
intervieni sempre di più, e insieme di' che sei stato richiamato,
dillo pubblicamente, perché di questo hanno paura».
Salentino
di Alessano, dove nasce nel 1935, Tonino Bello viene ordinato prete
nel 1957. Negli anni ‘60 accompagna spesso a Roma il suo ve-scovo,
impegnato nei lavori del Concilio Vaticano II, partecipando con
entusiasmo alle istanze di rinnovamento e di aggiornamento radicale
della vita della Chiesa. Diventa parroco, prima ad Ugento, poi a
Tricase, dove il suo impegno comincia a delinearsi: fonda la Caritas,
promuove l'Osservatorio sulle povertà, organizza incontri sul
Concilio e sui temi della giustizia e della pace. Nel 1982 viene
ordinato vescovo della diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e
Terlizzi, il paese di Nichi Vendola, che sarà sempre molto vicino a
Bello. «La bellezza e la scandalosità delle sue parole rispetto al
perbenismo piccolo-borghese che impacchettava la vita del clero in un
cattolicesimo pacificato, pronto a fare sconti soprattutto ai
potenti, fu un'illuminazione», spiega Vendola in un'inter-vista alla
“Gazzetta del Mezzogiorno” di venerdì. «Ci insegnò non a
consolare gli afflitti, ma ad affliggere i consolati. Ci spiegò che
i poveri non vanno aiutati con l'ottica neocoloniale e che bisogna
dividere con loro non solo il pane».
È
la «Chiesa del grembiule», una delle immagini più efficaci coniate
da don Bello, insieme a quella della «convivialità delle
differenze».«L'accostamento della stola con il grembiule a qualcuno
potrà apparire un sacrilegio», scriveva.«Eppure è l'unico
paramento sacerdotale registrato nel Vangelo che, per la "messa
solenne" celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non
parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla
solo di questo panno rozzo che il maestro si cinse ai fianchi» per
lavare i piedi ai discepoli. È la traduzione plastica della «Chiesa
povera e dei poveri» sognata dal Concilio e da Giovanni XXIII.
Il
vescovo di Molfetta sceglie la pace e il disarmo, diventa presto uno
dei punti di riferimento del movimento pacifista italiano, sia della
componente cattolica – nel 1985 viene nominato presidente di Pax
Christi al posto di Bettazzi, che ha concluso il suo mandato - che
laica: interviene contro la militarizzazione della Puglia - dal mega
poligono di tiro che avrebbe sottratto migliaia di ettari di terra a
contadini e allevatori della Murgia barese, all'installazione degli
F16 a Gioia del Colle, convincendo gli altri vescovi pugliesi a
scrivere undocumento contro i cacciabombardieri - e marcia a Comiso
contro gli euromissili; attacca le politiche di riarmo del governo
Craxi (incassando un severo richiamo da parte del presidente della
Cei, il cardinal Poletti) e sostiene la campagna "Contro i
mercanti di morte" che porterà all'approvazione nel'90 della
legge 185 che regola il commercio di armi; difende pubblicamente
monsignor Bettazzi, oggetto di una dura campagna del Giornale,
diretto allora da Indro Montanelli, che lo accusa di scarso senso
dello Stato per aver sostenuto la campagna di obiezione di coscienza
alle spese militari; nella sua diocesi accompagna le lotte dei
cassintegrati, deidisoccupati e degli sfrattati, che spesso accoglie
nel palazzo vescovile.
Nel
1991 l'Iraq di Saddam Hussein invade il Kuwait e gli Usa, insieme
agli alleati occidentali, bombardano Baghdad, in diretta televisiva.
Tonino Bello scrive ai parlamentari perché non approvino
l'intervento armato e – comefece dieci anni prima mons.Romero
invitando i militari a disobbedire agli ordini ingiusti dei generali
- paventa la possibilità di «dover esortare direttamente i soldati,
nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria
coscienza l'enorme gravità morale dell'uso dell earmi». Ripeterà
l'appello davanti alle telecamere di Samarcanda, e Michele Santoro lo
invita a moderare i toni e a non incitare alla diserzione. Nei giorni
successivi arrivano puntuali i rimproveri - ma anche gli attestati di
solidarietà - da parte della gerarchia ecclesiastica militarista e
dei politici patriottici. Ma tira dritto e anzi l'anno dopo polemizza
con il presidente della Repubblica Cossiga che, il giorno prima di
sciogliere il Parlamento, rinvia alle Camere la nuova legge
sull'obiezione di coscienza (un nuovo testo verrà approvato solo nel
1998). Intanto in Puglia approdano le prime navi con migliaia di
albanesi, che il governo rinchiude nello stato di Bari, e don Tonino
è in prima linea, sui moli, ad organizzare l'accoglienza. Ma arriva
anche il cancro, allo stomaco. Operazioni e terapie non riescono a
vincere il male. C'è solo il tempo di andare a Sarajevo, sotto le
bombe, e poi di morire.
Da Il
manifesto, 21 aprile 2013
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