05 maggio 2018

BERGOGLIO E GRAMSCI: due letture dell'indifferenza.

La copertina dell'ultimo numero della rivista POLIEDRO

L' apertura dell'articolo
      Nell'ultimo numero di POLIEDRO, mensile dell'Arcidiocesi di Palermo, potete leggere un mio articolo che mette a confronto l' analisi gramsciana dell'indifferenza religiosa e sociale con quella di Papa Francesco. Ripropongo di seguito la parte iniziale dell'articolo:

           L' INDIFFERENZA
 Una parola chiave che lega punti di vista diversi 

Nel febbraio del 1917, mentre è ancora in corso la prima guerra mondiale, il giovane socialista Antonio Gramsci, allora studente di Lettere al’Università di Torino, scrive un celebre articolo dove, in un suo passo centrale, si afferma:

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […]. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare […], nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? (A. Gramsci, Indifferenti, 1917; ora in Scritti giovanili, Torino: Einaudi, 1960, pp. 78-79)

Chi scrive è rimasto particolarmente colpito dal fatto che, in uno dei suoi primi interventi pubblici, subito dopo la sua imprevista elezione al soglio pontificio, Francesco, il papa argentino di origini italiane, abbia ripreso una parola chiave del pensiero di Antonio Gramsci denunciando la “globalizzazione dell’indifferenza” di fronte ad un problema epocale del nostro tempo, come quello delle migrazioni, di cui la sua famiglia d’origine aveva fatto diretta esperienza:


Oggi nessuno si sente responsabile dei migranti che muoiono in mare. Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna, siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro. E con questo ci sentiamo a posto. […] La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. (Dall’ Omelia di Papa Francesco tenuta a Lampedusa nel luglio del 2013)

Naturalmente diversi rimangono il lessico e la visione complessiva del mondo tra Gramsci e il papa argentino. D’altra parte, dal momento in cui in cui vengono scritte le parole del sardo ad oggi, è trascorso più di un secolo segnato da due guerre mondiali, grandi rivoluzioni che hanno tradito le loro originarie promesse e tante dolorose tragedie.

È indubbio che il tema dell’indifferenza viene assunto da Francesco con una connotazione diversa rispetto a Gramsci. Eppure, tra i due diversi punti di vista esiste una convergenza che cercheremo di mostrare, anche per mettere in discussione alcuni luoghi comuni duri a morire.

La religione nella visione del mondo gramsciana


        Il giovane Gramsci è stato fortemente attratto dal pensiero di Benedetto Croce. Anche per questo ha riconosciuto che la religione è «un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo». Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica “Sotto la Mole” dell’edizione torinese dell’Avanti! il 4 marzo 1916.[1]

Il sardo – che mostra persino di seguire la miriade di fogli e riviste parrocchiali che, pur sfuggendo ad ogni controllo critico, continuano a circolare in tutte le case – è particolarmente colpito dalla capacità della Chiesa cattolica di creare consenso attorno a sé, riuscendo a mantenere costantemente un rapporto tra intellettuali e semplici. Scriverà infatti nei Quaderni:


la forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa religiosa e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori (Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Torino: Einaudi 1975, vol. II, pp.1380-1381)

Su questo punto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo del 1965, prese un incredibile abbaglio, mai abbastanza stigmatizzato, considerando populista la ben più complessa nozione gramsciana di nazionale-popolare. Gramsci non ha mai mitizzato il popolo e non l’ha mai considerato naturaliter progressista. Il sardo, con il suo spiccato realismo critico, ha semplicemente osservato che senza la partecipazione popolare nessun cambiamento può essere realizzato.

Ma proprio qui il Gramsci maturo prenderà le distanze da Benedetto Croce, la cui influenza, comunque, ha sempre lealmente riconosciuta:

Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione, e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una conquista civile che non deve essere perduta. (Lettere dal carcere, 17 agosto 1931, ultima ed. Torino: Einaudi, 1997, p. 764)

Religione e serenità è il testo crociano sull’argomento prediletto da Gramsci. Lo ritroviamo assunto a modello di analisi critica del fenomeno religioso, in modo singolarmente continuo e costante, dai suoi primi scritti agli ultimi anni di vita. Croce lo aveva pubblicato nel 1915. Gramsci vi si riconosce immediatamente e, nel febbraio del 1917, oltre a proporlo nel numero unico «La Città Futura», lo usa come pungolo nei dibattiti in cui impegnava i giovani socialisti torinesi nel suo Club di vita morale. Lo stesso saggio verrà riproposto nel 1920 su «L’Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista».

Ma è in una famosa pagina dei Quaderni che il testo crociano torna ad essere discusso, nel contesto di una più ampia ed articolata riflessione critica sul filosofo napoletano:


Per il Croce la religione è una concezione della realtà, con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, ogni concezione del mondo, in quanto è diventata “fede” […] Il Croce tuttavia è molto cauto nei rapporti con la religione tradizionale: lo scritto più avanzato è il capitolo IV dei Frammenti di Etica […] Religione e serenità (Quaderno 10, La filosofia di B. Croce, 1932-1935, Quaderni del carcere, ed. cit., vol. II, p. 1217.)

Segue un’accurata analisi delle differenti posizioni assunte dal Croce e dal Gentile nei confronti della religione cattolica, con una punta polemica rivolta particolarmente a quest’ultimo che aveva introdotto l’insegnamento confessionale della religione nella scuola elementare. La nota si conclude con un significativo riconoscimento del Croce quale “vero riformatore religioso”, soprattutto per aver capito che «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», poiché «la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna». Una straordinaria traduzione del testo crociano si trova nella memorabile lettera che Gramsci scrive nel 1931 alla madre. In essa infatti si trova riassunto, in forma toccante e personalissima, lo stesso punto di vista storicistico del filosofo napoletano:


Se ci pensi bene tutte le questioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli. (Lettere dal carcere, Torino: Einaudi, 1965, p. 442)

In una delle più originali pagine dei Quaderni, dedicate alla riflessione intorno alla “storicità” della “filosofia della prassi” – termine col quale, secondo una certa tradizione italiana, Gramsci designa il pensiero di K. Marx, che distingue nettamente dall’economicismo e dal materialismo volgare – il cristianesimo viene presentato come «la più gigantesca utopia […] apparsa nella storia, poiché è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica e si tenga presente che la figura del “mito” nel pensiero gramsciano non ha sempre connotazione negativa – le contraddizioni reali della vita storica». Infatti, affermare come fa la religione cristiana che

l’uomo ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, pur ammettendo che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro, utopico

ha contribuito per Gramsci in modo decisivo a diffondere nel mondo «le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà». Queste ultime infatti

fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni» (Quaderno 11, Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, Quaderni del carcere, ed. cit., vol. II, p. 1488)



Gramsci e la tradizione biblica nella teologia della liberazione

Quest’ultimo pensiero di Gramsci si ritrova, espresso con parole diverse, in molti esponenti della teologia della liberazione sorta e sviluppatasi in America Latina nel corso degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. D’altra parte l’opera di Antonio Gramsci aveva trovato terreno fertile nei paesi latinoamericani e i suoi scritti, seppure in modo parziale, circolavano già in quei Paesi.
Non può sorprendere, pertanto, che l’opera fondativa di questa corrente teologica, pubblicata da Gustavo Gutiérrez nel 1971, si apra proprio con una citazione dei Quaderni del carcere:

Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo », e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama «folklore». (A. Gramsci, Quaderno 11, Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, Quaderni del carcere, ed. cit., vol. II, p. 1375, cit. da G. Gutiérrez, Teologia della liberazione, Editrice Queriniana, Brescia 2012, pag.55, nota 1)

In particolare, il teologo peruviano, tra gli iniziatori di questa corrente teologica, ha contribuito in modo decisivo a diffondere nella Chiesa cattolica latinoamericana la cosiddetta “opzione preferenziale per i poveri”.
Gutiérrez e Leonardo Boff, per superare le resistenze che il loro pensiero incontrava tra i settori più conservatori del mondo cattolico, hanno più volte ribadito che l’uso originale che proponevano di alcune categorie marxiste, utili per la comprensione del sottosviluppo e delle disuguaglianze prodotte dal sistema di produzione capitalistico, non comportava automaticamente l’assunzione della filosofia marxista. Una cosa è la critica del neocolonialismo che regna nell’America Latina, frutto della divisione internazionale del lavoro che caratterizza l’odierno neocapitalismo; altra cosa la filosofia marxista – così come viene comunemente intesa e non fu sicuramente interpretata da Antonio Gramsci – come una forma di materialismo e/o di economicismo intriso di ateismo, ovviamente incompatibile con la visione del mondo cristiana. Boff, in specie, è stato particolarmente esplicito al riguardo:

sostenere che la teologia della liberazione abbia come padre K. Marx è frutto di fantasia e non ha il minimo di fondamento nei testi e nella pratica pastorale dei teologi della liberazione. I testi che le comunità di base leggono sono quelli di Gutiérrez, di Carlos Mesters, di Frei Betto, di Jon Sobrino, di mio fratello Clodovis e miei: questa è la sola teologia della liberazione, l’altra non esiste. D’altra parte non c’è teologia derivata direttamente dal Vangelo, c’è solo quella che le Comunità fanno e che è il prodotto della lettura popolare della Bibbia.[2]

Ora non c’è alcun dubbio che il Cardinale argentino Bergoglio, ben prima di diventare Papa Francesco, avesse fatto propria questa opzione. Non può sorprendere, pertanto, che il nuovo Pontefice, fin dal suo primo incontro con la stampa, abbia svelato il suo sogno di una Chiesa povera e per i poveri. E, in una recente ricerca sul lessico usato da Papa Francesco è stata rilevata la centralità che vi hanno i termini poveri, povertà, lavoro, capitalismo.
Ma Francesco si sofferma in modo più organico sul tema delle ingiustizie, prodotte dalla globalizzazione neocapitalistica, nella sua prima esortazione apostolica del novembre 2013. In uno dei passi della Evangelii gaudium, che ha suscitato tante discussioni, si prendono di mira alcuni dei luoghi comuni del pensiero economico dominante contemporaneo

CONTINUA

[1] Da questo stesso articolo giovanile di Gramsci prende le mosse Franco Lo Piparo, Per Gramsci la religione è necessaria, «L’Osservatore Romano», 26 aprile 2017. E, anche se risulta convincente gran parte dell’articolo del filosofo bagherese che con i suoi studi ha pur dato un contributo notevole ad una più attenta lettura dell’opera gramsciana, non ci convince la conclusione che insiste sulla sua ossessiva ricerca dell’inesistente “spirito liberal-democratico” che, secondo la sua immaginazione, anima tutti i Quaderni del pensatore sardo.
[2] Leonardo Boff, Teologia della liberazione ed ecologia: una lotta comune per la sinfonia del creato. Intervista, in «Adista», a. XXX (1996), n. 44, p. 4. Vedi pure Rosario Giuè, Chiesa e liberazione. Linee essenziali di teologia della liberazione, Todi: Tau Editrice, 2013, pp. 28-31.



Nessun commento:

Posta un commento