La copertina dell'ultimo numero della rivista POLIEDRO
Nell'ultimo numero di POLIEDRO, mensile dell'Arcidiocesi di Palermo, potete leggere un mio articolo che mette a confronto l' analisi gramsciana dell'indifferenza religiosa e sociale con quella di Papa Francesco. Ripropongo di seguito la parte iniziale dell'articolo:
L' INDIFFERENZA
Una parola chiave che lega punti di vista diversi
Una parola chiave che lega punti di vista diversi
Nel febbraio del 1917, mentre è ancora
in corso la prima guerra mondiale, il giovane socialista Antonio Gramsci,
allora studente di Lettere al’Università di Torino, scrive un celebre articolo
dove, in un suo passo centrale, si afferma:
L’indifferenza è il peso morto della
storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma
opera. […]. Ciò che succede, il male che si abbatte
su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia
promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere
uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare […], nessuno o pochi si
domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far
valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
(A. Gramsci, Indifferenti, 1917; ora
in Scritti giovanili, Torino: Einaudi,
1960, pp. 78-79)
Chi scrive è rimasto particolarmente
colpito dal fatto che, in uno dei suoi primi interventi pubblici, subito dopo
la sua imprevista elezione al soglio pontificio, Francesco, il papa argentino
di origini italiane, abbia ripreso una parola chiave del pensiero di Antonio
Gramsci denunciando la “globalizzazione dell’indifferenza” di fronte ad un
problema epocale del nostro tempo, come quello delle migrazioni, di cui la sua
famiglia d’origine aveva fatto diretta esperienza:
Oggi
nessuno si sente responsabile dei migranti che muoiono in mare. Abbiamo perso
il senso della responsabilità fraterna, siamo caduti nell’atteggiamento
ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella
parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio
della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada,
non è compito nostro. E con questo ci sentiamo a posto. […] La cultura del
benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida
degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla,
sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso
gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. (Dall’ Omelia di
Papa Francesco tenuta a Lampedusa nel luglio del 2013)
Naturalmente diversi rimangono il lessico
e la visione complessiva del mondo tra Gramsci e il papa argentino. D’altra parte,
dal momento in cui in cui vengono scritte le parole del sardo ad oggi, è
trascorso più di un secolo segnato da due guerre mondiali, grandi rivoluzioni
che hanno tradito le loro originarie promesse e tante dolorose tragedie.
È indubbio che il tema dell’indifferenza
viene assunto da Francesco con una connotazione diversa rispetto a Gramsci. Eppure,
tra i due diversi punti di vista esiste una convergenza che cercheremo di
mostrare, anche per mettere in discussione alcuni luoghi comuni duri a morire.
La religione nella
visione del mondo gramsciana
Il giovane Gramsci è stato fortemente
attratto dal pensiero di Benedetto Croce. Anche per questo ha riconosciuto che
la religione è «un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così
sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze
che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile
sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito
alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo».
Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica “Sotto la Mole”
dell’edizione torinese dell’Avanti!
il 4 marzo 1916.[1]
Il sardo – che mostra persino di seguire
la miriade di fogli e riviste parrocchiali che, pur sfuggendo ad ogni controllo
critico, continuano a circolare in tutte le case – è particolarmente colpito
dalla capacità della Chiesa cattolica di creare consenso attorno a sé,
riuscendo a mantenere costantemente un rapporto tra intellettuali e
semplici. Scriverà infatti nei Quaderni:
la forza delle religioni e specialmente della chiesa
cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la
necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa religiosa e lottano perché
gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori (Quaderni del carcere,
ed. critica a cura di V. Gerratana, Torino: Einaudi 1975, vol. II, pp.1380-1381)
Su questo punto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo del 1965, prese un
incredibile abbaglio, mai abbastanza stigmatizzato, considerando populista la ben più complessa nozione
gramsciana di nazionale-popolare.
Gramsci non ha mai mitizzato il popolo e non l’ha mai considerato naturaliter progressista. Il sardo, con
il suo spiccato realismo critico, ha semplicemente osservato che senza la
partecipazione popolare nessun cambiamento può essere realizzato.
Ma proprio qui il Gramsci maturo
prenderà le distanze da Benedetto Croce, la cui influenza, comunque, ha sempre lealmente
riconosciuta:
Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di
riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui
primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione, e
s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si
vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggiore contributo alla cultura
mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una
conquista civile che non deve essere perduta. (Lettere dal carcere, 17 agosto 1931, ultima ed. Torino: Einaudi,
1997, p. 764)
Religione e serenità è il testo crociano sull’argomento
prediletto da Gramsci. Lo ritroviamo assunto a modello di analisi critica del
fenomeno religioso, in modo singolarmente continuo e costante, dai suoi primi
scritti agli ultimi anni di vita. Croce lo aveva pubblicato nel 1915. Gramsci
vi si riconosce immediatamente e, nel febbraio del 1917, oltre a proporlo nel numero
unico «La Città Futura», lo usa come pungolo nei dibattiti in cui impegnava i
giovani socialisti torinesi nel suo Club
di vita morale. Lo stesso saggio verrà riproposto nel 1920 su «L’Ordine Nuovo.
Rassegna settimanale di cultura socialista».
Ma è in una famosa pagina dei Quaderni che il testo crociano torna ad
essere discusso, nel contesto di una più ampia ed articolata riflessione
critica sul filosofo napoletano:
Per
il Croce la religione è una concezione della realtà, con una morale conforme a
questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni
filosofia, ogni concezione del mondo, in quanto è diventata “fede” […] Il Croce
tuttavia è molto cauto nei rapporti con la religione tradizionale: lo scritto
più avanzato è il capitolo IV dei Frammenti
di Etica […] Religione e serenità (Quaderno
10, La filosofia di B. Croce, 1932-1935,
Quaderni del carcere,
ed. cit., vol. II, p. 1217.)
Segue un’accurata analisi delle
differenti posizioni assunte dal Croce e dal Gentile nei confronti della
religione cattolica, con una punta polemica rivolta particolarmente a
quest’ultimo che aveva introdotto l’insegnamento confessionale della religione
nella scuola elementare. La nota si conclude con un significativo
riconoscimento del Croce quale “vero riformatore religioso”, soprattutto per
aver capito che «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», poiché «la parte
vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna». Una
straordinaria traduzione del testo crociano si trova nella memorabile lettera
che Gramsci scrive nel 1931 alla madre. In essa infatti si trova riassunto, in
forma toccante e personalissima, lo stesso punto di vista storicistico del
filosofo napoletano:
Se ci pensi bene tutte le questioni dell’anima e
dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo
che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si
trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre
in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti
i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue
forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico
paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri
figli. (Lettere dal
carcere, Torino: Einaudi, 1965, p. 442)
In una delle più originali pagine dei Quaderni, dedicate alla riflessione
intorno alla “storicità” della “filosofia della prassi” – termine col quale,
secondo una certa tradizione italiana, Gramsci designa il pensiero di K. Marx, che
distingue nettamente dall’economicismo e dal materialismo volgare – il
cristianesimo viene presentato come «la
più gigantesca utopia […] apparsa nella storia, poiché è il tentativo più
grandioso di conciliare in forma mitologica – e si tenga presente
che la figura del “mito” nel pensiero gramsciano non ha sempre connotazione
negativa – le contraddizioni reali della vita storica». Infatti, affermare come
fa la religione cristiana che
l’uomo
ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello
degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, pur
ammettendo che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un
altro, utopico
ha
contribuito per Gramsci in modo decisivo a diffondere nel mondo «le idee di
uguaglianza, fratellanza e libertà». Queste ultime infatti
fermentano
tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né
fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in
ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto
forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni» (Quaderno
11, Appunti per una introduzione e un
avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, Quaderni del carcere, ed. cit.,
vol. II, p. 1488)
Gramsci e la tradizione
biblica nella teologia della liberazione
Quest’ultimo pensiero di Gramsci si
ritrova, espresso con parole diverse, in molti esponenti della teologia della
liberazione sorta e sviluppatasi in America Latina nel corso degli anni ‘60 e ‘70
del secolo scorso. D’altra parte l’opera di Antonio Gramsci aveva trovato
terreno fertile nei paesi latinoamericani e i suoi scritti, seppure in modo
parziale, circolavano già in quei Paesi.
Non può sorprendere, pertanto, che l’opera
fondativa di questa corrente teologica, pubblicata da Gustavo Gutiérrez nel
1971, si apra proprio con una citazione dei Quaderni
del carcere:
Occorre
distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di
molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una
determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e
sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini
sono «filosofi», definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia
spontanea», propria di «tutto il mondo », e cioè della filosofia che è
contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti
determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2)
nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in
tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di
operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama «folklore». (A.
Gramsci, Quaderno 11, Appunti per una introduzione e un avviamento
allo studio della filosofia e della storia della cultura, 1932-1933, Quaderni del carcere, ed. cit.,
vol. II, p. 1375, cit. da G. Gutiérrez, Teologia
della liberazione, Editrice Queriniana, Brescia 2012, pag.55, nota 1)
In particolare, il teologo peruviano,
tra gli iniziatori di questa corrente teologica, ha contribuito in modo
decisivo a diffondere nella Chiesa cattolica latinoamericana la cosiddetta “opzione
preferenziale per i poveri”.
Gutiérrez e Leonardo Boff, per superare
le resistenze che il loro pensiero incontrava tra i settori più conservatori
del mondo cattolico, hanno più volte ribadito che l’uso originale che
proponevano di alcune categorie marxiste, utili per la comprensione del
sottosviluppo e delle disuguaglianze prodotte dal sistema di produzione
capitalistico, non comportava automaticamente l’assunzione della filosofia
marxista. Una cosa è la critica del neocolonialismo che regna nell’America
Latina, frutto della divisione internazionale del lavoro che caratterizza l’odierno
neocapitalismo; altra cosa la filosofia marxista – così come viene comunemente intesa
e non fu sicuramente interpretata da Antonio Gramsci – come una forma di materialismo
e/o di economicismo intriso di ateismo, ovviamente incompatibile con la visione
del mondo cristiana. Boff, in specie, è stato particolarmente esplicito al
riguardo:
sostenere
che la teologia della liberazione abbia come padre K. Marx è frutto di fantasia
e non ha il minimo di fondamento nei testi e nella pratica pastorale dei
teologi della liberazione. I testi che le comunità di base leggono sono quelli
di Gutiérrez, di Carlos Mesters, di Frei Betto, di Jon Sobrino, di mio fratello
Clodovis e miei: questa è la sola teologia della liberazione, l’altra non
esiste. D’altra parte non c’è teologia derivata direttamente dal Vangelo, c’è
solo quella che le Comunità fanno e che è il prodotto della lettura popolare
della Bibbia.[2]
Ora non c’è alcun dubbio che il
Cardinale argentino Bergoglio, ben prima di diventare Papa Francesco, avesse
fatto propria questa opzione. Non può sorprendere, pertanto, che il nuovo
Pontefice, fin dal suo primo incontro con la stampa, abbia svelato il suo sogno
di una Chiesa povera e per i poveri. E, in una recente ricerca sul lessico
usato da Papa Francesco è stata rilevata la centralità che vi hanno i termini poveri, povertà, lavoro, capitalismo.
Ma Francesco si sofferma in modo più organico sul
tema delle ingiustizie, prodotte dalla globalizzazione neocapitalistica, nella sua
prima esortazione apostolica del novembre 2013. In uno dei passi della Evangelii gaudium, che ha suscitato
tante discussioni, si prendono di mira alcuni dei luoghi comuni del pensiero
economico dominante contemporaneo
CONTINUA
[1] Da questo stesso
articolo giovanile di Gramsci prende le mosse Franco Lo Piparo, Per Gramsci la religione è necessaria, «L’Osservatore
Romano», 26 aprile 2017. E, anche se risulta convincente gran parte
dell’articolo del filosofo bagherese che con i suoi studi ha pur dato un
contributo notevole ad una più attenta lettura dell’opera gramsciana, non ci
convince la conclusione che insiste sulla sua ossessiva ricerca
dell’inesistente “spirito liberal-democratico” che, secondo la sua
immaginazione, anima tutti i Quaderni
del pensatore sardo.
[2] Leonardo Boff, Teologia della liberazione ed ecologia:
una lotta comune per la sinfonia del creato. Intervista, in «Adista», a.
XXX (1996), n. 44, p. 4. Vedi pure Rosario Giuè, Chiesa e liberazione. Linee essenziali di teologia della liberazione, Todi:
Tau Editrice, 2013, pp. 28-31.
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