Una tradizione
antichissima
Il
cantar maggio si inseriva in un complesso di riti a sfondo agreste
che celebravano il ritorno della primavera e la forza generatrice
della natura. Ancora nel Cinquecento la festa manteneva caratteri
pagani ed erotici che turbavano non poco le autorità ecclesiastiche,
come dimostra un intervento censorio del vescovo di Savona che nel
1589 denunciava “il pericolo di peccare nottetempo” durante la
celebrazione di questi riti.
Guido Araldo
Calendimaggio
Alle calende di maggio,
primo giorno di maggio, si teneva la grande festa del Calendimaggio,
caduta in disuso per un lungo periodo della Storia e tornata
trionfante, in maniera addirittura straordinaria, come “festa
mondiale dei lavoratori”. Potenza universale dell’archetipo
collettivo? Come negare che la “festa dei lavoratori”, celebrata
in tutto il mondo, non sia altro che la ricorrenza moderna
dell’antica “festa di metà primavera”? Concetti nuovi per
sostanza antica.
Il calendimaggio era la
festa per eccellenza di metà primavera, quando si andava nei campi
inneggiando al trionfo della bella stagione: al ritorno di Proserpina
dopo lunga permanenza invernale nel regno di Ade. Infatti la festa
del Calendimaggio si colloca a “metà strada” tra l’equinozio
di primavera e il solstizio d’estate: il momento in cui trionfa la
bella stagione dei fiori e dei frutti. Una festa che aveva
sicuramente una grande importanza tanto presso i Liguri quanto presso
i Celti, gli Etruschi, gli Umbri e gli altri popoli europei.
La primavera era accolta
con un canto antico: il cantè mäg (il cantare maggio); una
tradizione ormai desueta ma cinquant’anni fa ancora molto diffusa.
Un canto accompagnato da una questua propiziatoria e benaugurale, con
il dono di dolci, uova e il buon vino novello ormai giunto a
maturazione. I partecipanti a questa festa erano noti come i
“Maggianti” e avevano per simbolo i fiori del maggiociondolo. La
tradizione antica imponeva che fossero lasciati fiori e ramoscelli
intrecciati sui davanzali delle case di fanciulle in età da marito;
poi, in prossimità del tramonto, venivano eletti il re e la regina
del Calendimaggio, come accadeva nel giorno del giovedì grasso di
Carnevale.
Anticamente nelle Alpi
Occidentali era consuetudine condurre fuori dalle stalle il bestiame
nei primi giorni di maggio, dopo la lunga parentesi invernale in cui
era rimasto chiuso nelle stalle, per farlo pascolare e permettergli
d’assaporare la prima erba.
Un tempo, in occasione
del calendimaggio erano accesi grandi falò propiziatori,
anticipatori di quelli di san Giovanni al solstizio d’estate. E il
bestiame era indotto a camminare sulle ceneri di quei falò,
rendendolo partecipe a un collettivo rito propiziatorio.
Nel Medioevo, nel giorno
del Calendimaggio, si tenevano imponenti processioni con gli animali
domestici, principalmente mucche, buoi, cavalli, maiali, capre e
pecore, adornati di ghirlande palesemente pagane. Processioni che
confluivano sul sagrato della chiesa, affinché anche gli armenti, e
non soltanto i cristiani, ricevessero la santa benedizione.
Un altro rituale
antichissimo, ancora diffuso in molte località dell’Europa
continentale, è “l’albero di maggio” che veniva alzato
all’alba del Calendimaggio. “In Svezia, il 1° maggio” annotava
Frazer “si soleva portare nei villaggi un gran pino che veniva
dapprima adornato di nastri e poi alzato. Il popolo vi danzava
allegramente attorno a suon di musica. L’albero verde restava nel
villaggio per tutto l’anno, fino al Calendimaggio successivo,
quando veniva sostituito con un nuovo pino».
Un simbolo in seguito
evolutasi nell’albero della cuccagna, attorno al quale si ballava
fino ad ora tarda. In origine pare che questo “rito”, palesemente
druidico per la presenza di un albero sacro, tendesse ad assicurare
la protezione dello “spirito dei grandi alberi”, nell’attesa di
un anno ricco e salubre per l’intera collettività, foriero di
abbondanti raccolti. Inizialmente si trattava di un albero sfrondato,
adornato con corone di foglie e fiori, sul quale in seguito furono
aggiunti dolci, salsicce, uova e altri cibi impreziositi da nastri
variopinti. I giovani vi si arrampicavano per impossessarsene.
Quell’albero altro non era che il simbolo dell’Albero Cosmico, le
cui fronde si trovano al di là dal visibile; per certi versi simile
alla scala di Giacobbe: asse del mondo tramite il quale si può
giungere alla comunione con il divino. In Andalusia l’albero del
Calendimaggio fu ben presto sostituito dalla Croce di Maggio, poiché
Cristo corrisponderebbe all’Albero della Vita.
Interessante la “storia
dell’albero della cuccagna”. Troviamo la parola cuccagna citata
per la prima volta nei Carmina Burana del 1164, dov’è presente un
abate godereccio soprannominato abbas cuccaniensis. La prima
descrizione del “paese della Cuccagna” risale a una favola in
versi della Piccardia, risalente alla prima metà del XIII secolo. Vi
si racconta di un irriverente pellegrinaggio ordinato dal papa in una
“terra promessa” dove “più si dorme e più si guadagna”, non
si lavora, “ogni peto vale un tallero”, “i muri delle case sono
fatti di spigole, salmoni e aringhe"; i tetti di prosciutti e
salsicce. In questo straordinario paese del bengodi le stesse oche si
rosolano pasciute negli spiedi e i fiumi scorrono pieni di buon vino.
L’ipotesi antropologica
di James Frazer fa risalire la tradizione dell’albero di maggio
molto indietro nel tempo, collegandola al culto degli alberi diffuso
in tutta Europa. Sembra che il nome stesso dei liguri Bagienni derivi
dal faggio (fagus in latino, ma anche bagus). La stessa festa del
Calendimaggio sarebbe la persistenza degli antichi culti della
fertilità presso le popolazioni agricole. L’albero di maggio era
il simbolo della nuova stagione e delle sue promesse di abbondanza.
L’arrampicarsi
sull’albero di maggio, poi della cuccagna, non era soltanto un
gioco fine a se stesso, ma l’occasione per palesare alle ragazze la
destrezza dei giovani futuri loro pretendenti. Per la verità,
l’albero della cuccagna comportava anche un insegnamento morale,
antichissimo: per ogni premio, c’è la sua fatica.
Secondo alcuni storici il
Calendimaggio corrispondeva alla festa celtica di Beltane:
letteralmente “fuoco luminoso” nell’antica lingua irlandese.
Emblematica la documentazione fornita dal vescovo di Savona Pier
Francesco Costa, che nel 1589 emise il decreto “De festorum Deiorum
cultu et observantia” dove sta scritto: “In alcuni paesi di
questa diocesi persistono usi e abusi che sembrano rievocare
superstizioni pagane. Ad esempio la notte che precede il
Calendimaggio maschi e femmine, anche vergini, vanno per vigne e
boschi a tagliare alberi o grossi rami che poi piantano di fronte
alle loro cose: un rito che chiamano nella loro lingua blasfema
“piantar maggio”. In tutto questo ci sono parecchie cose da dire
e condannare: il pericolo di peccare nottetempo, il danno che ne
deriva ai proprietari di boschi e vigne, e lo scandalo che persiste
di antichi riti pagani. Che i parroci non perdano occasione
d’estirpare questo abuso. Tutto questo è contro il precetto di
Dio, la pubblica onestà, i buoni costumi ed è motivo
d’intollerabile scandalo”.
Il cantar maggio è un
canto che inneggia al trionfo della primavera, intriso della gioia di
vivere e augurio di fecondità. Nell’area di cultura mediterranea
maggi erano i ramoscelli di mirto (sacro a Venere e a Maia) che i
giovani offrivano alle ragazze come pegno d’amore e di fecondità,
mentre nell’area di cultura germanica Maggi erano i ramoscelli di
pino portati in festose processioni a maggio, di porta in porta, da
gruppi di questuanti che chiedevano cibi e dolciumi in cambio.
Questa la tradizione era
diffusa sulle Langhe ancora in anni recenti: gruppi di giovani, senza
distinzione di età o sesso, accompagnati da suonatori, andavano di
cascina in cascina, di casa in casa, con un ramoscello di pino,
dov’erano appesi dei nastri colorati e dei fiori di campo. A volte
li capeggiava una ragazza vestita da sposa. A ogni tappa fingevano di
piantare il ramoscello di pino (il maggio) e cantavano (dialetto
delle Alte Terre Langasche):
Se chërzi nènt che mägg
u-r’è rivâ
Vnì a la fnésctra e lu
vughi ben ciantâ!
(Se non credete che
maggio sia arrivato,
andate alla finestra e lo
vedete ben piantato!)
Sono indubbiamente
notevoli, in questo canto, le analogie con il Cantè i’öv (cantar
le uova) del periodo quaresimale; ma nel cantè mägg c’è una
differenza sostanziale: è lo “spirito celtico - pagano degli
alberi” che vaga tra le case a portare il suo auspicio di una buona
annata, dagli ottimi raccolti. Identico al Cantè i’öv (cantar le
uova) è il saluto agli abitanti della casa, con la richiesta di un
omaggio, i ringraziamenti o gli improperi. Dapprima la presentazione
della “sposa”:
Vardè che béla scpusa e
che bel ané är di.
Ër fiö chu la scpusa u
sära cuntente ‘n dì.
(Ammirate che bella sposa
e che bell'anello al dito.
Il giovane che la sposa,
sarà un giorno contento.)
A questo punto la
richiesta:
niäci e-suma in viäge,
es-riposuma ‘n pòch.
(Bella padrona, se
gradisce darci qualcosa …
noi siamo in viaggio, ci
riposiamo un poco).
Ricevuto “il dono”,
seguiva il ringraziamento:
Sciùra padròn-a, cha
pija ‘r nosctr bael buchét
e chu piàscia a
Nosctr-Scgnù cha i’hägia di bei chuchét.
(Signora padrona, prenda
il nostro bel mazzolino
e piaccia a Dio che abbia
dei bei bozzoli “bachi da seta”).
Infine il commiato:
Ringraziùma sciùra
padròn-a cha i’hà da-scì-ben dunâ
e che Nosctr-Scgnù e ra
Madòna la tenu in sanitâ.
(Ringraziamo la signora
padrona che ha così ben donato,
e che Dio e la Madonna la
mantengano in buona salute).
(Da: Guido Araldo, Mesi
Miti Mysteria)
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