Melania Mazzucco
L’innocenza dei
bambini di Soutine abbandonati dagli adulti e dalla Storia
Lungo la strada ripida
che, come un fiume, taglia verticalmente i campi e spacca
l’immagine, due bambini avanzano. Il maschietto, con la camicia
scura e i calzoncini corti, indossa la divisa della scuola. La
bambina bionda con la veste azzurra, più piccola, il volto
ridotto a una maschera indecifrabile dal brutale impasto del
colore, regge un cestino – col pranzo, forse. Lui la tiene per
mano – premuroso, come un fratello maggiore. Alle loro spalle
una foresta, filari di pioppi, macchie che devono essere le case
del villaggio, la chiesa. E la striscia azzurra del cielo, curvo
sulla linea dell’orizzonte. Sulla sinistra, il campo rosso
ruggine, nudo e inospitale, sembra arato da poco. È autunno.
Nuvole bianche si addensano. E neanche un adulto che possa
prendersi cura di loro.
Nel 1942, in un
paesino dell’Indre e Loira, a 48 anni Chaïm Soutine torna a
dipingere bambini. Con tenerezza inedita e la sensibilità di
sempre. È un pittore famoso: negli anni Trenta è stato il più
apprezzato esponente della Scuola di Parigi. I collezionisti si
contendevano i suoi quadri. Ma gli abitanti di Champigny sur
Veude, e i bambini che posano per lui, non devono saperlo.
Soutine, straniero ed ebreo, si è procurato documenti falsi e
vive nascosto sotto un altro nome. È tornato al punto di
partenza, come quando nel 1913 sbarcò a Parigi senza un soldo in
tasca, senza conoscere il francese e con l’indirizzo dell’amico
pittore Krémègne a Montparnasse come unica bussola: è di nuovo
senza nome, senza casa, senza patria.
Con coerenza, variando
senza ripetersi, Soutine ha dipinto soltanto paesaggi, nature
morte e ritratti. Fra questi, i più toccanti sono di adolescenti
e bambini. Incontrati nei retrobottega, nelle cucine o negli
ascensori dei grandi alberghi in cui alloggiava dal 1925, quando
il successo gli portò denaro e benessere. Pasticcieri, cuochi,
fattorini, stallieri, camerieri: tutti con l’uniforme o la
livrea, come fossero in maschera. Ma ritraendoli, Soutine
restituisce loro l’identità, l’unicità, la personalità. Il
Valletto di Chez Maxim’s con la sgargiante divisa rossa, i
Chierichetti impacciati prima della messa. Ha dipinto anche
bambine – che artigliano la bambola, frapponendola fra sé e gli
adulti, come per difendersi. O si agitano sulla sedia,
nell’abituccio della festa, col colletto rosso. Ragazzini
tristi, macilenti, ossuti, e però colmi di una grazia scontrosa.
Che era la sua.
Anche Soutine non ebbe
mai un’infanzia: lasciò adolescente il suo shtetlper studiare a
Minsk, e poi a Vilna, e infine immigrò in Francia col sogno di
diventare pittore e dimenticare i pogrom zaristi, la miseria di
una famiglia troppo numerosa e la proibizione di rappresentare la
figura umana che la Bibbia impone agli ebrei. Né ebbe figli
attraverso i quali avrebbe potuto ritrovarla. Ma forse proprio per
questo rimase sempre un ragazzo. Candido e feroce, dai primi anni
parigini – quando abitava alla Cité Falguière, fetido
falansterio d’affitto alla periferia di Parigi dove si
accalcavano gli artisti stranieri e dove, come diceva Chagall, «o
si diventa famosi o si muore» – sino alla fine, esibì
l’intransigente spavalderia degli adolescenti: non patteggiava
con la realtà. Studiava i capolavori dei maestri al Louvre
(Rembrandt, Chardin, Courbet) e si abbandonava all’urgenza di
dipingere, senza disegno, senza forma, con immediatezza, quasi con
violenza, come trascrivesse coi colori la propria interiorità. Di
tutto il resto – regole della società, mode artistiche,
strategie – non si curò mai. Agli eterni fanciulli non è dato
crescere né invecchiare.
Nel quadro i due
bambini sono immersi nella natura – quasi perduti in essa. Per
Soutine, si trattava di un ritorno al paesaggio. Negli anni
durissimi (1919-22) che aveva vissuto, solo, a Céret, sui
Pirenei, dove lo aveva spedito il suo mercante d’arte, aveva
creato una serie di quadri allucinati, con case strapazzate dal
vento. Lo ossessionavano i villaggi – e le strade. Che salgono,
o scendono, bruscamente, senza condurre in nessun luogo. In quei
paesaggi caotici non comparivano mai esseri umani. Perché questi
potessero abitare il mondo, Soutine era dovuto passare dagli
animali. Morti. Aveva ritratto aringhe stoppose, mante
antropomorfe, polli spennati e strozzati, appesi per il becco o
per le zampe a un uncino sul muro o deposti ritualmente nei
piatti; buoi squartati e crocifissi, conigli scuoiati, tacchini,
anatre, galline, fagiani. Da povero, li affittava e li restituiva
senza neanche mangiarli. Da ricco, li sceglieva nei mattatoi o
nelle fattorie. Ma solo quando lasciò Parigi ripudiò la
disperata bellezza della morte e cominciò a ritrarli vivi. I
quadri dei suoi ultimi anni sono pieni di vita.
In essi non vi è
traccia della paura e della guerra. Né del dolore – l’ulcera
che lo tormentava dalla giovinezza e ora, degenerata in cancro, lo
stava uccidendo. L’agitazione febbrile che aveva terremotato i
suoi quadri era placata: braccato e nascosto, dipingeva paesaggi e
bambini – soli davanti a una staccionata, o fra le braccia della
madre, sulla strada mentre tornano da scuola. A questo soggetto
dedicò vari quadri. Due bambini sulla strada è l’ultimo.
Soutine lo dipinse nel 1942: non gli restava neanche un anno da
vivere. L’Europa era occupata quasi interamente dalle armate
naziste o loro alleate, vittoriose anche in Africa e in Russia.
Non si intravedeva via d’uscita.
Per molti artisti, la
guerra è privazione di voce. Mutilazione, senso di inutilità,
sgomento, silenzio. Altri riescono ad astrarsi dal mondo, trovano
nei colori la salvezza. Soutine si rifugia nei bambini. Il piccolo
formato del quadro esige concentrazione e chiarezza. La tavolozza
non ha lo splendore cromatico di un tempo, e l’ammirato cinabro
incandescente, il rosso sangue di Soutine, è spento, quasi
bruciato. Il verde polveroso, il giallo acido. Ma è sempre il
colore a definire la forma, grumi di materia spessa, una crosta
quasi carnosa. Alla fine, resta solo la terra spoglia, un
paesaggio di alberi e vento, la solitudine della campagna: i due
bambini e il mondo esterno che li minaccia. Tenendosi per mano,
scendono giù per la strada che esce dal villaggio. Non si voltano
indietro. Con malinconia e fiducia si lasciano alle spalle
l’orizzonte – il futuro, forse. E vengono verso di noi. La
loro innocenza ci accusa.
“La Repubblica”, 1
dicembre 2013
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