L'uscita quasi in contemporanea di scritti di Ingrao, Magri, Rossanda, Pintor (e ora Natoli e Foa) se da un lato ci conferma che un'epoca storica si è definitivamente chiusa, dall'altra permette una considerazione più attenta della storia politica del movimento operaio italiano al di là di sterili mitizzazioni o interessate demonizzazioni. Per questo davvero la lettura di questi materiali può illuminare le contraddizioni del presente.
Alessandro Portelli
Foa e Natoli,
la sinistra critica
Nel 1994,
Vittorio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più
alte della storia della sinistra in Italia,
si sedettero davanti a un registratore e
cominciarono a raccontare – o meglio,
Vittorio Foa invitò Natoli a raccontare,
accompagnandolo con il contrappunto
di domande e commenti mai intrusivi, sempre
riflessivi, in un intreccio dialogico di
condivisione e di diversità. Avevano
rispettivamente 84 e 81 anni, da tempo
avevano riorientato l'impegno politico
di una vita verso la ricerca storica e la riflessione
politica, con esiti memorabili, dalla
Gerusalemme rimandata di Foa all'Antigone
e il prigioniero di Natoli; ma la conversazione
fra i due non è una semplice rivisitazione
del passato, bensì un ragionamento a tutto
campo che illumina le contraddizioni del
presente.
Come ogni
storia orale che si rispetti, infatti, anche questa
conversazione è un documento sul
passato, ma è soprattutto un documento del
presente: il racconto — Vittorio Foa /
Aldo Natoli, Dialogo sull'antifascismo il Pci e
l'Italia repubblicana (Editori Riuniti,
pp. 303, euro 23) — comincia con l'infanzia
messinese di Aldo Natoli, e ne percorre tutta
la vita fino al momento del colloquio, finendo per
farci capire molte cose sulla crisi morale prima che
politica, che la sinistra attraversava
allora e che è andata peggiorando fino ad oggi.
Abbiamo vissuto
un buon quarto di secolo ormai assillati da leader
che, dopo una vita passata fra una carica di partito
e l'altra, ci spiegavano che non erano mai stati
comunisti e che quella era una storia di
orrori che non li riguardava. Ci sono voluti dei non
comunisti come Vittorio Foa (e penso
anche a certe cose di Bobbio dopo l'89) per restituire
a questa storia l'ascolto e il rispetto senza i
quali non capiamo non solo la sinistra, ma tutta
l'Italia moderna. E ci vogliono comunisti come
Aldo Natoli, che questa storia l'hanno vissuta
fino in fondo con partecipazione
critica e appassionata, per restituircene
il senso soprattutto morale. Ascoltare queste
pagine (arricchite da accurate note e profili
biografici dei curatori, Anna Foa e Claudio
Natoli) riempie di orgoglio perché abbiamo
avuto fra noi compagni di questa grandezza,
di smarrimento (che cosa resta senza di loro?), di
rimpianto per non averli ascoltati abbastanza,
di pena per averli lasciati soli.
Vittorio Foa |
Come ogni serio
lavoro di memoria, questa intervista
intreccia due punti di vista –l'intervistato e
l'intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di
vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per
esempio. Parlando dell'8 settembre, Foa
domanda: «Come alcune cose le vedevamo allora e come è
cambiata la nostra testa dopo quaranta anni di
pace?». Quello che mi colpisce è in primo luogo
l'uso del plurale: Foa si mette dentro questa
storia che in modi insieme simili e diversi è anche la
sua. Come sempre nella grammatica
dell'intervista, è ciò che i due dialoganti
hanno in comune che rende l'intervista possibile e
comprensibile, ma è la differenza
che esiste fra loro che la rende interessante.
E poi,
attraverso il dialogo con Natoli, Foa cerca di
capire non solo come «è cambiata la testa» del suo
interlocutore, ma anche come è cambiata
la sua: le domande che l'intervistatore rivolge al suo
interlocutore le rivolge,
inevitabilmente, anche a se stesso.
Natoli, a sua volta, coglie l'opportunità – direi quasi,
come in tante delle interviste migliori,
raccoglie la sfida – per ripensarsi. Non
intende buttare a mare questa storia, non
solo sua, ma non fa apologia né di se stesso né
del partito. Ogni volta, davanti a un interlocutore
che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discussione,
spiega le sue incertezze, i dubbi, gli errori.
Ne viene fuori,
fra l'altro, una storia della sinistra molto più
articolata, molto più sfumata e mobile di
quanto non ce l'abbiano raccontata tante volte.
Per esempio:
a proposito del patto Hitler-Stalin del 1939,
Natoli ricorda di averlo inizialmente sostenuto
come una necessità inevitabile – ma
ricorda anche le discussioni drammatiche
che portarono a scissioni e scontri nel
gruppo romano, finendo per lasciarlo isolato e in
minoranza, «in una situazione che in qualche
modo confinava con la disperazione»; e
racconta di avere cambiato posizione dopo la
spartizione della Polonia e dopo che
l'Internazionale arrivò a dire che i nazisti non erano
il nemico principale. Foa, a sua volta ripensando
al se stesso di allora, insiste sulla dimensione
della soggettività, che è poi alla radice
della scelte politiche: «L'impressione che ho
avuto io è che i comunisti, cioè voi, pur
approvando il Patto, non ostentavate questa
approvazione, cioè che l'antifascismo, profondo,
era dominante nel vostro ambito. Mi sbagliavo o
ero nel giusto, secondo te?».
Qui mi
colpisce, intanto, il «voi comunisti»
– più tardi, parlando della Resistenza,
diventa, come abbiamo visto «noi». C'è in questo uso
dei pronomi tutta la complicata storia
dei rapporti interni alla sinistra, che
nell'intervista si esplicita poi nel racconto sul
'48 e il Fronte popolare. Ma c'è anche la traccia
di una differenza che si fa comunque ascolto
e rimane rispetto: invece di accusare i comunisti
di complicità con Hitler, Foa (allora
azionista, poi socialista) scava sotto
la superficie e ascolta da compagno. E
Natoli: «Io questo lo sentivo profondamente.
Per cui dentro di me ero convinto che gli accordi
del Patto non dovevano ripercuotersi sugli
orientamenti non solo teorici ma anche
pratici del movimento comunista
internazionale», cioè sull'antifascismo.
Rossana Rossanda con Aldo Natoli |
La stessa
complessità, lo stesso scavo nelle ragioni e
torti di allora, accompagna tutto il racconto
di Natoli, dalla svolta di Salerno all'Ungheria, senza
nascondere il suo consenso di volta in volta alle
scelte del partito, eppure dando conto di come questo
consenso si faceva sempre più faticoso e la
sua relazione col partito sempre meno
agevole. Non ci sono epifanie, svolte
brusche: è un processo graduale di
cambiamento, e non è neppure un processo
lineare – per esempio, Natoli non esita a ricordare
di avere difeso il golpe comunista a Praga nel
1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo
critico, lo vedevo in senso positivo, a quel tempo
io ero assolutamente ligio a quel quadro
strategico».
Lo spiega col
clima di guerra fredda, con il montare
dell'anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un
errore; ma non per questo nega di avere avuto torto. Ma
poi si trova a condurre la sua battaglia più
memorabile, quella contro il «sacco di Roma»
negli anni '50, praticamente da solo, tra il
disinteresse della dirigenza nazionale;
o prende gradualmente le distanze da una linea del
partito che non coglieva le capacità di
rinnovamento del capitalismo e
viveva nell'illusione di una suo imminente crollo. E,
naturalmente, l'Ungheria, quando la distanza
comincia a farsi incolmabile.
Seguono gli anni
delle battaglie interne al partito, Ingrao,
Amendola, la scoperta del Vietnam come
modello anche di autonomia politica rispetto
all'Urss e alla Cina, l'incontro con la Cina. E di nuovo il
dialogo con Foa, la condivisione e le
differenza. Foa ricorda che «la Rivoluzione
culturale, per noi, anche per me, solo in parte, è
parsa una bandiera» (e di nuovo il «noi», ma
articolato in un «me»); e Natoli conclude
che «la Rivoluzione culturale come tale
finisce alla fine del 1968 con l'intervento
dell'esercito... Alla fine del 1968 il movimento di
base, che era la caratteristica
fondamentale della Rivoluzione
culturale, viene represso con l'esercito». Ma la
Cina resta uno dei suoi interessi principali
anche dopo le sconfitte, i cambiamenti, le
delusioni: «non sono riuscito a distaccarmene».
E poi la nascita del Manifesto – rivista,
gruppo politico, giornale – speranze,
crisi, condivisioni, dissensi,
separazioni....
I due
interlocutori di questo libro sono stati
anche protagonisti della storia di
questo giornale. Faremmo bene a ricordarcene.
il manifesto |
28 Dicembre 2013
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