27 dicembre 2013

ARTE, COSTITUZIONE E SCUOLA OGGI


Lo scudo degli ultimi che la Casta vuole distruggere


Art. 9.

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.


Riprendo la riflessione, in verità mai interrotta, citando  Tomaso Montanari, in un recente post del blog che cura sul Fatto Quotidiano.
Montanari (nel corso dell’anno impegnato nei lavori, conclusi nel mese di ottobre, della Commissione per la Riforma del Ministero dei Beni Culturali)  affronta un tema caldo nel dibattito nazionale, in un momento in cui a livello ministeriale si prendono decisioni fondamentali, direi capitali (nel senso di “pena capitale”) per il patrimonio storico-artistico, archeologico e dei beni culturali in genere. Condivido in particolare un passaggio che cito testualmente:
“Ogni anno le nostre università laureano e dottorano un numero impressionante di storici dell’arte e della letteratura, filosofi, archeologi, architetti, archivisti e bibliotecari: e lo stesso fanno i conservatori con i musicisti, le scuole specializzate e le accademie con i restauratori, i danzatori, gli scenografi, i giornalisti, i traduttori ecc. Tuttavia, come in un assurdo e corale supplizio di Tantalo, il patrimonio non riesce a incontrare coloro che lo potrebbero curare amorevolmente, e tutti costoro non riescono a lavorare nel patrimonio: e così distruggiamo intere generazioni, e al tempo stesso condanniamo a morte ciò che di più prezioso ha il nostro Paese.”
L’immagine del supplizio di Tantalo è emblematica di quanto si vive ogni giorno nella realtà italiana: “Studiate, prendetevi una laurea e avrete il mondo in tasca!”.
Era questo, più o meno, il ritornello costante che alla fine degli anni ’80 sentivo ripetere in continuazione dai professori del liceo: incitamento nel quale ho creduto insieme a tanti. Scegliere di studiare Storia dell’Arte non è stata una scelta di ripiego, ma dettata da convinta passione e da assoluta certezza dell’importanza di questa disciplina. Gran parte della mia generazione (ma soprattutto quelle successive) si riconosce nel povero Tantalo: possiede tutte le conoscenze giuste per collaborare a una corretta tutela e soprattutto per formare correttamente le generazioni dei più giovani (e chiunque altro, invero) perché possano conoscere, capire, parlare questa lingua e proteggere, preservare, vivendola nel quotidiano, una ricchezza che il semplice calcolo economico svilisce.  Nessuno di quegli strumenti permette di accedere ai diversi lavori che concorrono alla loro tutela, promozione e valorizzazione. Non sempre e quasi mai con la giusta retribuzione conseguente al riconoscimento della professionalità.

Il supplizio di Tantalo (dal blog KAIROS & KRONOS)
Il supplizio di Tantalo
(dal blog KAIROS & KRONOS)

Se penso ai principi e ai monarchi rinascimentali, illuminati (e forse anche furbi… chissà) dalla meraviglia del genio umano, che favorivano la produzione artistica di pari passo con il dibattito filosofico e letterario dei cenacoli, e se penso che invece oggi i “cenacoli” di cui più si parla sono incentrati su disquisizioni più o meno tamarre sui tatuaggi nei bicipiti dei calciatori o nell’inguine di qualche modella, sul cane Dudù e sui problemi che ruotano intorno all’ombelico di pochi ricchi e potenti… beh, non posso fare a meno di guardare con orrore al baratro che ci si spalanca davanti e unirmi al coro della protesta di chi vuole ridare alla Cultura la sua iniziale maiuscola, iniziando a insegnare la differenza tra questa e quella minuscola proprio partendo dalle scuole. E se proprio vogliamo esagerare, incoraggiando giovani e meno giovani a scriverla, questa parola, a tutte maiuscole: ognuno con il proprio stile e la propria sensibilità.
E allora, sempre a proposito di governi illuminati, mutatis mutandis mi vengono in mente alcune parole del primo capitolo di un libro di architettura medievale che ho studiato qualche anno fa: “Il cantiere è sempre il frutto di un’attività collettiva” (*). Sembra banale pensare al collettivo cui l’affermazione fa riferimento come al “semplice” (che semplice non è) cantiere e a tutte le professionalità necessarie a erigere un’architettura. In realtà un ruolo non secondario lo aveva la società intera in seno alla quale il committente viveva ed espletava incarichi: in essa si riconosceva e con essa costruiva un dialogo necessario al riconoscimento dei ruoli, al fine di veicolare dei messaggi attraverso le opere (architettoniche o scultoree o pittoriche o altro… non fa differenza alcuna). Senza la volontà di dialogo non si dava possibilità di comunicare realmente rendendo cosciente la comunità intera dei contenuti e del senso delle opere. E senza la co(no)scienza del bene culturale comune non si restituisce al futuro la storia che abbiamo prodotto: nel senso fisico e in quello funzionale, permettendone la fruizione naturale e continuata in tutti i casi in cui sia possibile senza danno. L’uso e l’interesse collettivo per un bene, ne permette la conservazione e ne preserva il valore culturale. 
Non si può fare a meno di constatare che le vicende generali e le catastrofi naturali stiano ingoiando i buoni propositi della Costituzione insieme ai beni da tutelare, e non ci sono soluzioni immediate, facili, consolatorie: solo l’idea che siano proprio i momenti di crisi e confusione quelli durante i quali è necessario esserci e partecipare pienamente alla vita civile del nostro paese.

Anna Pistuddi

(*) Carlo Tosco,  Il castello, la casa, la chiesa. Architettura e società nel medioevo, Einaudi 2003

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