14 dicembre 2013

SULLA TRAVIATA E SUL CRITICO MUSICALE P. ISOTTA



 PIETRANGELO BUTTAFUOCO - IL CASO ISOTTA

Può capitare, certo, può capitare di pensare che ne scriva male della “Traviata” in scena perché lui, al Teatro alla Scala di Milano, è solo un asterisco indesiderato. E’ “persona non grata” nientemeno, come ha sottoscritto Stéphane Lissner, il sovrintendente, notificandolo – come lo notificò, a suo tempo, il 7 aprile 2013 – a Ferruccio de Bortoli. Ma il lettore del Corriere della Sera, scorrendo già le righe della prima nota redatta nella sera di Sant’Ambrogio, a sipario appena chiuso, sa che Paolo Isotta, fosse pure con levità irragionevole, ha ragione.
Ancora qualche giorno fa Alberto Arbasino, sulla Repubblica, il giornale che pure ha cercato di porre fine al secolare gemellaggio tra Via Solferino e Via de’ Filodrammatici, ha inesorabilmente stroncato l’allestimento firmato da Dmitri Tcherniakov e la bacchetta di Daniele Gatti e quindi ha ragione Isotta che così scrive: “Da Daniele Gatti sul podio ci aspettavamo almeno correttezza. Non ce la dà come direttore, ancor meno ce la dà come concertatore, concedendo cose inenarrabili, risatine aggiunte, pause, corone, ‘puntature’. La sua orchestra ha un suono bandistico, pur se la banda vera sia discreta. Fa tempi inspiegabili: in ‘Ah non udrai rimproveri’ il povero baritono Zeljko Lucic, che aveva fatto un buon duetto con Violetta, è costretto a un tempo per cui la sua Cabaletta sembra un’Aria dal ‘Mikado’ di Gilbert e Sullivan, una delle più belle Operette della Storia. Il tenore Piotr Beczala si concede un’incredibile cadenza prima di ‘O mio rimorso, infamia’, e il rigoroso direttore milanese gliele consente. Per il resto dell’atto singhiozza, bela, raglia”.
Può capitare, certo, capita sempre di non sapersi capacitare rispetto alla conoscenza che Isotta ha della materia di cui scrive e se dunque metto da parte tutti i mi bemolle di cui lui ragiona per inchiodare gli asini musicanti e su cui io non ho competenza, sempre in tema di “Traviata”, non posso che dargli ancora una volta ragione: “La ‘signora delle camelie’ porta, come tutti sanno, una camelia bianca al petto tutto il mese tranne quattro giorni, nei quali ne mette una rossa a segnalare il divieto di accesso. Qui Violetta ne porta una rossa nei capelli nel primo atto, e una rossa nei capelli al secondo”.
Può capitare, forse può capitare che sia sempre impedita la poveretta e Paolo Isotta che non è dentro una misura – smisurato com’è in genio, sempre fuori modo e fuori moda – coglie il dettaglio dove si sfascia l’adorata cretineria dello spirito pop così tanto in voga al punto di dover registrare nelle cronache una dichiarazione di Pietro Grasso, presidente del Senato: “Non capisco le polemiche verso chi cerca di attualizzare le opere”. Chissà. Forse un monito in difesa delle mestruazioni perpetue?
Può capitare e capita che si attualizzi, non capita altro, ma la forma è sempre sostanza. Nella mia condizione di amico non sono il più abilitato a riferire riguardo a Paolino, faccio conto di segnarmi con la mano mancina e pregare che non si scateni adesso la sua ira per tutti gli errori di ortografia, sintassi e perfino di ontologia che qui farò ma lui è senza alcun dubbio il capitolo più clamoroso della vita culturale di questa Italia.
Paolo Isotta, storico della musica e critico musicale, è considerato al contempo un sublime scugnizzo (così lo definì Stenio Solinas) e un appestato. Infetto lo considerarono i vertici della Cultura con il segno di C in maiuscolo quando nel 1978, lasciando il Giornale di Indro Montanelli, Paolino mio approdò in Via Solferino per essere però insolentito da manifesti, manifestazioni, assemblee, raccolta di firme, comunicati e ordini del giorno attraverso i quali i salotti altolocati vollero allora esprimere indignazione fino a reclamare per Isotta l’ostracismo perpetuo.
Non capitano queste cose. A lui capitò. E la vicenda è ben nota. Fino a diventare nel tempo crosta e lo sa bene Paolo Mieli che quando arrivò alla direzione del Corriere, nel settembre del 1992 – felice di avere in organico Isotta, considerato un genio assoluto da Massimo Mila – non seppe spiegarsi il perché, poi, al netto delle pavloviane asprezze del cdr, di trovare una singolarità contrattuale escogitata apposta per il Reietto. Nell’articolo 1 di dipendente di Via Solferino, Isotta (che di sé dice: “Sono un impiegatuccio che dipende dal buon volere de’ superiori”) aveva una clausola che lo relegava a scrivere solo da Roma in giù.
Capitano queste cose e non senza fatica, tra le complicazioni più assurde nel suo lavoro di direttore, muovendosi tra mille cautele, Mieli riuscì a liberare Paolo per ricavarne un grazie asciutto ed elegante, giammai sporcato da untuosità tipiche nel mondo dei giornali e ricevere infine – nel significare un legame indissolubile – una cartolina raffigurante l’Ampolla del Sangue Sacrissimo di san Gennaro. “Una delle pochissime cose”, racconta Paolo Mieli, “che non mi hanno mai abbandonato. E’ uno scatto realizzato nel momento in cui il sangue del Santo si liquefa. Questa cartolina, quasi uno scambio alla pari, la porto sempre con me: mi è stata d’aiuto nei miei momenti difficili”.
Capita tutto sotto questo cielo ma non di essere abbandonati dai santi e san Gennaro, parlandone a proposito, ha in Paolo Isotta, che lo inonda di preghiere, qualcosa di più di un figlio devoto, oso dire un aiutante, al punto che Isotta, più dei degnissimi prelati, ne intuisce le intenzioni, coglie i segni e perfino le ire e sa condividerle quando poi il Santo trova insopportabili due personaggi presenti in città: Luigi De Magistris, il sindaco, e il cardinal Sepe. Tanto invisi a san Gennaro, i due, da rifiutarsi il Santo – come è effettivamente accaduto – di ripetere davanti a loro il miracolo della liquefazione nelle sante ampolle.
Casa Isotta è come dire casa di san Gennaro. Il 27 ottobre del 1991, a Bari, prende fuoco il Teatro Petruzzelli. Passano gli anni e nel frattempo, in città, viene eletto sindaco Simeone di Cagno Abbrescia. Il regista di tutto però e Pinuccio Tatarella. E’ assessore alla Cultura e pensa bene di convocare Paolo Isotta a Bari per avere dei consigli non potendo averlo come sovrintendente. Per far sì che il Maestro arrivi senza l’incomodo di viaggi in pullman o in treno, Pinuccio chiede a Gennaro Sangiuliano, l’attuale vice-direttore del Tg1, di andarlo a prendere con la propria automobile e quando arriva davanti al portone di Isotta, Sangiuliano si sente dire: “Non sono solo”. “Nessun problema”, risponde Sangiuliano, “c’è posto in macchina”. Isotta rientra a casa per uscirne, subito, tenendo in braccio una statua a mezzobusto: “Il Santo viene con noi”. Sangiuliano non fa mostra di meraviglia quando Isotta colloca il mezzobusto sul divano posteriore, azzarda un’ipotesi: “Maestro, lo portate da un restauratore?”. Isotta trattiene un rimprovero: “Viaggiamo sempre insieme”. Sangiuliano annuisce e poi, chiamandosi Gennaro, trova un argomento. Gli racconta come ogni anno, per il compleanno, riceveva da nonno suo un piccolo busto del Santo. Strada facendo, all’altezza di Avellino, quando si fa ora di colazione, Sangiuliano svolta verso un rinomato ristorante, spegne il motore, fa per scendere e si sente dire: “Il Santo mangia con noi”. Gennaro pensa che Isotta si preoccupi dei ladri e perciò propone di parcheggiare a vista. Isotta lo fulmina: “Ma sei scemo, o sei cretino? Il Santo siede a tavola con noi”. Entrano dunque, si accomodano. E i coperti sono tre.
I santi – forse per gareggiare di fronte a tanta devozione – hanno un debole per Paolo Isotta. E certamente il Poverello, “il più italiano dei santi, il più santo degli italiani”, per dirla con Benito Mussolini, apre il suo cuore alle preghiere di Isotta. E così tanti bravi cappuccini, come san Padre Pio di cui i fotografi, ancora adesso, ricordano la cautela con cui Isotta, intervistando Renata Tebaldi che del monaco di Pietrelcina era discepola fervente, fece staccare il vetro dal ritratto che la cantante teneva sul pianoforte affinché il flash, frangendosi con quel filtro, nello scatto non annullasse la presenza.
Stravedono per lui, i santi. E lui che non frequenta certi cristianesimi da circo equestre ricambia senza lesinare omaggi. Come quando alla Basilica del Santo, a Padova, ogni offerta, a ogni angolo, sono pezzi di cinquanta e cento euro. Con grande meraviglia di Baldo Licata che si fece spiegare, un giorno, tutto quel faticare dei santi, sempre su e giù dal Paradiso alla terra, mentre tutti, tutti noi, stiamo sempre ai piedi di Pilato. Santi laboriosissimi, tutti, e non come questi sacerdoti alla moda che chiamano utenza e non gregge, la comunità dei fedeli; come nell’originaria tabe dell’ancora più grande circo equestre americano dove tutto è clientela.
L’appestato e lo scugnizzo, dunque. Come nel 1978 al Corriere, così oggi. Luigi Brioschi, alla Longanesi, gli ha rifiutato un libro (ne parlerò più avanti) dicendogli: “Non è che non lo posso pubblicare, no. Non lo voglio pubblicare. Qui si offende la cultura, qui si sporcano i valori”. Ancora peggio è andata in Mondadori dove il no tonante è stato accompagnato da un’altra precisazione: “Non si pubblicano libri di chi si proclama amico di Marcello Dell’Utri!”. In Rizzoli, invece, come nella tradizione nobile dei Dino Campana (e ho detto tutto!), Paolo Isotta c’è andato ma senza portare con sé il libro, deliziando tutti nella casa editrice con cui pubblicò il suo bellissimo “Il ventriloquo di Dio”, con un aneddoto: le vicissitudini di Serenella.
Del libro, che uscirà per Marsilio, ne dirò tra poco, intanto la storia di Serenella. E’ la moglie di Gaetanino, un musicista allievo di Paolo Isotta, che si presenta affranta al maestro portando una notizia tutta di dolore: “Gaetanino se n’è andato”. “Oh Gesù, è morto?”, risponde Isotta come preso di soprassalto. “No, ma che dite. S’è innamorato”. Isotta cerca un argomento di conforto: “Ma quello torna, Serenella mia. Sarà stata una sbandata per una zoccola…”. “Ma qua’ zoccola, Maestro… se n’è scappato… col gommista”. “Un articolo determinativo di gommista maschio?” domanda Isotta. La risposta è affranta: “Maschio, maschio… e quella non sarà una sbandata. Se ne resta col gommista. Pensate, Maestro mio, che pure io avevo necessità di farmi gonfiare le ruote, per fare una cosa civile ne volli parlare con lui, tenere la clientela dentro la parentela ma quello, niente! Mi ha detto: tu il gommista mio non l’avrai!”.
C’è poi un’altra storia, anzi, un bozzetto. E’ il racconto di una brava cristiana addetta alla sorveglianza dei locali igienici allocati presso il cinema porno vicino alla Galleria Vittorio Emanuele. I frequentatori vi arrivavano per fare delle porcheriole e la buona donna, attenta affinché non ci fosse sovraffollamento, nel dare il via libera sgranava la coroncina del Rosario. Ma questa è una vicenda raccontata nel libro (di cui parlerò dopo).
“Grazie per avermi rifiutato!”. Così, sorridendo, Paolo Isotta dice salutando gli amici suoi alla Rizzoli e siccome la forma è sostanza, lo scugnizzo prevale sempre su quella sua speciale malia che lo rende unico, di un’unicità che lui stesso sfida fino a toccare, dal grottesco all’odium humani generis, tutti i registri che gli derivano – io lo so – dall’uomo che lo ha marchiato per sempre: Luigi Pirandello.
Firma nobile qual è del Corriere della Sera ha apposto a sé, a modo di medaglia, l’asterisco di persona non grata che gli accende addosso i riflettori della bestemmia inaudita: non avere niente a che spartire con questo tempo, figurarsi cosa possa avere da condividere poi con questa Italia essendo lui – coi suoi miliardi di difetti – il più complicato fiore di libertà nella palude fetida del nostro conformismo.
Non ha paura di niente, l’asterisco. E’ uno che non si compra. Alla Scala non ne possono più perché magari suggerisce usi alternativi delle bacchette, perché trova periziabili le natiche di Roberto Bolle, perché quando scende nei cessi, “resi unisex”, intrattiene le signore in fila sulla praticità delle ritirate a parete, adatte ad affluenze rapide e igieniche, più di quanto possano esserlo i vasi. Per non dire di cosa dice a quelle che passano avanti adducendo la sola necessità di “bere”. Non si può dire.
E non ne possono più perché Paolo Isotta dice tutto, soprattutto l’indicibile, come quando al momento di silenzio totale, quando il pubblico è appeso alla bacchetta del maestro, lui urla: “Evviva Tareq Aziz!”. E meno male che lo dice perché con la scusa che Papa Francesco è buono, ogni giorno, in Vaticano, cestinano le lettere di aiuto che il vicepresidente dell’ultimo Iraq legittimo, il cristiano Aziz, invia nella speranza che qualcuno lo vada a liberare. Non ne possono più – è una scienza particolare quella di amare Paolo – perché poi lui sa che ogni Croce è ben più pesante di quelle precedenti. E quel fatto di spiegare, come ha fatto nei suoi libri, nei suoi articoli, che la forma è sostanza, spesso lo induce a dichiarazioni come questa: “Non mi piacevo, è certo”.
Io che forse lo conosco vi posso dire che Paolo Isotta è come un mondo. E’ tutto un mondo abitato da una persona sola nella cui testa – dove spesso urla Fana, la fantesca del “Berretto a sonagli” – abita ancora un altro mondo, sazio di cuore e bruciato d’amore, che è una distesa di sconfinata solitudine.
E io lo conosco Paolino. Ricordo quando mi chiese: “Ma tu come stai di casa?”. Non capii ma poi capii, m’indicò il cavallo dei pantaloni, e feci una risata per nascondere l’imbarazzo su certe discussioni. Io lo conosco, dunque, e ogni volta che c’incontriamo mi trova sempre un poco punk e mi controlla le unghie per trovarmele sempre sporche e lunghe. E mi dice ciò che gli diceva sua madre: “Se la natura non ti ha fatto caruccio devi aiutarti a essere almeno sempre a posto”.
Ecco. Non lo sopportano questo meraviglioso asterisco che è Paolo Isotta, sgradito a tutti, perché ognuno, innanzi a lui, si guarda le unghie e non può che dire: “Non mi piaccio, è certo”. Anni fa, proprio sul Foglio, nella rubrica delle lettere, a proposito di questioni di mi bemolle, dunque questioni complicate assai, venne insolentito da un musicologo che si rivolse al Maestro chiamandolo “la napoletana Isotta” per parlare infine di “mutande medianiche”. E’ sempre così con Paolo Isotta. Ognuno di noi, davanti a lui, singhiozza, bela e raglia.

P.s.
Del libro, appunto, ne parlerò dopo. E’ una goduria.

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