17 dicembre 2013

FORCONI E ALTRO



PIERLUIGI SULLO - FORCONI E ALTRI FENOMENI

 La crisi italiana procede a ondate. L’espressione “crisi italiana” ha un senso preciso: non si tratta solo di crisi economica o crisi finanziaria o crisi ambientale, che sono comuni a tutto il pianeta. Tutte queste crisi, nel nostro paese, hanno prodotto e produrranno nel futuro effetti specificamente italiani, in particolare il crollo della democrazia rappresentativa. Questo avviene per ragioni complesse, la più vistosa delle quali è la durata del dominio di Silvio Berlusconi sulla politica e sulle istituzioni, oltre che sulla cultura diffusa e il senso comune, e sul rapporto tra Stato ed economia (o affari). Quel che i politici come Matteo Renzi lamentano, e cercano a modo loro di medicare, ovvero lo strappo tra cittadini e loro rappresentati politici è sì un fatto comune a tutti i paesi europei, e oltre, ma è da noi particolarmente profondo, grazie alla cosiddetta “seconda repubblica”, che reca appunto il marchio indelebile del berlusconismo e di tutte le imitazioni del berlusconismo, cioè di pressoché tutte le aggregazioni politiche.
E’ per questo che la crisi procede a ondate: ha ragione Giuseppe De Rita a dire che i cosiddetti “Forconi” (poi vedremo perché “cosiddetti”) sono una manifestazione “random” di proteste e disastri sociali differenti, che si sommano solo occasionalmente – e infatti già si dividono – quando sembra, a questa e quell’altra categoria sociale in difficoltà, che vi sia l’occasione di farsi notare. Ma è da anni che questo accade, sebbene in forme diversissime e, appunto, non sommabili.
Il prima e più importante segnale della divaricazione tra politica e società fu alla fine del Novecento, ovviamente, il movimento “di Genova” – quello che per anni i media hanno reso stereotipo definendolo “no global”. Ma i “girotondi”, all’inizio del primo decennio del secolo, altro non erano a loro volta se non una richiesta democratica, di legalità democratica, che nasceva accanto ma al di fuori del centrosinistra. Il “popolo viola”, qualche anno dopo, ebbe per un certo periodo una grande fortuna e poi sparì: aveva grosso modo lo stesso senso dei “girotondi”, ma con una distanza maggiore del centrosinistra (inteso come lo schieramento politico più “pulito”) e caratteristiche più giovanili e cittadine in genere. La fortuna elettorale di Di Pietro e dell’Italia dei Valori, alle elezioni del 2006, aveva più o meno lo stesso volto che avrebbe avuto, con molto più successo, il Movimento 5 Stelle alle elezioni del 2013: “mandare a casa”, o in galera, i politici corrotti e ladri. Solo che Di Pietro voleva trattare, compromettersi, e, nel gioco parlamentare cinico alla Berlusconi (e alla quasi tutti, alla fine) dovette constatare che vari suoi parlamentari erano semplicemente in vendita, e infatti qualcuno (Berlusconi) li comprò per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Nel frattempo, studenti e ricercatori crearono, per un breve periodo, uno dei movimenti più vivaci, radicali e diffusi: durò poco. E nel 2011 si presentarono sulla scena, nelle strade di Roma, centinaia di migliaia di persone – giovani, lavoratori, disoccupati, prevalentemente di sinistra – spinte dalla suggestione dei movimenti degli “indignados” spagnoli: finì malissimo perché le vecchie estreme sinistre, ubriache di combattentismo, fecero degenerare la giornata in un confuso e violentissimo scontro con la polizia, ciò che indusse i più a lasciar perdere. I pastori sardi, grande movimento isolano, agivano in parallelo, dando lo spunto – probabilmente – ai Forconi siciliani, che incendiarono l’isola per qualche settimana rappresentando, nel senso letterale della parola, il furore di varie categorie sociali, specialmente i contadini. Piùà di recente, lo sciopero ad oltranza dei lavoratori dei trasporti pubblici genovesi, esasperati dall’incapacitòà della politica di trovare un alternativa alla privatizzazione: precisamente, di rivendicare il servizio pubblico come un bene collettivo: la forma di lotta, bloccare per più giorni la città, era estrema come estrema è la condizione di tutto ciò che è “pubblico”.
Questi diversi precedenti hanno fornito l’innesco dell’esplosione recente dei “Forconi”, che ha avuto i suoi epicentri a Torino e in Liguria, in Puglia e nel Veneto: se in Sicilia o altrove hanno potuto farlo, di bloccare la vita sociale, perché non tentarlo in tutta Italia? Marco Revelli ha scritto un articolo definitivo (http://www.infoaut.org/index.php/blog/precariato-sociale/item/9971-l%E2%80%99invisibile-popolo-dei-nuovi-poveri), dal punto di vista della lettura dei cosiddetti Forconi, specie quelli torinesi: sono, fisicamente, l’effetto del crollo del sistema economico postfordista, quello dell’appalto e subappalto, delle partite Iva, del commercio ambulante (tanto antico quanto modernissimo). Ma sono, soprattutto, l’effetto della fine della politica rappresentativa, quella che oggi, con un linguaggio e proposte più “moderne” – una sorta di liberismo dei diritti – tenta con Renzi di ritrovare un ancoraggio, in un paese dove ormai vota, mediamente, poco più del 50 per cento degli elettori.
I media hanno dato un rilievo enorme ad ogni più piccola dimostrazione di questo nuovo fenomeno sociale, mescolandovi per qualche giorno ogni tipo di insorgenza, dagli studenti della Sapienza agli energumeni di Casa Pound: un unico minestrone bollente è stato servito a chi guardava una tv o leggeva un giornale, in un modo tale da dare la sensazione di una qualche imminente “rivoluzione”. Il meccanismo è noto: si trova una definizione unica, stereotipa, per fenomeni molto diversi, o comunque variegati (come dice De Rita), in questo caso i “Forconi”, anche se i siciliani c’entravano davvero poco e molti “coordinamenti” rifiutavano questa definizione (allo stesso modo, i cinquanta che danno l’assalto a una sede del Pd nel quartiere di San Lorenzo per esigere, in questo modo, la liberazione di quattro arrestati per fatti in Val Susa, diventano per i media “No Tav”); si sommano, appunto, fatti diversi in una sorta di effetto ridondanza, quel fenomeno fisico per cui una vibrazione anche piccola, se entra in sintonia con la struttura del materiale che viene colpito, può provocare una reazione a catena crescente.
Dopo di che, spese intere edizioni di telegiornali per presidi di poche decine di persone, si dichiara la “crisi” o la “divisione” del movimento, i cui “capi” o presunti tali nel frattempo sono andati in tutti i talk show a farsi fare a fette. E ogni tipo di politico, da Berlusconi a Grillo ai gruppuscoli nazi e fascisti, hanno tentato di fare le mosche cocchiere, sparandola più grossa, annunciando incontri (come ha fatto Berlusconi), alzando bandiere, organizzando azioni esemplari (come l’assalto di Casa Pound alla sede della rappresentanza europea a Roma) o dichiarando l’euro “un crimine contro l’umanità” (il nuovo segretario della Lega, Salvini). Mentre il centrosinistra, virtuosamente, dichiarava se stesso ben lontano dai “valori” dei “forconi” (Cuperlo). Una mischia confusa da cui la politica, in generale, esce ancora più screditata, perché sembra, ed è, capace di dire qualunque cosa, pur di agganciare qualche pezzo di società e raccattare qualche voto per giocare una partita che non ha nulla a che vedere con la vita delle persone in questione (Matteo Renzi dà in verità l’impressione di volersene occupare, ma ancora non ha dovuto fare i conti con la rissa immobile delle cosche e lobby chiamate partiti o correnti, e soprattutto con le tagliole dell’”austerità”). Ma, viceversa, gli allarmi ripetuti sul “caos” sociale, ultimo quello di Napolitano, creano di rimbalzo un clima di emergenza, nel quale le istituzioni, lo Stato, giocano il ruolo dell’arbitro, del regolatore dell’ordine.
Quel che resta sul terreno, inavvertito dai più, è però il fatto che ad ogni ondata la separazione della società da ciò che dovrebbe curarne gli interessi si incattivisce sempre più. Anche se l’orizzonte rimane fermo al “lodo Grillo”, chiamiamolo così: per risolvere ogni problema, ridare senso alla politica, è sufficiente buttar fuori dal parlamento, dal governo e dalle amministrazioni questa pessima classe politica, fatta appunto di ladri e di corrotti, per sostituirla con bravi cittadini onesti, persone il più possibile comuni. L’odio per i politici diventa sempre più, paradossalmente, iper-politico, ossia individua una possibile via d’uscita solo in una qualche rigenerazione dello Stato e delle istituzioni, di questo Stato e di queste istituzioni. Quelli che erano in piazza a Torino alzavano la bandiera tricolore e mostravano cartelli in cui si parlava di “difesa della Costituzione”. Curiosamente, è la stessa parola d’ordine con cui sono scese in piazza decine di migliaia di persone, insieme a Rodotà e Landini, ai primi di novembre. E, in fondo, la “sollevazione” di movimenti per la casa e altri movimenti cittadini di un paio di settimane dopo, poi trasformata in “assedio” ai palazzi del potere, si concluse con la conquista di un “tavolo”, una sorta di trattativa, con il ministro alle infrastrutture Lupi (“tavolo” del tutto inutile, del resto).
In un certo senso – e anche questa è una peculiarità italiana, ad esempio in Spagna le cose vanno diversamente – è come se le diverse insorgenze sociali, man mano che la frattura tra società e politica si allarga, non possano che reclamare, in modi sempre più radicali ed esigenti, proprio la rigenerazione della politica, delle istituzioni, intese come un luogo neutro, obiettivamente “di tutti” e abusivamente occupato da questi partiti e questi rappresentanti. Si finisce sempre con una “manifestazione a Roma”, con un “assalto al potere”, con una lista elettorale che apparentemente sia meno lista e meno elettorale possibile. Perché è inteso che, facendo irruzione nella stanza dei bottoni, come diceva Nenni, si possono pigiare quelli giusti, e quindi riaprire le fabbriche chiuse, creare lavoro per milioni di disoccupati, rifinanziare l’istruzione e la sanità, sanare la povertà, insomma “cambiare l’Italia”, come dice Renzi. E i bottoni non sono né di destra né di sinistra, si tratta solo di essere “italiani”.  Da qui il furore anti-europeo (le cui ragioni sono ben solide, beninteso) e le speculazioni di fascisti e, chissà, apparati dello Stato o parti di apparati: i quali, se la politica-politica dimostrasse di non saper invertire il corso degli eventi, la sua stessa degenerazione, potrebbero – ad un certo punto – sperare di sfruttare questa ribellione cieca e confusa, ma ben radicata, per un qualche colpo di scure sul mediocre spettacolo che i politici offrono ai cittadini. Ipotesi remota, che però intanto può avere gradazioni e sfumature molto diverse, e che potrebbe, in una sua qualche forma, non dispiacere ad una Europa che tollera, ad esempio, il regime para-fascista che si è stabilito in Ungheria.
C’è un libro appena uscito, che si intitola “Povertà a chi? Napoli (Italia)” (di Enrica Morlicchio e Andrea Morniroli, Edizioni Gruppo Abele) che aiuta a capire meglio di cosa stiamo parlando. Marco Revelli descrive, nel suo articolo, la pura rabbia di chi sta scivolando o è appena scivolato nella povertà, in una città del nord. Il libro racconta invece di una povertà secolare, quella napoletana, che conosce anch’essa i colpi della crisi, che scompaginano, distruggono in qualche caso, le strategie di sopravvivenza, le reti di auto-aiuto e di auto-economia che permettono ai poveri di sopravvivere, inventandosi la vita ogni giorno.
Sono due facce della stessa medaglia, certo, ma molto diverse. Perché la prima, quella torinese, produce un fuoco violento e rapido, e ottiene subito una grande attenzione da parte dei media; la seconda, la napoletana, provoca invece, tra molte altre cose, fenomeni come la manifestazione di centomila persone, cittadini auto-organizzati per lo più, che rivendicano la fine delle complicità grazie alle quali la camorra, e l’ìndustria del nord, sotto gli occhi ciechi dello Stato, hanno avvelenato grandi parti della regione Campania riversandovi le deiezioni della modernità e dello sviluppo (e questa manifestazione è stata assai sottovalutata da media).
Può essere, in altre parole, che le strategie di sopravvivenza creative, di cui settori sociali e comunità locali molto più numerose e diffuse di quanto i media vogliano o sappiano mostrare, siano potenzialmente una alternativa alle esplosioni di furore che si moltiplicano e agli “assalti” ai palazzi del potere, con qualunque bandiera vengano condotti, che sono semplicemente inutili, perché i palazzi dei poteri, e le relative stanze dei bottoni, sono evaporati nell’iperspazio della finanza globale ed è quindi assai complicato entrarvi. Né lo Stato, o le istituzioni in genere, sono luoghi neutri che cambiano di senso a seconda di chi li occupi: bisognerebbe che qualcuno lo spiegasse a Beppe Grillo. Viceversa, in tutto il paese, in un contesto di povertà vecchie e nuove, e di “ricchezze” locali non necessariamente monetarie o monetizzabili, si intrecciano relazioni e iniziative economiche e democratiche che hanno un solo, grandissimo difetto, che non è, come pensano i cultori della “sintesi”, dell’”Oorganizzazione” della “massa critica”, tutte categorie novecentesche: il fatto è che questa neo-cittadinanza dipende, nella considerazione e nel riconoscimento di se stessa, da quel che ne dicono i media e dal pessimo senso comune che essi producono. Quando l’autonomia diventerà anche una cultura, una visione delle cose, allora si potrà intravedere un barlume in fondo al tunnel.

fonte:  http://www.democraziakmzero.org/   17 dicembre 2013

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