L'Esercito cerca
ufficiali di complemento tra esperti di comunicazione di massa,
problemi storici, etnici, religiosi, mediatori culturali, etnologi,
antropologi. Le campagne militari e l'occupazione prolungata di
territori nel Sud del mondo richiedono competenze e professionalità
che vanno oltre il maneggio delle armi. Per l'Italia è una novità,
ma per le Forze Armate americane (e la CIA) si tratta di una pratica
consolidata. In Bolivia nel 1967 i consiglieri USA conoscevano lingua
e costumi degli indios, il Che no. E fu una delle cause della
sua sconfitta.
Gli ultimi
antropologi. Quelli che non hanno smesso di cercare i tristi
tropici
«Quale struttura
connette il granchio con l' aragosta, l' orchidea con la primula e
tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti noi con l' ameba da
una parte e con lo schizofrenico dall'altra?». In questa
provocazione di Gregory Bateson, celebre autore di Verso un'
ecologia della mente, è contenuta la grande sfida
dell'antropologia. Riuscire a dirci qualcosa sul filo che tiene
uniti e separati uomo e natura. E ogni uomo agli altri uomini.
Senza lasciare sempre l' ultima parola alle neuroscienze.
Erano queste le
domande dell'antropologia d'antan, giovane e piena di belle
speranze. Poi con la maturità è venuto meno lo slancio degli
inizi. E si sono ridimensionate ambizioni e interrogazioni dei
padri fondatori. Quelli che andavano a cercare le risposte ai
confini del mondo. A scoprire qualcosa di sé e della propria
cultura in civiltà diverse dalla nostra. Echi remoti di un'
umanità comune.
Come Bronislaw
Malinowski, che al tempo della prima guerra mondiale vive per anni
nelle isole Trobriand mettendosi nei panni dei nativi e inventa l'
osservazione partecipante. Come il giovanissimo Claude
Lévi-Strauss che, negli anni Trenta, compie il suo viaggio
iniziatico tra gli Indios del Brasile centrale. Trasformando la
missione dell'etnologo in una critica radicale dell' Occidente
coloniale e dei suoi valori. Perché una ricerca etnografica,
diceva l' autore di Tristi Tropici, non è semplicemente «una
professione come un' altra, con la differenza che l' ufficio o il
laboratorio distano alcune migliaia di chilometri da casa», ma
una vera e propria uscita da sé per riconoscersi in altri sé.
Sono gli anni in cui
lo stesso Bateson va a cercare nella trance sacra dei Balinesi,
posseduti dagli dei, una chiave per comprendere le malattie
mentali della nostra società. Poi l' antropologia ha cominciato a
guardare sempre più vicino, soprattutto da quando il mondo è
diventato così piccolo da fare apparire il viaggio quasi
superfluo. Anche perché l' altro ci è arrivato sotto casa. E
così ha perso poco a poco il respiro ideale e teorico necessari
per affrontare le questioni ultime. E si è trasformata in
disciplina di servizio. Immigrazione, cooperazione con i paesi
terzi, volontariato, processi di governance.
Sono questi i nuovi
terreni di studio e di azione che l' hanno resa «una professione
come un' altra». Acquistando forse in utile ciò che perdeva
certamente in fascino. Eppure l' apertura romantica e avventurosa
verso l' altro, che ha fatto grande e popolare l' antropologia
fino agli anni Settanta, non ha mai smesso di far battere il cuore
dei ricercatori. Ha continuato a scorrere come un fiume carsico
nelle viscere delle scienze umane. E sta riaffiorando alla grande
negli ultimi anni. Grazie soprattutto a molti giovani che
inaugurano una nuova stagione esotica della ricerca. Recuperando,
in piena globalizzazione, la missione originaria di coscienza
critica dell'etnocentrismo occidentale.
Ecco i nomi. Adriano
Favole, professore a Torino, autore di importanti ricerche nelle
isole dei Mari del Sud, quelle che ispirarono a Rousseau e Diderot
il mito del buon selvaggio. Futuna, Vanuatu e la Nuova Caledonia.
Paradisi del primitivismo. Anche se ormai i villaggi dei celebri
cacciatori di teste kanaki, che tanto impressionarono il capitano
Cook, hanno ceduto il posto a capolavori di architettura
contemporanea, come il centro culturale Jean-Marie Tjibaou di
Nouméa, progettato da Renzo Piano e ispirato alle forme e alle
consuetudini dell' abitare locale.
Non meno esotico il
terreno di Chiara Pussetti, dottore di ricerca a Torino e adesso
ricercatrice a Lisbona, che lavora sui riti di possessione
femminile a Bubaque, la più grande delle Bijagó, isole gettate
come dadi nell'Oceano Atlantico al largo della Guinea Bissau, dove
scimmie, lamantini, antilopi striate, coccodrilli e ippopotami d'
acqua salata convivono nelle lagune tra le foreste di mangrovia,
in uno scenario di mare e di costa degno di Joseph Conrad.
E se il viaggio verso
terre lontane è da sempre il nocciolo duro della formazione dell'
antropologo, Matteo Aria ne è il manifesto vivente. Navigatore,
skipper ed etnologo, Aria - laurea a Pisa e dottorato a Napoli - è
uno specialista delle Isole del Vento. Tahiti e Moorea, nel cuore
di quella Polinesia che divenne patria elettiva di artisti come
Paul Gauguin e Jacques Boullaire. In fuga da se stessi e dalla
propria civiltà. Altrettanto originale è il lavoro di Claudio
Sopranzetti, laureato alla Sapienza e PhD a Harvard, autore di una
raffinata indagine-inchiesta a Bangkok sulle rivolte del popolo
dei mototaxisti, gli unici a sapersi muovere a occhi chiusi nel
labirinto inestricabile della megalopoli asiatica che cambia forma
ogni giorno sotto i piedi degli abitanti. Il suo libro Red
Journeys è stato giudicato negli Usa il miglior libro di
antropologia urbana del 2012.
Non è da meno
Francesco Ronzon, estetologo-etnologo, che è disceso nel mistero
tenebroso della magia di Haiti, per studiare i risvolti politici
dei riti voodoo nello scenario drammatico del dopo terremoto che
ha colpito l'isola caraibica. E, last but not least, la trentenne
Gaia Cottino, addottorata alla Sapienza, che non ha resistito al
mito polinesiano, ma ha scelto di guardarlo con gli occhi del
presente. Il suo libro, Il peso del corpo, è dedicato alla guerra
delle taglie che gli isolani delle Tonga, dove essere grassi è
bello, combattono contro l' Occidente. Che tenta di imporre i suoi
parametri estetici e medici in base ai quali i tongani risultano
tutti brutti e obesi. Bisognosi della nostra industria
farmaceutica.
Insomma in questi
cervelli "made in Italy" in cerca di futuro è scoppiata
di nuovo quell'inquieta fame di mondo che Einstein chiamava
heilige neugier, santa curiosità. Preziosa soprattutto nei
momenti di crisi, quando c'è bisogno di nuove idee. Lo ha capito
bene l'esercito italiano che ha appena lanciato una call for jobs
agli antropologi italiani di ultima generazione. Per farne la task
force della conoscenza dell'umanità di domani.
(Da: La Repubblica del
19 novembre 2013 )
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