A sessant’anni dalla morte di Rocco Scotellaro ci piace ricordarlo così:
Nicola Fanizza
Rocco Scotellaro: così vicino così lontano!
Nei confronti di Rocco Scotellaro – morto di infarto, ad appena trent’anni, il 15 dicembre 1953 a Portici (Napoli) – ho sempre avvertito una prossimità distanziante. Una vicinanza dovuta al fatto che nella sua storia di intellettuale contadino ho ritrovato gli stessi accidenti che hanno costellato la mia adolescenza. Tuttavia, mentre Scotellaro si è trovato nella condizione di poter rappresentare la civiltà contadina nel suo crepuscolo – cogliendone anche i prodromi della sua imminente decomposizione –, a me, invece, il caso ha voluto che fossi testimone della sua definitiva dissoluzione.
Di fatto, nell’Italia Meridionale degli inizi degli anni Sessanta, la professione del contadino diventò una vera e propria condizione infernale. I braccianti venivano denigrati e il loro sex appeal era vicino allo zero assoluto. Le ragazze preferivano gli impiegati, i marittimi, gli operai e giammai i figli dei contadini che erano oggetto di disprezzo. Tutto ciò lo coglievo nei racconti dei mie fratelli più grandi, i quali a volte mi parlavano delle loro disavventure sentimentali. Il dileggio del mondo rurale diventò una scheggia che si conficcò nelle mie carni quando iniziai a frequentare la scuola media. I miei compagni di classe stigmatizzavano il lavoro manuale in generale e, in particolare, il lavoro del contadino. Da qui il patèma che investiva il mio animo ogni qualvolta mio padre mi portava in campagna a lavorare. Il ritorno a casa per me era un dramma: quando, al crepuscolo, il nostro carro trainato dalla mula entrava nelle strade del mio Paese, mi coprivo con un sacco per evitare che i miei compagni di classe scoprissero che ero figlio di contadini.
Questa vicinanza non può essere disgiunta, tuttavia, da una buona dose di diffidenza nei confronti dei poeti, che mi porto dietro sin da quando frequentavo il Liceo. Allora non riuscivo a giustificare l’entusiasmo con cui la maggior parte dei nostri rimatori nel 1914/1915 si era schierata a favore dell’entrata dell’Italia in guerra. Di fatto siamo entrati in guerra anche grazie alla follia dei poeti, alla loro tenerezza aggressiva e, insieme, priva di tormenti. In seguito ho capito le motivazioni che stanno a fondamento di quella esiziale determinazione: essa, infatti, diventa intellegibile solo se si tiene nel debito conto l’inflessione irrazionalistica che caratterizzava la temperie culturale dell’Italia giolittiana. All’inizio del secolo si affermarono i crepuscolari che univano al misticismo dell’anima «nordica» il nazionalismo – e a volte anche il pacifismo – dell’anima «latina»; e, in seguito, i futuristi, i nuovi poeti incendiari, pronti a lanciarsi nelle fiamme della guerra per mettersi alla prova. La guerra fu vissuta sia dagli uni che dagli altri come un rito di iniziazione: la vertigine che essi avrebbero provato di fronte alla morte appariva loro come un viatico verso l’estasi mistica.
Anche Scotellaro – come avremo modo di vedere in seguito – sperimentò la trance estatica nel corso della sua breve esistenza. Era nato a Tricarico (Matera) nel 1923. Di umili origini – suo padre era un calzolaio – a dodici anni si trasferì in collegio per portare a compimento gli studi classici. Dopo il liceo, frequentò la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Roma ma non conseguì la laurea. Nel 1943 si iscrisse al PSI, fu protagonista del movimento che portò all’occupazione delle terre e nel 1946 fu eletto sindaco socialista della sua città natale. Mantenne tale carica fino al 1950, quando fu arrestato con l’accusa di irregolarità amministrative. Rimase in carcere quasi due mesi fino a quando le autorità giudiziarie presero atto della sua totale innocenza. Nello stesso anno, grazie all’intervento di Carlo Levi, ottenne un impiego presso l’Istituto agrario di Portici, diretto dal meridionalista Manlio Rossi Doria. Quest’ultimi furono i suoi mentori.
Allo stesso modo di Rossi Doria, Scotellaro è un dimenticato. Ha avuto forse degli eredi un meridionalista come Salvemini? Hanno forse avuto degli eredi tutti gli altri meridionalisti della prima metà del secolo scorso da Guido Dorso a Umberto Zanotti-Bianco, da Piero Delfino Pesce a Vincenzo Calace, fino a Tommaso Fiore? Scotellaro ha condiviso il destino di un’intera generazione di intellettuali che per lo più erano di formazione positivistica. Erano dei tecnici: Calace era un ingegnere; Rossi Doria era un agronomo; Salvemini, attraverso la mediazione del geografo Arcangelo Ghisleri, si richiamava a Carlo Cattaneo, fondatore della rivista «Il politecnico». Non hanno avuto eredi, poiché non erano degli accademici o per altri motivi che mi sfuggono.
Eppure tale dimenticanza stride con quello che Carlo Levi dice nella sua Prefazione al volume di Scotellaro L’uva puttanella (1954). Qui parla della difficoltà dei contadini nell’accettare la morte di Scotellaro: «Alcuni vanno dicendo che Rocco è stato rapito e portato in America; […]. altri lo attendono vivo da un giorno all’altro. Non c’è casa di contadini a Tricarico dove il ritratto di Rocco non sia appeso al muro accanto alle immagini dei Santi».
Levi non è stato un buon profeta! Oggi, a sessant’anni di distanza dalla sua morte, si sono dimenticati di lui persino a Tricarico. Due anni fa, l’amministrazione comunale ha autorizzato la costruzione di una gigantesca cappella privata che oscura la tomba di Scotellaro. Il monumento funebre, che si affaccia sulla valle del fiume Basento, fu costruito nel 1957 su proposta di Carlo Levi e fu finanziato da Adriano Olivetti. Il ricordo di Scotellaro si configura ormai come un’ombra che va rimossa, il suo fantasma può sopravvivere solo nel museo Lanfranchi di Matera. Qui, nel grande dipinto Lucania 61 di Carlo Levi, appare con il volto da bambino cresciuto. Dal rosso dei suoi capelli – il colore della sua fede politica – sembra irradiarsi una luce che rende meno opachi gli incarnati dei contadini.
Non è mia intenzione ricostruire il dibattito che ebbe luogo sulla sua opera nel Convegno di Matera del febbraio 1995, che vide la partecipazione di Carlo Levi, Franco Fortini, Rainero Panzieri, Tommaso Fiore, Carlo Muscetta, Mario Alicata, ecc. Si tratta di un dibattito datato e, comunque, non rientra nel perimetro di questo breve articolo. Non intendo neppure rappresentare Scotellaro come un santino proletario allo stesso modo in cui gli autori di destra rappresentano Padre Pio. Né, infine, intendo parlare di Scotellaro per farne l’occasione per un viaggio estetizzante fra le macerie della civiltà contadina.
Ciò che qui, invece, mi preme sottolineare è che Scotellaro merita di essere ricordato per due motivi: la sua produzione poetica e la sua inchiesta sul mondo rurale. Questo non vuol dire, tuttavia, precludersi la via per individuare gli aspetti poco convincenti della sua opera.
Ritengo che sia opportuno individuare nella sua produzione poetica non tanto i soliti temi che rimandano alla mitica civiltà contadina – il «romanticismo rurale» o il «vittimismo», legato alla metafora dell’uva puttanella (acini piccoli) –, quanto quelle parole che Scotellaro scrive con il sangue. Pongo in questo senso all’attenzione del lettore i primi versi della poesia, Passaggio alla città: «Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà».
Per me questi versi sono stati per molto tempo un vero rompicapo. I miei voli pindarici mi spingevano stabilire ardite analogie e tuttavia non sortivo alcun risultato. Solo in seguito ho capito che il termine «libertà» non rimandava in origine alle istanze più personali e individualistiche, ma a ciò che legava ciascun individuo agli altri, al legame con gli altri, all’obbligo nei confronti degli altri. Il poeta lucano poteva dire di aver perso la propria libertà proprio perché la identificava con ciò che lo legava agli altri individui. Il rito del bere il vino assieme ai suoi contadini aveva ormai perso la sua capacita di addomesticare la distanza con l’altro da sé. Scotellaro, infatti, era disperato proprio perché coglieva nelle pratiche rituali del mondo contadino l’insinuarsi del germe dell’utilitarismo e dell’individualismo borghese, che sortiva una prossimità che diventava sempre più distanziante.
D’altra parte proprio questa distanza diventa il viatico delle sue estasi: la vertigine che egli avvertiva quando sperimentava la lontananza dai suoi contadini, infatti, lo spingeva nei cieli in cui «sbocciavano le stelle d’Oriente».
Il tema della distanza è anche presente nel volume Contadini del Sud, pubblicato nel 1954, in cui sono state raccolte le cinque storie di vita che Scotellaro aveva scritto negli ultimi mesi della sua vita. A partire dal 1950, stringe un rapporto di fraterna amicizia con Rossi Doria, un ex comunista che in seguito aveva aderito al PdA per poi approdare al PSI, il quale lo aveva invitato a diffidare dei politici del Sud che egli prese a definire con l’epiteto di «pidocchi». Nel secondo dopoguerra i politici meridionali, sfruttando l’intervento pubblico, rafforzavano la loro funzione di gestione del potere per conto della borghesia agraria. Un ruolo questo che tutt’oggi continua anche se con modalità diverse. Gli eredi di quegli intellettuali squillo, a partire dagli inizi degli anni ottanta, continueranno a svolgere la stessa finzione nella gestione dei fondi europei, dei piani regolatori e degli appalti non più per conto del patriziato cittadino, ma della nuova borghesia di origine criminale.
Dopo la sconfitta del 1948, Scotellaro decide di continuare la lotta, anche se in modo diverso rispetto al passato, tracciando una strada che in seguito verrà percorsa da Danilo Montaldi in Autobiografie della leggera, da Gianni Bosio in Il trattore di Acquanegra e da Pietro Marcenaro in Riprendere tempo.
Il suo merito consiste nell’aver introdotto nella ricerca sociologica e antropologica il metodo biografico. Tutto ciò dava luogo a una inedita forma di scrittura, oscillante fra la ricerca sociologica e la letteratura. Per di più la presenza fra le sue carte di un’annotazione inerente al famoso passo de Il Principe di Machiavelli – «cosí come coloro che disegnano e’ paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongano alto sopra monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare» –, sta a indicare l’importanza che egli attribuiva alla questione della distanza nel rapporto fra osservatore e osservato.
Si tratta di un modo nuovo di fare ricerca che, valorizzando la soggettività degli intervistati presi in osservazione, dava la possibilità di addomesticare – entro certi limiti – la distanza fra l’osservatore e l’osservato in modo che entrambi fossero coinvolti in un comune processo di trasformazione della realtà.
Ciò nondimeno, benché Scotellaro sia consapevole della distanza che intercorre fra il ricercatore sociale e il soggetto sociale preso in osservazione, spesso sposta significativamente la sua presenza verso l’osservato e sporca in termini irrimediabili la relazione dialettica che pur aveva avviato in modo originale: ossia il lettore non riesce mai a decidere fin dove parla il contadino e fin dove è Scotellaro che parla.
Concludo queste brevi note con due versi in cui Scotellaro si rivolge alla gioventù del Sud: «Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sulle bocche arse rispunti il sorriso». E se fosse il 2013?
Nicola Fanizza, 15 dicembre 2013
su http://www.nazioneindiana.com
Nessun commento:
Posta un commento