Raffaele K. Salinari *
La nudità imposta
La nudità imposta
Mio nonno Raffaele era partito i primi del
Novecento con il Lusitania alla volta di New York. Con
la sua valigia di cartone ed il biglietto di terza classe
aveva condiviso il mal di mare ed il nero delle notti
sull’oceano nella soffocante atmosfera di cuccette
che rimbombavano del fragore dei motori
e impregnavano i vestiti di olio meccanico.
Non c’erano pianisti a bordo che
rallegrassero le serate, come racconta il
neobarbaro Baricco, né i giacigli
sembravano «letti a due piazze» come canta De
Gregori. Questo mi diceva il nonno, ed anche, dopo tutto
quel viaggio verso l’ignoto, lo sbarco ad Ellis Island dove
nei suoi occhi di ottuagenario c’era ancora il
ricordo di quando lo avevano spogliato, rasato,
e disinfettato con la pompa antisettica.
Quella nudità collettiva, quella fila di corpi senza
più la diversità caratterizzante che davano
i seppur miseri vestiti, lo sconvolgeva ancora.
Quando trovò sul mio comodino «Se questo è un
uomo» mi disse semplicemente: lo capisco.
La nudità imposta, lo scoprire a forza la «nuda
vita» come dice Benjamin, mostra ed espone il cuore
dell’essere; non è un caso che ogni forma di dominio
biopolitico, a cominciare dai Lager
nazisti, summa anticipatrice della modernità,
l’abbia utilizzata come dispositivo di
espropriazione di questo cuore. Eppure, proprio
per questo, la resilienza, la sistole che diventa
comunque diastole, che torna ad espandere la dignità
dell’essere nudo davanti ai suoi carnefici, prevale,
anche se non sempre, e prende forme multiple,
come quelle di mostrare al mondo un video di denuncia di certe
pratiche, com’è successo a Lampedusa.
Anche nei lager c’erano procedure sanitarie,
anche Mengele sperimentava secondo protocolli
galileani, ma il senso di tutto questo era
deformato dall’intento finale, dalla volontà
dell’umiliazione.
Non sappiamo se così sia stato anche per Lampedusa,
vogliamo sperare di no, anzi dobbiamo sperare di no,
le indagini lo diranno. Ma questo non impedisce
che una riflessione più profonda vada fatta su ciò che
è successo, anche indipendentemente,
se sarà così, dalla volontà di chi ha gestito i fatti. In
primis un dato antropologico: possibile
che dopo tanti anni di esperienza con i corpi migranti non
si sia ancora capito dove risiede quell’inalienabile
dignità che essi hanno conservato nelle traversate
mortali, che hanno mantenuto nelle torture,
negli stupri, negli abusi di tutti i tipi? Come si può
essere così ciechi da non capire il valore simbolico
del vestito e della nudità di massa?
E allora qui siamo di fronte non ad una semplice
superficialità, o peggio, ma ad una
incompetenza che mette a giustificazione
di un gesto grave dei protocolli che possono essere
applicati in ben altre maniere. E ancora, quale civiltà
dell’accoglienza permette o anzi impone tali
protocolli? Ci sono dunque responsabilità
puntuali, ma anche politiche. Nulla è cambiato
dalla tragedia di Lampedusa.
I mancati funerali di Stato, promessi dal
presidente del Consiglio, hanno gettato non
solo un’ombra sulle reale volontà di umanizzare
l’inumanizzabile, ma anche di riconoscerne
l’insostenibile valenza mortificante. Allora
i corpi non c’erano, occultati in tombe senza nome, oggi
sono esposti allo scandalo di se stessi, accecanti
come tutto ciò che si vede vergognandosene. Ora
ci sono le immagini, e lo Spettacolo ha ripreso
il suo dominio.
La commozione durerà il tempo dei frames
trasmessi dai media, ma la ferità brucerà profonda
nei corpi dei migranti e non solo, e non sappiamo che
infezioni provocherà: è un nostro dovere
sanarla immediatamente.
Già le associazioni si stanno muovendo, e questa
volta non basteranno fugaci visite o promesse da
rivolgere alla lontana Europa, per occultare il
problema. Tutte le soluzioni sono alla portata del
governo ora, dei suoi ministri e del presidente
del Consiglio. Ci aspettiamo radicali
cambiamenti nelle prossime ore.
Il Manifesto – 19 dicembre 2013
*Medico, Presidente della Fondazione Terre Des
Hommes Italia. Autore di numerose pubblicazioni.
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