Nel mondo della
tecnica e delle merci quale è il senso profondo delle cose? Questa
domanda sta alla base dell'intera cultura del Novecento. E' in questo
contesto più generale che l'arte da rappresentazione diventa
tentativo di comprensione (e di ricostruzione unitaria di una realtà
frammentata) e dunque teoria.
Giuseppe Dierna - Quadri e teoria
Con l’inizio degli anni
Dieci del Novecento si affaccia in pittura un nuovo tipo di artista
che denuncia ormai come limitativo il semplice agire con tavolozza e
pennelli. Serve la teoria. Si comincia col Manifesto dei pittori
futuristi (seguito, da lì a poco, dal loro Manifesto tecnico), ma è
l’uscita nel 1911 dello Spirituale nell’arte di Vassily Kandinsky
a segnare il discrimine. Quello che vi si prospetta non sono infatti
solo notazioni tecniche o provocatorie, ma un più ampio discorso che
vede le arti tutte legate assieme: un’intera filosofia.
E l’anno successivo
l’ulteriore mossa: due pittori, lo stesso Kandinsky e Franz Marc,
danno alle stampe a Monaco l’almanacco Der Blaue Reiter (Il
cavaliere azzurro), dove chiamano a collaborare ancora artisti
figurativi: i russi Nikolaj Kulbin e David Burljuk (futuro firmatario
dei primi manifesti futuristi russi), e August Macke, e Arnold
Schönberg, all’epoca ancora pittore di taglio espressionista.
Kandinsky spiegherà le
ragioni di quel gesto: «Marc e io c’eravamo buttati nella pittura,
ma la pittura da sola non ci bastava. Ebbi allora l’idea di un
libro sintetico che […] dimostrasse che il problema dell’arte non
è un problema di forme ma di contenuto spirituale». L’artista
diventa critico e divulgatore, organizzatore culturale (sono infatti
i due redattori ad approntare le due mostre del Cavaliere azzurro). E
a marcare l’affermarsi di una diversa concezione, quando a Matisse
fu chiesto di collaborare all’almanacco con un breve articolo, egli
rifiuta: «Per scrivere — afferma — bisogna essere scrittori».
Altra visione.
Avviene così un fatto
bizzarro. Proprio nel momento in cui si sostiene — col pennello —
la più totale autonomia del fatto pittorico, negando il soggetto e
aspirando alla pura astrazione, alcuni pittori sentono l’ineludibile
bisogno di accompagnare le loro pratiche con annotazioni teoriche
esplicative che — come in Kandinsky — arrivano fino
all’elaborazione di complesse teorie.
Si scrive con intenti
diversi. Per sistematizzare gli spostamenti della propria concezione
artistica, come farà ancora Kandinsky col successivo Punto e linea
nel piano (pubblicato nel ‘26 nella collana dei «Libri del
Bauhaus», accanto ai volumi di Paul Klee), e come il raggista
Michail Larionov (presente, con Natalija Goncarova, alla Seconda
mostra delCavaliere azzurro) che — ormai in Russia — difende
nell’opuscolo Raggismo quella sua idea di una pittura che
scaturisca «dall’intersezione dei raggi riflessi da oggetti
diversi».
Malevic, Quadrato nero (1915) |
Per Malevic, altro
reduce di quella Seconda mostra, è invece come se, giunto col
Quadrato nero al grado zero della pittura («mi sono trasformato
nello zero delle forme», scrive a Pietroburgo nel ‘15), lui
dovesse in qualche modo riempire di teoria quel vuoto, anche se la
linearità dell’esposizione non sembra affatto il fine a cui mira.
Scriverà più tardi: «sembra provato che col pennello non si riesce
ad ottenere ciò che invece si può con la penna».
E, accanto a quest’ansia di precisazione teorica, c’è nei vari Kandinsky, Chagall e Malevic anche un desiderio di immettere il loro sapere nei rinnovati canali della didattica. Li ritroviamo così a insegnare nelle scuole d’arte ristrutturate dopo il ‘18 all’ombra del Commissario alla cultura A. Lunacarsky.
Kandinsky stilerà anche il Programma per l’Istituto di Cultura Artistica di Mosca, che — benché non approvato per «eccesso di spiritualismo» (l’Istituto sta entrando nel dominio costruttivistico di Rodcenko) — giungerà nelle mani di Walter Gropius che sta mettendo su a Weimar il suo Bauhaus, dove il pittore passerà subito a insegnare.
(La Repubblica – 17
dicembre 2013)
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