Renato
Guttuso (Bagheria, 26 dicembre 1911 - Roma, 18 gennaio 1987) in una foto del
’72, mentre dipinge "I funerali di Togliatti"
Marcello Sorgi
– Guttuso, lunga marcia nelle molte
Italie
Una parola,
l’Italia di Guttuso. Meglio parlare delle sue molte Italie, quella di Garibaldi
e poi di Giolitti, di Mussolini e degli intellettuali di regime, quella
democristiana e comunista e poi craxiana, fino al sigillo finale di Andreotti.
Una, due vite, a cavallo di uno, due secoli, percorsi insieme con leggerezza,
cupezza e inguaribile ambiguità siciliana, molta curiosità, un certo uso di
mondo e gusto della contraddizione.
Nato il 26 dicembre 1911 (ma denunciato all’anagrafe solo il 2 gennaio del ’12) a Bagheria, in una famiglia piccolo-borghese di provincia - padre agrimensore, nonno garibaldino combattente nella battaglia di Ponte Ammiraglio alle porte di Palermo, alta aristocrazia nelle amicizie giovanili e nell’innamoramento per la figlia del Duca di Salaparuta, Topazia Alliata -, Renato Guttuso, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita e il venticinquennale dalla morte (18 gennaio 1987), si ricorda soprattutto per la sua irrequietezza da artista, per l’insofferenza a vivere entro un orizzonte limitato, per il desiderio continuo di allontanamento, evasione, conoscenze ed esperienze sempre nuove.
La madre Giuseppina lo voleva avvocato, il padre Gioacchino, che per diletto cantava, suonava il flauto e dipingeva acquarelli, riconobbe subito il suo talento. Guttuso non aveva ancora vent’anni quando, in pieno fascismo, superate le selezioni locali e con la sola scuola dei decoratori di carretti siciliani, esponeva i suoi primi quadri alla Quadriennale e poi alla Biennale, proiettandosi sul piano internazionale. Era arrivato nel ’31 nella Milano fascista, intellettuale e un po’ frondista di Bottai e della rivista Corrente, del premio Bergamo contrapposto al premio Cremona, a Farinacci e all’ortodossia del regime. Trova De Grada, Vittorini e Quasimodo, scrittori, che svernano nell’ambiziosa galleria «Il Milione»; lo scultore Manzù così povero che una sua figlia morirà di denutrizione; i pittori Birolli e Sassu che finiranno arrestati nel ’35 nella prima grande retata contro gli antifascisti.
Il momento della conversione, dal fascismo all’antifascismo, viene nel ’37 a Roma, alla vigilia delle leggi razziali, quando Guttuso incontra Francesco Trombadori e per suo tramite la scuola pittorica romana, il cinema di Luchino Visconti e successivamente, nel ’40, il Pci clandestino di Togliatti, non ancora rientrato in Italia, e Alicata. A Metelliano, in Toscana, nella villa del collezionista mecenate Umberto Morra di Lavriano, conosce Bobbio, Capitini e lo stato maggiore di «Giustizia e libertà», ritratti in un disegno storico che qualche anno fa ha rivisto la luce a Torino. Bernard Berendson lo accompagnerà a Firenze. Mentre Bottai tollererà finché potrà l’eresia del giovane e molto amato pittore siciliano: il momento della rottura è nel ’43, quando Guttuso dipinge la sua Crocifissione, con la Maddalena nuda che abbraccia il corpo di Gesù, e spunta la sconfessione di Farinacci, seguita dalla scomunica del Papa.
Nel ’48 Guttuso è a Wroclaw, con Picasso e Neruda alla prima grande marcia della Pace. Da Bagheria alla Polonia sovietizzata della guerra fredda e della cortina di ferro che divide l’Europa, ha già fatto molta strada. Intellettuale organico, ancorché intimamente ironico, del movimento comunista (e stalinista) internazionale, è passato definitivamente nell’altro campo.
Ma a questo punto, per seguire la sua evoluzione, si possono allineare come pietre miliari i suoi quadri più importanti. Per rileggere, nella Crocifissione, il dolore e la desolazione della guerra, e nell’Occupazione delle terre la disperazione e la fame dei contadini siciliani, su uno sfondo oppressivo da girone infernale dantesco. Gli Anni Cinquanta porteranno un brusco cambio di scena descritto in due quadri fortemente simbolici, La spiaggia e il Boogie-woogie, con i nuovi riti di massa dell’inurbamento e delle vacanze sfrenate, la scoperta dei balli, dei divertimenti, dello stile di vita consumista che vengono dall’America, il progresso e il boom economico che Guttuso, con logica quanto arretrata visione anticapitalistica, percepisce come autentica «tragedia metropolitana». Salvo poi ripensarci, avvertendo il bisogno di modernità, culture e idee innovative, e trovando nell’Edicola, luogo dell’informazione, una sorta di santuario laico a cui si accosta un cittadino avido di conoscenza.
Dopo un altro decennio, e siamo nel ’72, saranno I funerali di Togliatti - con l’immagine pop della bara circondata di fiori colorati, che ricorda la copertina del Sgt. Pepper’s dei Beatles -, a chiudere il periodo dell’impegno, quando già il leader comunista è scomparso da un pezzo. Ma prima c’è un curioso episodio che porta Guttuso, in libera uscita dai rigori comunisti antisessantotteschi del suo partito, ad affrescare un muro della facoltà romana di Architettura accanto a Paolo Liguori e agli extraparlamentari del gruppo degli «Uccelli». E c’è un documentario, La rabbia, girato con Pasolini, suo stretto amico.
La nuova epoca guttusiana che verrà è inizialmente malinconica, di ricerca. C’è, nel ’76, la Vucciria: il vecchio e variopinto mercato siciliano sintetizza tutto il mondo antico che scompare, è Palermo ma potrebbe essere Marrakech o Tashkent, operai, contadini e lotta di classe non ci sono più. La desolazione di un cimitero di auto abbandonate è solo una tappa, mentre premono, sulla tela, donne nude o seminude che parlano, ballano o spettegolano tra loro nel grande quadro della Piscina.
Non si può capire Guttuso senza considerare il suo grande amore per le donne. Due in particolare, tra le tante che affollarono la sua esistenza: la moglie Mimise Dotti, artefice del suo successo iniziale e dell’accreditamento nel difficile ambiente politico, culturale e mondano della Roma fascista dei gerarchi. E Marta Marzotto, musa dell’ultima stagione, simboleggiata nella tigre che si aggira nervosa nel giardino del suo studio, nel quadro La visita della sera.
L’ultimo è il periodo dell’Italia craxiana, che come a molti vecchi comunisti anche a lui non piaceva. E del ripiegamento, del rifiuto degli obblighi della vita pubblica da senatore, dell’anzianità combattuta con ritmi frenetici di lavoro nei tre studi di Roma, Velate e Palermo, di una vita più ritirata, con gli amici con cui amava giocare a scopone tutti i giorni. Sono anche gli anni della lite con Leonardo Sciascia, e di un dubbio religioso più esplicito, che, pur presente da tempo nella sua vita (si pensi, ancora una volta, alla Crocifissione, o al terribile Gott mitt uns, in cui Dio è schierato con i tedeschi), resterà segreto fino all’ultimo.
E sarà in qualche modo consacrato, alla fine, nella surreale messa celebrata in casa, poco prima della morte di Guttuso, dal cardinale andreottiano Angelini, davanti allo stesso Andreotti e a Tatò, segretario di Berlinguer. E dal funerale cattocomunista a Santa Maria della Minerva, in cui non a caso Bo e Moravia si alzano a parlare uno dopo l’altro, mentre Iotti e Fanfani, emblematicamente, aprono allineati il corteo che accompagna la bara.
Nato il 26 dicembre 1911 (ma denunciato all’anagrafe solo il 2 gennaio del ’12) a Bagheria, in una famiglia piccolo-borghese di provincia - padre agrimensore, nonno garibaldino combattente nella battaglia di Ponte Ammiraglio alle porte di Palermo, alta aristocrazia nelle amicizie giovanili e nell’innamoramento per la figlia del Duca di Salaparuta, Topazia Alliata -, Renato Guttuso, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita e il venticinquennale dalla morte (18 gennaio 1987), si ricorda soprattutto per la sua irrequietezza da artista, per l’insofferenza a vivere entro un orizzonte limitato, per il desiderio continuo di allontanamento, evasione, conoscenze ed esperienze sempre nuove.
La madre Giuseppina lo voleva avvocato, il padre Gioacchino, che per diletto cantava, suonava il flauto e dipingeva acquarelli, riconobbe subito il suo talento. Guttuso non aveva ancora vent’anni quando, in pieno fascismo, superate le selezioni locali e con la sola scuola dei decoratori di carretti siciliani, esponeva i suoi primi quadri alla Quadriennale e poi alla Biennale, proiettandosi sul piano internazionale. Era arrivato nel ’31 nella Milano fascista, intellettuale e un po’ frondista di Bottai e della rivista Corrente, del premio Bergamo contrapposto al premio Cremona, a Farinacci e all’ortodossia del regime. Trova De Grada, Vittorini e Quasimodo, scrittori, che svernano nell’ambiziosa galleria «Il Milione»; lo scultore Manzù così povero che una sua figlia morirà di denutrizione; i pittori Birolli e Sassu che finiranno arrestati nel ’35 nella prima grande retata contro gli antifascisti.
Il momento della conversione, dal fascismo all’antifascismo, viene nel ’37 a Roma, alla vigilia delle leggi razziali, quando Guttuso incontra Francesco Trombadori e per suo tramite la scuola pittorica romana, il cinema di Luchino Visconti e successivamente, nel ’40, il Pci clandestino di Togliatti, non ancora rientrato in Italia, e Alicata. A Metelliano, in Toscana, nella villa del collezionista mecenate Umberto Morra di Lavriano, conosce Bobbio, Capitini e lo stato maggiore di «Giustizia e libertà», ritratti in un disegno storico che qualche anno fa ha rivisto la luce a Torino. Bernard Berendson lo accompagnerà a Firenze. Mentre Bottai tollererà finché potrà l’eresia del giovane e molto amato pittore siciliano: il momento della rottura è nel ’43, quando Guttuso dipinge la sua Crocifissione, con la Maddalena nuda che abbraccia il corpo di Gesù, e spunta la sconfessione di Farinacci, seguita dalla scomunica del Papa.
Nel ’48 Guttuso è a Wroclaw, con Picasso e Neruda alla prima grande marcia della Pace. Da Bagheria alla Polonia sovietizzata della guerra fredda e della cortina di ferro che divide l’Europa, ha già fatto molta strada. Intellettuale organico, ancorché intimamente ironico, del movimento comunista (e stalinista) internazionale, è passato definitivamente nell’altro campo.
Ma a questo punto, per seguire la sua evoluzione, si possono allineare come pietre miliari i suoi quadri più importanti. Per rileggere, nella Crocifissione, il dolore e la desolazione della guerra, e nell’Occupazione delle terre la disperazione e la fame dei contadini siciliani, su uno sfondo oppressivo da girone infernale dantesco. Gli Anni Cinquanta porteranno un brusco cambio di scena descritto in due quadri fortemente simbolici, La spiaggia e il Boogie-woogie, con i nuovi riti di massa dell’inurbamento e delle vacanze sfrenate, la scoperta dei balli, dei divertimenti, dello stile di vita consumista che vengono dall’America, il progresso e il boom economico che Guttuso, con logica quanto arretrata visione anticapitalistica, percepisce come autentica «tragedia metropolitana». Salvo poi ripensarci, avvertendo il bisogno di modernità, culture e idee innovative, e trovando nell’Edicola, luogo dell’informazione, una sorta di santuario laico a cui si accosta un cittadino avido di conoscenza.
Dopo un altro decennio, e siamo nel ’72, saranno I funerali di Togliatti - con l’immagine pop della bara circondata di fiori colorati, che ricorda la copertina del Sgt. Pepper’s dei Beatles -, a chiudere il periodo dell’impegno, quando già il leader comunista è scomparso da un pezzo. Ma prima c’è un curioso episodio che porta Guttuso, in libera uscita dai rigori comunisti antisessantotteschi del suo partito, ad affrescare un muro della facoltà romana di Architettura accanto a Paolo Liguori e agli extraparlamentari del gruppo degli «Uccelli». E c’è un documentario, La rabbia, girato con Pasolini, suo stretto amico.
La nuova epoca guttusiana che verrà è inizialmente malinconica, di ricerca. C’è, nel ’76, la Vucciria: il vecchio e variopinto mercato siciliano sintetizza tutto il mondo antico che scompare, è Palermo ma potrebbe essere Marrakech o Tashkent, operai, contadini e lotta di classe non ci sono più. La desolazione di un cimitero di auto abbandonate è solo una tappa, mentre premono, sulla tela, donne nude o seminude che parlano, ballano o spettegolano tra loro nel grande quadro della Piscina.
Non si può capire Guttuso senza considerare il suo grande amore per le donne. Due in particolare, tra le tante che affollarono la sua esistenza: la moglie Mimise Dotti, artefice del suo successo iniziale e dell’accreditamento nel difficile ambiente politico, culturale e mondano della Roma fascista dei gerarchi. E Marta Marzotto, musa dell’ultima stagione, simboleggiata nella tigre che si aggira nervosa nel giardino del suo studio, nel quadro La visita della sera.
L’ultimo è il periodo dell’Italia craxiana, che come a molti vecchi comunisti anche a lui non piaceva. E del ripiegamento, del rifiuto degli obblighi della vita pubblica da senatore, dell’anzianità combattuta con ritmi frenetici di lavoro nei tre studi di Roma, Velate e Palermo, di una vita più ritirata, con gli amici con cui amava giocare a scopone tutti i giorni. Sono anche gli anni della lite con Leonardo Sciascia, e di un dubbio religioso più esplicito, che, pur presente da tempo nella sua vita (si pensi, ancora una volta, alla Crocifissione, o al terribile Gott mitt uns, in cui Dio è schierato con i tedeschi), resterà segreto fino all’ultimo.
E sarà in qualche modo consacrato, alla fine, nella surreale messa celebrata in casa, poco prima della morte di Guttuso, dal cardinale andreottiano Angelini, davanti allo stesso Andreotti e a Tatò, segretario di Berlinguer. E dal funerale cattocomunista a Santa Maria della Minerva, in cui non a caso Bo e Moravia si alzano a parlare uno dopo l’altro, mentre Iotti e Fanfani, emblematicamente, aprono allineati il corteo che accompagna la bara.
LA STAMPA 15 GENNAIO 2012
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