Renzi e i comunisti
14 Dicembre 2013
«Renzi è il prodotto del fallimento di una classe dirigente
proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di
praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della
globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai
fondamenti la civiltà occidentale modellata sul paradigma del liberismo
finanziario». FondazionePintor.net, dicembre 2013
Occorrerà tornare con attenzione sul significato e sulle conseguenze
della clamorosa scalata di Matteo Renzi al vertice del Pd attraverso il
plebiscito delle primarie. Intanto però una cosa è certa. Renzi è senza
dubbio il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente
dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di costruire e di
praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della
globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai
fondamenti la civiltà occidentale, modellata sul paradigma del liberismo
finanziario americano.
Ma il nuovo segretario fiorentino è anche un frutto maturo della
Bolognina, quando Occhetto sciolse il Pci tagliando le radici del
movimento operaio e cancellando un’intera esperienza storico-politica su
cui si è costruita la Repubblica democratica. Cosicché, invece di
rinnovare la sinistra e di promuovere innovazione, ha prodotto
subalternità alla cultura liberista e ai poteri dominanti nell’economia e
nella società, separando le nuove forme della politica dalla base
operaia e popolare, abbandonata alla deriva senza rappresentanza e
rappresentazione. Non è difficile vedere che tra i due fenomeni vi è un
intreccio.
Come un lampo che illumina la scena, Reichlin ha dato un giudizio da
tenere sempre a mente, e che non mi stanco di ripetere: “abbiamo confuso
il liberismo con il riformismo”. È la dichiarazione esplicita della
subalternità del Pd, che nella mutazione genetica che lo ha allontanato
anche dalla socialdemocrazia e persino dalla sinistra - come testimonia
il nome stesso - ha generato una crisi di rappresentanza oggi diventata
esplosiva e un modo di fare politica, capovolto nelle sue finalità, che
con il Pci nulla ha a che fare. Non per caso Occhetto ha dichiarato al
Mattino che Renzi è un suo legittimo erede.
Almeno fino a Berlinguer, il Pci si proponeva di trasformare la società
sulla via costituzionale della democrazia, dell’uguaglianza e della
libertà, e dell’accesso della classe lavoratrice alla direzione dello
Stato. Quelli che a torto si sono dichiarati suoi eredi, da Occhetto a
D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, avevano l’obiettivo massimo di
amministrare quel che passa il convento, senza alcun disegno strategico
alternativo. Ma neanche questo sono stati capaci di fare, e alla fine
sono apparsi come gli immobili conservatori dello statu quo.
Ora, di fronte a un dato di fatto inoppugnabile, e alla cancellazione
del Pci dal sistema politico da più di vent’anni, che senso ha
presentare da più parti, con grande frastuono di tromboni e di
trombette, la vittoria di Renzi come una resa dei conti definitiva con i
comunisti? Evidentemente, non si tratta di un semplice fraintendimento,
e neppure della constatazione ovvia che il vincitore proviene dalla
componente ex Dc, o che l’appeal di D’Alema è sceso sotto i tacchi. C’è
qualcosa di più profondo che muove la classe dirigente del capitalismo
italiano e i media ad essa connessi, di cui occorre indagare le
motivazioni e le finalità. Non mi riferisco solo al fatto che le Tv e la
stampa dominante - a cominciare da la Repubblica nonostante
l’avverso parere di Scalfari - hanno spinto in tutti i modi il
compulsivo pifferaio di Firenze. In tanti acclamano Renzi come il nuovo
eroe che schiaccia l’idra del comunismo. È una novità che dà da pensare,
soprattutto se viene interpretata come un’indicazione programmatica per
il presente e per il futuro. Qualche esempio ci aiuta a capire. “Il Pci
non esiste più”. Con le primarie del Pd “si è consumato un evento
epocale per la politica italiana: finalmente è stato chiuso il Pci”,
annuncia trionfante in prima pagina il Giornale diretto dal
condannato e graziato Salustri. Quindi, viva Berlusconi (anche lui
condannato ma non graziato), che finalmente con il sindaco fiorentino ha
debellato il suo nemico storico. Davvero un risultato epocale.
Anche il Corriere della sera applaude per il felice decesso, ma
con i necessari distinguo, come si addice a un celebrato serbatoio del
pensiero della borghesia una volta illuminata. Il Pci morto e sepolto?
Non proprio, sottilizza il prof. Panebianco, a quanto pare esperto anche
in necrologia: meglio dire “forse agonizzante”. Sebbene lui, in tutta
sincerità, preferirebbe scolpire un bell’epitaffio sulla tomba del
morente. Ma per giungere a questo esito, precisa il
politologo-necrologo, Renzi deve agguantare “l’ oro del Pci”. Che non è
il famoso oro di Mosca, bensì il patrimonio immobiliare del vecchio
partito, ossia le sedi dei circoli e le case del popolo costruite con le
mani e con il cuore da milioni di donne e di uomini. In tal modo il
becchino del Pci dovrebbe prosperare con il patrimonio di chi il Pci
l’ha costruito.
Se le parole hanno un senso, questa sarebbe a dir poco appropriazione
indebita. Comunque, una bella lezione di moralità politica, messa a
punto da un addottorato ed esperto professore. Le variazioni sul tema
sono infinite, essendo il Corriere ricco di benpensanti teste
anticomuniste, a cominciare dal capostipite Mieli. Così, se Battista è
contento perché il noto pensatore e scienziato della politica Oscar
Farinetti prende il posto di Enrico Berlinguer, e Di Vico ci spiega che
la strumentalizzazione del movimento dei forconi altro non è se non “la
vecchia tattica del Pci di contrapporre simbolicamente Paese legale e
Paese reale”, un Cazzullo di giornata tira le somme: “sembra dissolversi
una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui
un’ideologia criminale diventava per l’élite della penisola giusta o
comunque nobile”.
Quando la storia ha tanti buchi come un colabrodo, fa brutti scherzi. E
allora ci si dimentica che il Pci in Italia, per quanti errori possa
aver commesso, ha sempre combattuto per la democrazia e la libertà, per i
diritti dei lavoratori e per l’uguaglianza sostanziale; che in Italia i
comunisti non hanno incarcerato nessuno, al contrario il loro capo
Antonio Gramsci è stato fatto morire in carcere dal fascismo; che non
hanno attentato alla vita dei loro avversari politici, al contrario
Palmiro Togliatti ha subito un attentato che lo ha ridotto in fin di
vita. Non sono stati i comunisti italiani a incendiare le Camere del
lavoro, e dopo la Liberazione a sparare contro i contadini a Portella
della Ginestra e gli operai a Reggio Emilia. O a organizzare trame
eversive e il terrorismo, messo in atto fino alla esecuzione
dell’operaio comunista Guido Rossa, proprio per impedire che i comunisti
potessero governare e cambiare l’Italia secondo i principi della
democrazia costituzionale. Diciamolo con chiarezza, senza tema di
smentite.
Tutte le principali conquiste sociali, civili e politiche ottenute in
Italia a cominciare dalla Costituzione - che oggi si vorrebbero
rovesciare nel loro contrario - non sarebbero state possibili senza la
presenza e lotta dei comunisti. Il Pci ha dato dignità, rappresentanza e
forza politica agli operai, ai lavoratori “del braccio e della mente”,
alle donne, ai giovani e anche agli anziani: a tutti coloro che
deprivati del potere economico e politico hanno lottato per un
avanzamento di civiltà costruendo un vasto sistema di alleanze.
Oggi, di fronte a una crisi e a politiche regressive che distruggono la
vita di tante persone e l’intero ambiente in cui la vita si riproduce,
le parole di Enrico Berlinguer ci appaiono di sconcertante attualità:
“La difesa del potere d’acquisto dei salari per il sindacato costituisce
un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe, e per il
nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile
per qualificare un nuovo tipo di sviluppo generale dell’economia
italiana”. Per lui era chiaro che bisognasse aprire la strada a una
civiltà più avanzata nel cuore dell’Europa, che superasse il modo di
produzione capitalistico fondato sfruttamento dell’uomo sull’uomo e
sull’emarginazione di strati sempre più ampi di popolazione, liberando
nel contempo lo Stato dall’occupazione dei partiti e combattendo i
privilegi ovunque annidati. Tanto più che in mancanza di un’alternativa
al potere della classe dominante la democrazia degrada e si corrompe,
convertendosi in oligarchia. E la barbarie è alle porte. Un tema che
oggettivamente si ripropone oggi, sebbene sia stato cancellato dal
sistema politico il soggetto della trasformazione, e il lavoro,
frantumato e diviso, non abbia alcun peso nella configurazione della
politica. Mentre nella società monta il malessere, il disincanto e la
rabbia che non trovano sbocchi, e affiorano qua e là pessimi segnali di
squadrismo fascista. Sotto la dittatura del capitalismo finanziarizzato
globale, che intende sostituire alla centralità del lavoro la centralità
dell’impresa in ogni ambito della vita, stiamo andando verso una
regressione storica.
Una Restaurazione, che però non è un semplice ritorno al passato,
giacché la dittatura del capitale ha bisogno in Italia di una cospicua
modernizzazione che elimini vaste sacche di parassitismo e di
inefficienze del sistema, e di una controriforma istituzionale verso il
decisionismo presidenzialista. Ma che più in generale, per realizzarsi
compiutamente, deve impiantare una sofisticata costruzione ideologica,
che cancelli la discriminante di classe tra capitale e lavoro, e dunque
anche nell’immaginario sopprima la sua antitesi. Vale a dire le
lavoratrici e i lavoratori postfordisti del nostro tempo, figli della
rivoluzione digitale e scientifica, politicamente organizzati come
soggetto libero e autonomo. Il lavoro che si organizza e si rappresenta
in forma politica nella sua libertà e autonomia: è questa fondamentale
conquista storica del Novecento che vogliono definitivamente eliminare
in Italia e in Europa, senza il rischio di possibili ricadute e
riviviscenze. Insomma, una sepoltura tombale per l’eternità.
Precisamente a questo scopo serve l’abbattimento della Costituzione,
pericoloso riferimento ideale e simbolico, oltre che progetto di un
possibile cambiamento. E poiché i comunisti italiani sono quelli che più
si sono avvicinati a una trasformazione in senso socialista di una
società capitalisticamente avanzata per una via democratica e
costituzionale diversa dal modello sovietico e dalla socialdemocrazia,
questo spiega il rigurgito di anticomunismo postdatato ma anche
preventivo e a futura memoria, specificatamente italiano e non solo
berlusconiano, che è stato rilanciato in occasione del plebiscito per
Renzi. Dei comunisti italiani va cancellata dunque la storia e anche la
memoria: perché a nessuno venga in mente che ci si possa organizzare e
lottare in forme democratiche e di massa per un sistema economico
diverso e per una società solidale di diversamente uguali, in cui il
massimo profitto non sia la stella polare e l’economia venga posta al
servizio dell’uomo e non viceversa, e in cui buongiorno voglia dire
davvero buongiorno. Quello che ci fanno sapere, a scanso di equivoci
risuscitando la gogna anticomunista, è che dal capitalismo non si può
uscire, e che questa società ingiusta e insostenibile non si può
rovesciare. Non solo: il governo - ci dicono - è cosa nostra, di noi che
stiamo sopra. Voi che state sotto non avete voce in capitolo, e lì
dovete restare. Questa è la sostanza. E queste sono le questioni di
fondo che emergono dopo la mirabolante ascensione del segretario
fiorentino.
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