Ripropongo di seguito una recensione del libro che mi ha conquistato immediatamente:
Leopoldo Marechal, il peronista innamorato di Buenos Aires
di Gianfranco Franchi - 10/10/2010Fonte: secolo d'italia
Entusiasmò
Jorge Luis Borges. Infiammò di speranza Julio Cortázar, nel lontano
1948. In Italia, sino a pochi giorni fa, era uno sconosciuto per la
maggioranza assoluta dei lettori, e dei letterati. Leopoldo Marechal
(1900-1970) da Buenos Aires è il padre di un romanzo allegorico, Adán Buenosayres
(Vallecchi, pp. 730, € 21,00), considerato da buona parte della
critica contemporanea, in Argentina, uno dei migliori libri di
narrativa mai apparsi da quelle parti, assimilabile per via del respiro
dell'opera e per la ricchezza e lo sperimentalismo dello stile
addirittura all'Ulisse di Joyce.
Il
testo è finalmente a disposizione degli italiani grazie allo scouting
di Vallecchi, editore che ha nel suo dna una grande sensibilità per la
letteratura dell'America del Sud, come testimoniano la prima edizione
del celeberrimo Triste solitario y final di Osvaldo Soriano, del '74, o la pubblicazione della preziosa antologia Latinoamericana,
raccolta di scritti dei maggiori esponenti della letteratura
sudamericana curata da Angel Rama, nel '73. Vallecchi ha presentato in
anteprima il volume in questi giorni, alla prestigiosa Fiera del Libro
di Francoforte, in collaborazione con il ministero delle Relazioni
estere argentino: la nostra editoria di qualità e di progetto ha potuto
così vantare un'altra grande ragione di orgoglio.
Passiamo
adesso a qualche notizia biografica. Chi era Marechal? L'artista,
d'origine francese, nacque a Buenos Aires nel 1900. Terminati gli studi,
si divise tra l'insegnamento e le prime collaborazioni con giornali e
riviste: fu tra gli intellettuali radunati attorno alla rivista Martin
Fierro. Entrò presto in contatto con i più grandi intellettuali della
sua nazione, da Borges (che, in questo libro, è il personaggio Luis
Pereda) a Cortázar. Diremo a breve dei terribili rovesci della sorte di
Marechal, post caduta del regime peronista: rimane da aggiungere che
prima della sua morte, avvenuta nel 1970, pubblicò un secondo romanzo (Il banchetto di Severo Arcangelo) e cinque anni più tardi il suo terzo e ultimo romanzo (Megafon o la guerra). Sarebbe morto di lì a un mese.
Perché
noi italiani ci ritroviamo a leggere Adán Buenosayres con tanto
ritardo? Perché i cugini francesi hanno potuto leggere l'opera soltanto
quindici anni fa, nel 1995? Le ragioni fondamentali sono almeno due,
una politica e una linguistica. Quella politica è presto detta:
Marechal, nei vent'anni necessari per scrivere questo elefantiaco
romanzo, non s'era dedicato soltanto alle patrie lettere, concedendosi
al vizio assurdo della poesia e all'ozio gentile della drammaturgia: ma
soprattutto era stato, en passant, ministro della Cultura nel governo
Peròn. Caduto il leader argentino avrebbe avuto inizio un franco
ostracismo da parte del mondo culturale argentino. Marechal, con qualche
malinconia, s'era battezzato per questo "il poeta deposto". Sì, è
frustrante, e profondamente stancante, accorgersi che l'arte è stata
periodicamente confusa con le appartenenze partitiche, e spesso è
sembrata da esse derivare, o da esse dipendere, in via esclusiva, nel
Novecento. Le biografie di certi romanzieri sono tutte identiche,
cambiano soltanto i nomi dei regimi coi quali avevano collaborato, o nei
quali avevano creduto, continente dopo continente. Ma transeamus. Veniamo alla seconda ragione del ritardo. La ragione linguistica è meno prevedibile e decisamente più affascinante. Adán Buenosayres,
leggiamo nella nota dell'editore, «ha avuto una grande diffusione in
tutti i paesi di lingua spagnola, ma l'utilizzo frequente del dialetto
lunfardo e la complessità dell'argomento per anni sono stati considerati
veri e propri ostacoli alla traduzione dell'opera in altre lingue».
Cos'è questo "lunfardo"? Il nome significa, letteralmente, "lombardo",
in omaggio a uno dei primi gruppi di immigrati che cominciò a
servirsene, leggiamo in uno dei paratesti. È un argot castigliano,
composto di vocabili provenienti da diverse lingue e dialetti europei,
quechua e guaranì, molto diffuso a Buenos Aires e adottato nei testi del
tango: «Le sue origini furono quelle di un argot o slang di
prigionieri, usato nelle carceri per non farsi comprendere dalle
guardie, che ricorreva all'espediente - chiamato vesre, ossia l'inverso
di revés, rovescio - di invertire l'ordine delle sillabe di una
parola».
L'impresa
di mantenere questa clamorosa ricchezza linguistica e lessicale, e
tutta una serie di sottotesti e sfumature apparentemente intraducibili, è
stata affidata alla traduzione di Nicola Jacchia. L'edizione è stata
curata da Claudio Ongaro Haelterman. La leggibilità del testo non sembra
pregiudicata: soltanto, ecco, al lettore si richiede la curiosità e la
grande pazienza di affidarsi spesso alle note, per decifrare
correttamente determinati riferimenti culturali, oppure al lettore si
domanda di rifugiarsi una tantum nel glossario dei termini lunfardi, in
appendice. Magari il testo perde in più d'un frangente in immediatezza e
in freschezza, ma il premio è una maggiore comprensione del mondo
argentino. Così lontano, così vicino. Due parole sulla trama di questo
stravagante libro, capace d'essere epico, elegiaco e grottesco al
contempo. Adán Buenosayres è un viaggio simbolico e iniziatico
in una Buenos Aires surreale: il poeta protagonista incontra mezzo
mondo intellettuale (e non) argentino d'antan. Stenio Solinas, sul Giornale
ha scritto che l'impresa di Marechal «è il gigantesco tentativo di far
quadrare il cerchio di un'identità che fosse nazionale e insieme
popolare, che accogliesse il gauchismo di Güiraldes e l'europeismo dei
suoi avversari, senza restarne vittima, che desse spazio, insomma, al
nomadismo del primo e all'immigrazione del secondo, ma anche all'impasto
plurisecolare che l'indipendenza aveva cementato, al nuovo carattere
che aveva creato». È il grande romanzo di Buenos Aires, anche: questo è
il libro in cui torniamo a leggere il primo nome con cui venne
battezzata, nel 1536, e quando e come venne definitivamente fondata, nel
1580. Questo è il libro che ci permette di passeggiare nelle strade
che tanti nostri antenati hanno imparato ad amare, parlando in un
singolare esperanto. È un'opera d'arte che tracima sentimento. Va
interiorizzata con straordinaria lentezza, per questa ragione. Bisogna
decidere di dedicargli il giusto tempo. Ci porta nel "vecchio nuovo
mondo". Già, un mondo che non seppe sempre parlare di questo libro con
le parole di Borges, che a suo tempo confidava esplicitamente all'amico
Marechal: «Il tuo libro mi ha entusiasmato... sono ancora immerso
nell'atmosfera delle tue frasi lette e rilette. Che versi travolgenti,
che meravigliosa avventura per la letteratura argentina». Julio
Cortázar, invece, era stato il primo a scriverne con autentico
trasporto, nel '49. L'incipit dell'articolo è talmente chiaro che non
va tradotto: «La aparición de este libro me parece un acontecimiento
extraordinario en las letras argentinas». Mezzo secolo più tardi, i
letterati e i lettori argentini si sono accorti di quale patrimonio sia
questo libro, e di quanta ragione avessero i loro maestri d'antan. Non
è mai troppo tardi. Un'ultima annotazione, a margine: Marechal
racconta, nell'epigrafe, quali sono stati gli ingredienti della sua
creazione artistica. Spiega: «Quando ho scritto Adán non intendevo
uscire dall'ambito della poesia. Da subito, basandomi sulla Poetica di
Aristotele, ho pensato che tutti i generi letterari debbano essere
generi della poesia, sia l'epico che il drammatico o il lirico. Con
questa intenzione ho scritto il mio libro, e l'ho adattato alle norme
che Aristotele aveva dettato per il genere epico». Magari potrà venire
incontro a quanti, tra gli intellettuali italiani di nuova generazione,
vanno meditando sul senso e sull'opportunità di dare vita al
famigerato "new italian epic". Sarà sicuramente una robusta lezione
(iniezione) di stile.
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