25 dicembre 2013

DANTE ESOTERICO 3


Terza e ultima parte dello studio di Francesco Lamendola sugli aspetti esoterici dell'opera dantesca.

Francesco Lamendola

L’esoterismo di Dante




Fortemente guénoniana è invece l’impostazione di Franco Galletti nella sua monografia La Philosophia perennis nel pensiero di Dante (pubblicata nei numeri 2 e 3 di “Perennia Verba” del 1997), con frequenti richiami alla tradizione esoterica e particolarmente al filone greco-romano: illuminanti, in proposito, le considerazioni sul “veglio di Creta” del canto XIV dell’Inferno.

Ed eccoci arrivati ai nostri giorni e ai nostri luoghi. Lo scrittore trevigiano Gian Maria Ferretto ha pubblicato, su tali questioni, diversi volumi, tra cui Prima lettura analitica comparata nei sensi letterale, allegorico, anagogico e morale della Comedia di Dante Alighieri (4 voll., 1999); Treviso e Bologna nella vita segreta di Dante Alighieri (2001); In vita e in morte di Dante Alighieri (2001).

Sintetizzando al massimo le sue tesi, egli sostiene che Dante appartenne al filone cristiano-gnostico dei Fedeli d’Amore, mentre Guido Cavalcanti rappresentava il filone cataro più intransigente (donde la loro rottura finale); precisamente, la compresenza delle due “anime” all’interno della setta segreta è testimoniata da Dante nel simbolismo delle due torri di Bologna, Garisenda e Asinelli, nell’VIII componimento delle “Rime”. Come nella Roma antica, ove l’imperatore era sia “dux” che “sacerdos”, per Dante bisognava che l’imperatore riprendesse anche la suprema potestà sacerdotale, spettandogli ciò per diritto di sangue, in quanto discendente di Davide e di Gesù Cristo.

Tali convinzioni avrebbero portato Dante a una effettiva convergenza con le finalità segrete dei Templari, e in tale cornice va collocato l’incontro di Dante con la città di Treviso, avvenuto nel biennio 1304-06. Treviso, che per Ferretto era (dopo la devastazione della Provenza càtara e trobadorica) l’ultima “corte d’Amore” dell’intero Occidente, sotto il governo del “buon Gherardo” da Camino aveva realizzato, mediante la capillare presenza templare nel suo territorio, la felice riunificazione tra le due “anime” dei Fedeli d’Amore.

Questa riunificazione è simboleggiata dall’espressione “dove Sile e Cagnan s’accompagna” (Paradiso, IX, 49) che, a suo parere, non può essere una semplice indicazione geografica: fuori di Treviso stessa, ben pochi conoscono il fiume Sile, e assolutamente nessuno il modesto Cagnan (7 km. di corso), oltretutto meglio noto col nome di Botteniga. No: se Dante adopera quella espressione, lo fa per una ragione occulta: celebrare la ritrovata unità dei Fedeli d’Amore, le cui due correnti corrispondono ai due fiumi che si riuniscono in un unico corso. Dante medesimo, del resto, fu unto “Kadosch” di Fede Santa nell’antica chiesa di San Giovanni del Tempio (ora di San Gaetano), che sorgeva appunto a brevissima distanza dall’attuale ponte Dante, di fronte all’antica “porta del Sile, ove il Cagnan-Botteniga confluisce nel Sile.



Moltissime sono le congetture avanzate da Ferretto e supportate da indubbio acume speculativo; una delle più notevoli è quella che il “Detto d’Amore”, peraltro di discussa paternità dantesca, alluda a una giovanile esperienza mistica del poeta, tale da separare per sempre il suo itinerario speculativo da quello dell’amico-maestro Guido Cavalcanti. (In un’altra dubbia opera dantesca, il Fiore, XCII, si allude alla tragica morte del filosofo Sigieri di Brabante, altro personaggio “scomodo” e in odore di eresia, ricordato anche in Paradiso, X, 136 sgg.).

Molte altre cose ci sarebbero da dire, molti altri nomi da ricordare in questo rapido excursus attraverso la storia degli studi sull’esoterismo di Dante; ma dobbiamo avviarci a concludere. Un ultimo nome importante vogliamo fare, quello di Paolo Vinassa de Regny, geografo illustre, docente presso l’Università di Pavia e autore di opere scientifiche fondamentali per la cultura italiana, come la monografia La Terra, del 1933. Cultore di Dante a livello privato, nel 1955 diede alle stampe un testo originalissimo, Dante e il simbolismo pitagorico (ristampato nel 1988), frutto di lunghe e appassionate ricerche e tutto incentrato sul significato esoterico del numero all’interno della Divina Commedia.

Possiamo tentar di trarre una conclusione da quanto abbiamo sin qui esposto? Forse; e potrebbe essere questa. L’esegesi di Dante ha assunto, nella cultura italiana, il significato di un vero e proprio “paradigma”, nel senso che il filosofo Thomas Kuhn (1922-96) dà alla parola: soluzione esemplare di un problema, che viene appresa da chi entra nella comunità scientifica come elemento essenziale della sua formazione e come modello cui adattarsi incondizionatamente.

Ora, la “scienza normale” è contrassegnata dalla prevalenza di un certo paradigma, e in essa gli scienziati si applicano solo a ipotesi di lavoro che trovino i loro eventuali sbocchi all’interno del paradigma medesimo. A fasi ricorrenti, la scienza s’imbatte in anomalie che mettono in crisi il modello prevalente: gli scienziati, allora, cercano di ridimensionare il fenomeno anomalo, oppure di adattare il paradigma stesso mediante limitati aggiustamenti (vedi, nel caso del paradigma astronomico tolemaico, la teoria degli epicicli per armonizzarlo con i dati di fatto acquisiti mediante l’osservazione).

La scoperta di nuove anomalie obbliga la comunità scientifica a moltiplicare le varianti teoriche per salvare il vecchio paradigma: ma infine esso viene abbandonato da parti crescenti della comunità scientifica, che fondano un nuovo paradigma e che rifiutano ogni comunicazione con gli attardati sostenitori del “vecchio”. La storia della scienza procede, così, “a salti”, e in essa i nuovi paradigmi si pongono come incommensurabili rispetto ai precedenti, non solo sul piano dei contenuti concettuali, ma anche su quello del linguaggio, dei criteri di convalida, ecc.



Qualcosa di simile potrebbe ricondursi alla storia del “paradigma” dantesco: e non è un caso che molti sostenitori di un nuovo paradigma non siano studiosi di letteratura in senso stretto (così come Darwin, ad esempio, l’iniziatore del nuovo paradigma evoluzionistico, non era un biologo in senso stretto, nè possedeva una formazione scientifica approfondita: aveva studiato, invece, per diventare teologo). Abbiamo visto, infatti, che Perez era un uomo politico, Pascoli un poeta (un grande poeta), Valli un filosofo, Guénon un cultore di simbologia esoterica, Vinassa de Regny addirittura un geografo.

Gli studiosi che si muovono ai margini di un paradigma sono più facilmente disposti a metterlo totalmente in discussione, a differenza di coloro che vivono al suo interno e al suo interno trovano una collocazione sociale istituzionalizzata (che comporta una sicurezza economica oltre che psicologica). L’interpretazione di Dante, finora, è stata soprattutto nelle mani degli studiosi di letteratura (a dispetto del fatto che Dante sia stato prima un filosofo e poi un letterato), e questo spiega la lunghissima durata del paradigma “ufficiale”. A quando la rivoluzione del paradigma dantesco?

Una cosa è certa: il pensiero di Dante, come quello di altri grandi, una volta “istituzionalizzato” ha subito un progressivo processo di “normalizzazione”, mediante la rimozione di quegli aspetti che possono fare maggiormente scandalo o mettere in crisi nel profondo alcune nostre certezze, a cominciare da quella di averlo capito (si ricordi il prezioso ammonimento di Platone a coloro che ritenevano di essersi “impossessati” una volta per tutte del suo pensiero filosofico).

Dante, già in vita – non dimentichiamolo mai – fu un personaggio estremamente scomodo, quasi imbarazzante. E non certo solamente perché volle scrivere il suo capolavoro nella lingua italiana volgare, ma proprio al livello del suo pensiero politico e religioso. Si tentò d’implicarlo, tanto per dirne una, in un clamoroso caso giudiziario: un processo per magia nera che lo vedeva, si direbbe oggi, “persona informata sui fatti” a proposito del tentativo di assassinio del papa Giovanni XXII (il francese Jacques Duèse o D’Euse) da parte di Matteo e Galeazzo Visconti, nel 1319-20.

E non basta. Pochissimi anni dopo la morte del poeta, il cardinale francese Bertrando del Poggetto (nipote del papa) fece bruciare in una pubblica cerimonia il libro di Dante De Monarchia; e avrebbe volto far disseppellire la salma del suo autore per mandare anch’essa sul rogo. Ciò che sarebbe puntualmente avvenuto se a Bologna, ove si trovava il del Poggetto, non fossero prontamente accorsi il nuovo signore di Ravenna, Ostasio da Polenta (successo a Guido Novello, l’amico e protettore di Dante negli ultimi anni dell’esilio) ed il cavaliere fiorentino Guido della Tosa. Sicchè Dante, che aveva potuto evitare, da vivo, il rogo per miracolo (fortuna che non ebbero altri intellettuali suoi contemporanei, come Cecco d’Ascoli), per un capello non subì tale destino post mortem.



E a questo proposito vogliamo accennare a un’ipotesi del tutto personale: potrebbe essere stato, l’invito di Giovanni del Virgilio a Dante perché questi lasciasse la sicura Ravenna per recarsi a Bologna a ricevere “onori degni di lui” (cfr. Egloghe, I), verso la fine del 1319, la classica esca per farlo cadere in un tranello? Se così fu, il poeta dovette aver mangiato la foglia, vista la prudenza diplomatica con cui declinò l’offerta (vedi la II Egloga); l’episodio appare comunque sospetto, dal momento che Bologna rientrava nella sfera d’azione della Curia pontificia e che appunto nel 1319 Bertrando del Poggetto giunse in Italia da Avignone, inviato da Giovanni XXII per ricostruire la potenza dello Stato della Chiesa.

E Dante fu, “tecnicamente” oltre che, forse, ideologicamente, un eretico, se non altro perché rifiutava di riconoscere i deliberati del Concilio di Vienne del 1311, con il quale Clemente V aveva formalizzato l’abolizione (l’abolizione, si badi, non la condanna, che non vi fu mai, almeno in sede ecclesiastica) dell’ordine del Tempio. Inoltre Dante, con la teoria “dei due Soli” (Papato e Impero), ugualmente necessari al genere umano e autonomi l’uno dall’altro perché derivanti direttamente da Dio, aggrediva frontalmente il contenuto della bolla di Bonifacio VIII Unam Sanctam del 1302, che stabiliva dogmaticamente l’assoluta preminenza del Papato su ogni potestà terrena.

Giova infatti ricordare che il De Monarchia, condannato sotto Giovanni XXII, fu tolto dall’Index librorum prohibitorum solo nel 1881. Nel frattempo aveva rischiato di andare perduto, perché molte copie erano state sequestrate e date alle fiamme, mentre altre erano state trascritte anonime o dissimulate tra testi di genere diverso, così da divenire di fatto introvabili (conosciamo attualmente solo una ventina di codici). Tutto questo non ha impedito che si pubblicassero, anche in anni recenti, libri finalizzati a “dimostrare”, in tutto e per tutto, l’assoluta ortodossia di Dante e la sua incondizionata adesione all’insegnamento della Chiesa cattolica…

Che altro dire? Una buona definizione di cosa s’intende per “testo classico” è: un testo che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Che si presta a sempre nuove chiavi di lettura, sorprendenti ma non arbitrarie; che non cessa mai di stupirci, d’interrogarci, di metterci in discussione. E questo è proprio il caso di Dante, fiorentino di nascita ma non di costumi, come lui stesso volle definirsi: la voce culturale più alta del suo tempo, e della storia d’Italia tutta.


(Da: http://www.centrostudilaruna.it/)

1 commento:

  1. Vedi i precedenti pezzi che lo stesso autore ha dedicato al tema in questo stesso blog

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