Se la politica non dà emozioni
chi ci rimette è la democrazia
La filosofa americana, ieri a Bologna per la Lettura del Mulino, rilancia
il patriottismo “buono” di Lincoln, Martin Luther King, Gandhi e Mazzini
il patriottismo “buono” di Lincoln, Martin Luther King, Gandhi e Mazzini
Martha C. Nussbaum è nata a New York 66
anni fa. Studiosa di filosofia antica, diritto e etica, insegna Law and
Ethics all’Università di Chicago.
Intervista a cura di Massimiliano Panarari,pubblicata ieri da LA STAMPA
Riscoprire Mazzini. E, soprattutto, rilanciare il patriottismo,
quello «buono», che ha visto come interpreti e «profeti» personaggi del
calibro di Lincoln, Martin Luther King e il Mahatma Gandhi. È quanto
propone Martha C. Nussbaum, che ieri, nell’Aula Magna dell’Università di
Bologna (presenti tra gli altri Romano Prodi, il governatore della
Banca d’Italia Ignazio Visco e il ministro dell’Economia Fabrizio
Saccomanni), ha tenuto una «Lecture» sul tema «Perché le emozioni
contano in politica: il volto di Giano del patriottismo». Una volta
all’anno, infatti, buona parte dell’accademia e del mondo culturale del
nostro Paese si riunisce a Bologna per officiare al rito laico della
Lettura del Mulino (casa editrice, rivista e club intellettuale
esclusivo e sofisticato), che invita uno dei protagonisti della cultura
internazionale a tenere una conferenza aperta alla città.
L’intellettuale-star, questa volta, era la celebre filosofa politica
statunitense.
Professoressa Nussbaum, da tempo lei si occupa delle emozioni dal punto di vista cognitivo e politico. In quale senso lo è anche il patriottismo, tema della Lettura 2013 (e del suo ultimo libro Political Emotions. How Love Matters for Justice, in uscita tra qualche mese per i tipi del Mulino)?
«Il patriottismo rappresenta, giustappunto, una forte emozione avente per oggetto la nazione. Non si tratta di semplice approvazione o di una manifestazione di impegno, ma di un’autentica forma di amore, per la quale la nazione ci appartiene ed è nostra – come ribadiscono anche i suoi rituali, a partire dalle canzoni: si pensi all’americana My Country, ’Tis of Thee, alla Marsigliese o all’inno nazionale indiano Jana Gana Mana. Naturalmente, il patriottismo non è una cosa buona in sé e per sé, e può essere anzi pessima, ma costituisce una narrazione importante. E se le persone interessate a lottare per la giustizia, le libertà e contro la povertà rifuggono dai simboli e dalle emozioni, a prevalere saranno gli individui animati da finalità meno nobili, a scapito della democrazia».
Quale ruolo hanno avuto le emozioni nella duplice elezione di Barack Obama?
«All’inizio Obama ha suscitato nell’opinione pubblica americana forti emozioni di speranza e di rinnovamento delle politiche economiche e sociali. Io ne coltivavo di meno, conoscendolo direttamente (è stato mio collega presso la Law School dell’Università di Chicago), e sapendo quindi, a differenza di tanti miei concittadini, che ha un orientamento più centrista che progressista. Col tempo, le emozioni prevalenti nei confronti della sua presidenza stanno diventando di disappunto e disillusione; e le ragioni fondamentali sono, a mio giudizio, tre: l’inefficienza e l’inefficacia nell’implementazione della riforma sanitaria (l’Obamacare), la scadente qualità di alcune nomine giudiziarie (insieme alla scarsa convinzione con la quale ha sostenuto la battaglia politica per alcune altre che necessitavano dell’approvazione del Senato), e la sostanziale indifferenza con cui ha affrontato le politiche educative e dell’istruzione sin dall’individuazione del ministro (con esiti perfino peggiori di quelli dell’era Bush). L’elettorato liberal si rivela ora decisamente deluso».
È oggi possibile per un leader progressista, di fronte alla marea montante dei populismi, gestire in maniera consapevole le emozioni?
«Ritengo proprio di sì. D’altronde, basta pensare al fatto che, nel passato, ciò è avvenuto in situazioni persino peggiori della fase attuale. Franklin Delano Roosevelt ha preso le mosse da un contesto nel quale non esisteva di fatto alcun sistema di protezione sociale, nel pieno della Grande Depressione e mentre dominava l’emozione negativa della paura, ed è riuscito a dare vita al New Deal e a creare dal nulla un regime di welfare funzionante. Jawaharlal Nehru ha fondato lo Stato indiano partendo da zero e, analogamente, Nelson Mandela partiva da una condizione agli antipodi di qualunque democrazia liberale e sviluppata. E, dunque, io penso che, ancorché difficile, gestire in modo consapevole le emozioni sia sempre possibile. A proposito di populismo, poi, i Tea party sono ormai finiti, perché troppo estremi e caratterizzati da un’alleanza con i fondamentalisti religiosi altamente instabile, e così la loro mentalità primitiva, “da frontiera”, appare sempre più minoritaria».
Lei ha studiato a lungo anche le tematiche di genere: perché le donne faticano maggiormente ad affermarsi in politica?
«La ricerca in ambito psicologico dimostra che le differenze di genere in ambito politico rappresentano una questione culturale. Le persone trattano i figli in relazione alla loro percezione del genere, e questo ha degli effetti di lungo termine, che potrebbero, in verità, essere corretti mediante politiche di istruzione adeguate (fondate anche sull’espansione delle capacitazioni). Con l’eccezione dell’Italia e degli Usa, durante questi ultimi decenni si contano però vari casi di leader donne di rilievo (anche se dissento da alcune di loro sotto il profilo delle politiche): da Golda Meir a Indira Ghandi, da Margaret Thatcher fino ad Angela Merkel. E se Hillary Clinton si candiderà, molto, da questo punto di vista, potrebbe cambiare anche nel mio Paese».
Il pensiero antico ci aiuta ancora a capire la politica del presente?
«La corrente più utile al riguardo è quella degli stoici – e, in particolare, lo stoicismo romano – perché erano consapevoli dell’esigenza di gestire e sviluppare relazioni con altri Paesi, e avevano concepito la nozione dei doveri transnazionali di giustizia. Mentre Aristotele, che è utilissimo quale filosofo, non lo è più come pensatore politico, poiché non credeva nell’eguale dignità di tutte le persone e riteneva che le città dovessero dedicarsi in via praticamente esclusiva alle questioni interne, senza occuparsi di ciò che avveniva al di fuori delle proprie mura. Una visione che contrasta con il principio dell’incommensurabilità dell’idea di bene, la quale rende la politica un’attività complessa che non può (o meglio, non dovrebbe) gestire la vita pubblica e l’esistenza degli individui all’insegna di una sola scala valoriale».
Massimiliano Panarari, La Stampa 15 dicembre 2013
Twitter @MPanarari
Professoressa Nussbaum, da tempo lei si occupa delle emozioni dal punto di vista cognitivo e politico. In quale senso lo è anche il patriottismo, tema della Lettura 2013 (e del suo ultimo libro Political Emotions. How Love Matters for Justice, in uscita tra qualche mese per i tipi del Mulino)?
«Il patriottismo rappresenta, giustappunto, una forte emozione avente per oggetto la nazione. Non si tratta di semplice approvazione o di una manifestazione di impegno, ma di un’autentica forma di amore, per la quale la nazione ci appartiene ed è nostra – come ribadiscono anche i suoi rituali, a partire dalle canzoni: si pensi all’americana My Country, ’Tis of Thee, alla Marsigliese o all’inno nazionale indiano Jana Gana Mana. Naturalmente, il patriottismo non è una cosa buona in sé e per sé, e può essere anzi pessima, ma costituisce una narrazione importante. E se le persone interessate a lottare per la giustizia, le libertà e contro la povertà rifuggono dai simboli e dalle emozioni, a prevalere saranno gli individui animati da finalità meno nobili, a scapito della democrazia».
Quale ruolo hanno avuto le emozioni nella duplice elezione di Barack Obama?
«All’inizio Obama ha suscitato nell’opinione pubblica americana forti emozioni di speranza e di rinnovamento delle politiche economiche e sociali. Io ne coltivavo di meno, conoscendolo direttamente (è stato mio collega presso la Law School dell’Università di Chicago), e sapendo quindi, a differenza di tanti miei concittadini, che ha un orientamento più centrista che progressista. Col tempo, le emozioni prevalenti nei confronti della sua presidenza stanno diventando di disappunto e disillusione; e le ragioni fondamentali sono, a mio giudizio, tre: l’inefficienza e l’inefficacia nell’implementazione della riforma sanitaria (l’Obamacare), la scadente qualità di alcune nomine giudiziarie (insieme alla scarsa convinzione con la quale ha sostenuto la battaglia politica per alcune altre che necessitavano dell’approvazione del Senato), e la sostanziale indifferenza con cui ha affrontato le politiche educative e dell’istruzione sin dall’individuazione del ministro (con esiti perfino peggiori di quelli dell’era Bush). L’elettorato liberal si rivela ora decisamente deluso».
È oggi possibile per un leader progressista, di fronte alla marea montante dei populismi, gestire in maniera consapevole le emozioni?
«Ritengo proprio di sì. D’altronde, basta pensare al fatto che, nel passato, ciò è avvenuto in situazioni persino peggiori della fase attuale. Franklin Delano Roosevelt ha preso le mosse da un contesto nel quale non esisteva di fatto alcun sistema di protezione sociale, nel pieno della Grande Depressione e mentre dominava l’emozione negativa della paura, ed è riuscito a dare vita al New Deal e a creare dal nulla un regime di welfare funzionante. Jawaharlal Nehru ha fondato lo Stato indiano partendo da zero e, analogamente, Nelson Mandela partiva da una condizione agli antipodi di qualunque democrazia liberale e sviluppata. E, dunque, io penso che, ancorché difficile, gestire in modo consapevole le emozioni sia sempre possibile. A proposito di populismo, poi, i Tea party sono ormai finiti, perché troppo estremi e caratterizzati da un’alleanza con i fondamentalisti religiosi altamente instabile, e così la loro mentalità primitiva, “da frontiera”, appare sempre più minoritaria».
Lei ha studiato a lungo anche le tematiche di genere: perché le donne faticano maggiormente ad affermarsi in politica?
«La ricerca in ambito psicologico dimostra che le differenze di genere in ambito politico rappresentano una questione culturale. Le persone trattano i figli in relazione alla loro percezione del genere, e questo ha degli effetti di lungo termine, che potrebbero, in verità, essere corretti mediante politiche di istruzione adeguate (fondate anche sull’espansione delle capacitazioni). Con l’eccezione dell’Italia e degli Usa, durante questi ultimi decenni si contano però vari casi di leader donne di rilievo (anche se dissento da alcune di loro sotto il profilo delle politiche): da Golda Meir a Indira Ghandi, da Margaret Thatcher fino ad Angela Merkel. E se Hillary Clinton si candiderà, molto, da questo punto di vista, potrebbe cambiare anche nel mio Paese».
Il pensiero antico ci aiuta ancora a capire la politica del presente?
«La corrente più utile al riguardo è quella degli stoici – e, in particolare, lo stoicismo romano – perché erano consapevoli dell’esigenza di gestire e sviluppare relazioni con altri Paesi, e avevano concepito la nozione dei doveri transnazionali di giustizia. Mentre Aristotele, che è utilissimo quale filosofo, non lo è più come pensatore politico, poiché non credeva nell’eguale dignità di tutte le persone e riteneva che le città dovessero dedicarsi in via praticamente esclusiva alle questioni interne, senza occuparsi di ciò che avveniva al di fuori delle proprie mura. Una visione che contrasta con il principio dell’incommensurabilità dell’idea di bene, la quale rende la politica un’attività complessa che non può (o meglio, non dovrebbe) gestire la vita pubblica e l’esistenza degli individui all’insegna di una sola scala valoriale».
Massimiliano Panarari, La Stampa 15 dicembre 2013
Twitter @MPanarari
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