18 dicembre 2013

LA MAGIA DI KANDINSKY




Colore, linea, punto, superficie. Pochi elementi essenziali che suscitano un senso di armonia, una musica interiore. Questa la magia di Kandinsky.

Fabrizio D’Amico - Kandinsky che liberò il colore dalla realtà

Ogni incontro con l’opera di Vassily Kandinsky – come quello della mostra che apre oggi a Milano (al Palazzo Reale, a cura di Angela Lampe e Ada Masoero, fino al 27 aprile 2014) con un centinaio di opere in arrivo dal Centre Pompidou di Parigi – è denso di una sorta di rassicurante emozione; e appaga, come pochissimi altri incontri con la pittura moderna sanno fare, il nostro bisogno di possedere una certezza, il nostro desiderio d’assoluto. Ed è del tutto comprensibile e quasi ovvio che questo sentimento di pienezza discenda da uno degli uomini che all’arte visiva hanno donato per primi quella dimensione astratta, libera dal vincolo dell’imitazione, nella quale s’è per lo più riconosciuta, nel XX secolo, la possibilità di toccare – appunto – un termine assoluto.

È molto più singolare il fatto che a donarci quel sentimento d’appagamento, di confidenza, di fiducia sia stato l’artista che ha dubitato a lungo, e per tutta la sua stagione più alta, della verità di quel termine che aveva saputo raggiungere. Fu lo stesso Kandinsky, infatti, che, scovata per primo la gioia insita nella nuova libertà, avrebbe scritto (con intuizione se possibile ancora più profonda) che fra “grande astrazione” e“grande realismo” non poteva correre una gerarchia, ma solo, a orientare infine la scelta, doveva intervenire “il desiderio interiore dell’artista”.

Parole che ci vengono proprio da colui che aveva indirizzato infine il suo “desiderio” verso una totale indipendenza dal referente di natura: quando, dopo aver a lungo cercato la sua immagine in unterritorio di confine tra una forma interamente astratta e un’altra densa ancora di memorie figurali, aveva scelto infine per sé la definitiva «possibilità di non vedere negli oggetti soltanto la loro pura e dura materialità, ma anche ciò che è meno corporeo». I suoi spazi, da allora in poi – almeno per tutti gli anni Dieci, che sono i suoi maggiori – vorticanti, battuti da un vento che travolge ogni sintassi conosciuta, folgorati da un colore acceso, gioioso, imprudente (che fa adesso tesoro di Matisse assai più delle conquiste del primo espressionismo tedesco, da cui pure proveniva), sono un momento indimenticabile nella vicenda delle avanguardie d’inizio secolo: per quella capacità che egli ebbe di dar figura a quel groppo unito di sensi e di pensieri, di sogno e di urgenze esistenziali, che chiamò “lo spirituale dell’arte”, e che è il modo in cui tutte le ragioni della vita, e non solo le più nitidamente oggettivabili, si danno compresenti nell’immagine.








Arrivò con singolare ritardo a quel suo modo perfetto: nato nel 1866, era stato allievo e poi docente nella facoltà di Legge dell’università di Mosca prima d’essere folgorato, nel 1896, ad una mostra impressionista, da un quadro di  Covoni di Monet, in cui – dirà – gli sembrò di scorgere la scomparsa dell’oggetto raffigurato, annegato nella luce. È il primo incontro determinante con la pittura, e Kandinsky ha allora già trent’anni. Il decennio che segue è ancora un laboratorio, nel quale egli cerca anziché trovare: si trasferisce a Monaco, dove studia pittura con Franz von Stuck, espone nell’ambito di un’associazione da lui stesso fondata, incontra e si lega a Gabriele Münter, che gli sarà a lungo compagna e con la quale si reca infine a Parigi nel 1906, trattenendovisi un anno e conoscendovi tra gli altri Picasso e Matisse.

Sono questi il luogo e l’anno decisivi: a far gemelle le due strade di Monaco e Parigi sta allora un concetto, quello di “sintesi”, che, d’eredità simbolista, è il pensiero cruciale che traversa e assilla l’arte deltempo: “sintesi” che dalla Brücke(prima formazione espressionista tedesca), a Jawlensky (già compagno di Kandinsky) e Marc, a lui stesso, si identificherà di fatto con una “semplificazione” della realtà da riprodurre sulla tela. Ridurre la realtà «a una sensazione dell’essenza delle cose», secondo quanto scriverà nel 1911 Gabriele Münter, diviene allora il suo obiettivo; toglierle la sua scorza di casuali accidenti, i suoi orpelli di canonica bellezza, e renderla, insieme, più nuda e più ricca di verità profonde, che lo sguardo non riesce a riconoscere nel mondo delle cose, e cerca altrove.

Vive adesso fra Monaco e Murnau, una campagna dove Gabriele ha acquistato una casa, e lì dipinge piccoli quadri dove il paesaggio s’incanta di cento, accesi colori: «prati di azzurro stoviglia, giallo limone, rosa caramella; casette di zolfo con le finestre turchine; laghi blu di Prussia; montagne violette picchiettate di nero; cieli verdi e gialli come banane; boschi azzurri e staccionate arancioni», ha scritto su queste stesse pagine, tanti anni fa, Giuliano Briganti.

Improvvisazione III
















La mostra d’oggi a Milano muove di qui: da questa eccitazione felice che, se non era proprio accademia – dopo Gauguin, i Fauves e gli espressionisti della Brücke – non era certo avanguardia. Ma Kandinsky, che aveva allora compiuto i quarant’anni, incubava altro: e subito dopo fece il passo che sarebbe stato decisivo per sé e per la pittura occidentale. Oggi esposto, Improvvisazione III è un gran quadro del 1909 in cui tutto sembra arrestarsi per miracolo in un bilico slittante fra racconto, lontane memorie di favole russe e autonomia del colore, che è infine il vero demone dell’immagine. Poco dopo la composizione “dimentica” del tutto la realtà di natura, e si fa integralmente astratta: è il 1911, l’anno in cui Kandinsky fonda con Marc il “Cavaliere azzurro” («entrambi amavamo l’azzurro, Marc i cavalli, io i cavalieri. Così il nome venne da sé»), conosce Paul Klee, e ascolta a Monaco la musica di Schönberg, con il quale inizia un lungo e profittevole rapporto d’amicizia. Nel ’14 rientra in Russia, e prosegue la sua stagione ove domina lo “spirituale”, fintanto che nel ’17, sorprendentemente, torna ad affacciarsi per breve tempo una figuratività fauve.

Poi l’incontro con il costruttivismo, benché foriero di dissapori con i suoi protagonisti, orienta Kandinsky a una maggiore geometrizzazione delle sue forme, nelle quali dai primi anni Venti (quando è chiamato da Gropius ad insegnare al Bauhaus) predominano la linea diritta, il cerchio, il triangolo, con influenze talvolta marcate di Klee. Con il pittore svizzero i rapporti rimangono intensi, almeno fin quando Klee non lascia il Bauhaus, mentre Kandinsky vi rimane sino alla chiusura della scuola imposta dal nazismo nel ’33. Kandinsky si trasferisce allora Parigi, dove vive circondato da un solido prestigio ma di fatto sempre più isolato. Muore nel ’42, quando la guerra è ancora in corso. L’attende una fama universale.

La Repubblica – 17 dicembre 2013

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