Foto di Francesca Woodman
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Due donne, un destino di rivale reciprocità
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Recensione del libro di Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta per
e/o. La parabola di una crescita esistenziale sullo sfondo dei
cambiamenti che investono un rione, Napoli, e l’Italia tutta in oltre
mezzo secolo.
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A cura di Daniela Brogi
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Storia di chi fugge e di chi resta di Elena Ferrante (e/o, pp. 382, € 19, 50) è il terzo e non ultimo libro del ciclo L’amica geniale. Il primo volume, con il medesimo titolo, è stato pubblicato nel 2011, e il secondo, Storia del nuovo cognome,
nel 2012. Le opere che compongono questa provvisoria trilogia svolgono
un filo narrativo che si articola dal 2010 per tornare indietro e
svilupparsi attraverso memorie che ripartono dal secondo dopoguerra.
Nel primo
pannello si va dal 1950 al 1960, nel secondo si ricomincia dal 1966,
recuperando anche i tre anni precedenti e arrivando fino agli eventi
successivi di un paio d’anni; nel terzo si ripercorrono fatti accaduti
tra il 1968 e l’ottobre 1976. La scrittura reinventa il romanzo di un
legame tra due donne durato sessantanni: «Lila comparve nella mia vita
in prima elementare – si legge nell’Amica geniale – mi impressionò subito perché era molto cattiva». Si tratta di un’amicizia che viene voglia di definire molesta, per riprendere proprio la parola che ha fissato l’esordio di Ferrante (L’amore molesto, 1999; poi sono seguiti I giorni dell’abbandono, nel 2002, e La figlia oscura, nel 2006, mentre intanto sempre e/o aveva pubblicato, nel 2003, scritti, carteggi e interviste sull’esperienza di scrittura (La frantumaglia).
Dicevo amicizia molesta,
per intendere «scomoda», «tormentata», come le relazioni affettive che
rimettono in gioco le vulnerabilità legate al modello primo della
relazione d’amore, ovvero il rapporto con la madre (il tema più trattato
da Ferrante); dunque molesta anche nel senso di un legame
segnato da un amore e da un conflitto eterno, fatto di reciproche
ossessioni, di una ragnatela continua di tradimenti, abbandoni, nuove
illusioni. Al centro della storia e delle voci che danno vita al
racconto ci sono Elena, la narratrice, e Lina, nate e cresciute in un
quartiere popolare di Napoli: Elena è figlia di un usciere, Lina di uno
scarparo. Il primo volume, L’amica geniale racconta l’infanzia e l’adolescenza delle due protagoniste, riprendendo lo stile piano
e sorvegliato dell’indagine – tutto ha inizio dalla scomparsa di Lina, o
Lila, ormai sessantaseienne. È uno stile che talvolta ricorda i
passaggi di Mistero napoletano, di Ermanno Rea, ma presto
l’ordine di questa postura distante è rotto dai toni fiabeschi e dalle
situazioni esagerate delle rievocazioni orali: come accadeva in parte
nel Mare non bagna Napoli, di Ortese, siamo dentro il mondo
incantato di un’epopea di quartiere. Eppure non si tratta soltanto di un
orizzonte mitico al di fuori della storia, perché anzi già il primo
volume mette in primo piano, narrando in parallelo la vita delle due
ragazzine, il tema della conquista femminile del prestigio sociale e
simbolico: essere la prima in tutto, conquistare attenzione e
emancipazione sarà per le due protagoniste il dispositivo avventuroso
che conferisce eroismo, eccezionalità, ma anche spessore storico ai loro
destini.
Così da una
parte c’è Elena, che investe tutto sullo studio, identificandosi più che
può nel ruolo dell’allieva modello; dall’altra parte Lina, che invece
ha dovuto abbandonare la scuola, sebbene sia intelligentissima, e che
via via sarà aiutata proprio dalla sua vivacità, dal suo carisma, per
sopravvivere alle logiche machiste e camorristiche del quartiere, e per
capire velocemente di quali risorse disporre per avere potere: in cima a
tutto un buon matrimonio – perché Lina, al contrario di Elena che vuole
andarsene a ogni costo, ottiene riconoscimento e appartenenza proprio
nel mondo a cui si contrappone. Nel secondo libro dell’Amica geniale (Storia del nuovo cognome. Giovinezza)
questa controversa battaglia per l’affermazione matura attraverso la
crisi matrimoniale e la seduzione dell’uomo silenziosamente amato
dall’amica, nel caso di Lina; e per Elena superando la selezione per
l’accesso alla Scuola Normale di Pisa.
Il Tempo di mezzo, come indica il sottotitolo del terzo volume Storia di chi fugge e di chi resta,
è quello dell’età adulta, quello in cui Elena, finalmente lontana da
Napoli e da Lina, trova più spazio nel racconto, e così la linea
narrativa prevalente in questo terzo libro è la storia del salto di
classe compiuto da Elena, che si fidanza con
il figlio di un noto professore universitario, pubblica il suo primo
libro anche grazie alle conoscenze giuste di sua suocera, si sposa e ha
due figli da un marito tanto affettuoso quanto indisposto, in assoluta
buona fede, a riconoscerle un piano di confronto paritario; mentre
intanto Lina lavora in una fabbrica di salumi e partecipa alle lotte
sindacali. Il ciclo dell’Amica geniale ha l’ambizione, in buona
misura non velleitaria, di raccontare anche la storia di una
generazione, e assieme a essa di un sud sempre più smarginato, come dice
di sé stessa Lina, recluso in un sentimento di perdita continua. Poche
volte – in Ferito a morte, in La dismissione – si sono
incontrate narrazioni così capaci di raccontare Napoli come
città/labirinto, luogo da cui chi fugge si condanna a una condizione di
strappo e di esilio permanenti da una parte di sé rimasta altrove. Se
questo accade, molto è dovuto anche al sistema dei personaggi attorno a
cui è costruita la vicenda, e per spiegarci meglio forse si può
ragionare ancora sui significati evocati dal titolo, per la precisione
da quell’aggettivo così ambiguo. L’amica «geniale», infatti, è anzitutto
l’amica dall’intelligenza eccezionale, e già qui arriva la prima
ambivalenza, perché entrambe le protagoniste sono via via investite da
questa immagine di genialità, che appartiene a ciascuna di loro, dunque,
ma anche al riflesso di ciascuna di loro nell’altra, secondo una
relazione di sdoppiamento e li specularità.
In più,
l’espressione «geniale» a Napoli ha una pienezza semantica tutta sua:
rimanda subito anche al modo di dire «non tenere genio», per intendere:
non avere la voglia, l’istinto profondo. L’amica geniale, dentro questo
sistema semantico, diventa anche l’amica più affine, più prossima a
quello da cui siamo stati generati (genio deriva dal latino «gignere»:
creare). Le due amiche sono attaccate l’una all’altra da un destino di
reciprocità, anche in senso tecnico (la storia di Lina sta dentro il
racconto di Elena): sono o riferimento più a genio l’una
dell’altra anche nel senso dell’attitudine morbosa a superare i
rispettivi sensi di inadeguatezza, a trovare un varco dentro un mondo
maschile che le vuole subalterne, compiendo la mossa più paradossale ma
più comune, cioè stabilendo una competizione, una rivalità con chi è più
simile: l’altra, l’amica, l’amica geniale, per l’appunto.
Anche la
trama dei tre romanzi, tutta costruita su un movimento monologante che
alterna al presente effetti continui di recupero in flashback, attesta
questa condizione di conflittualità continua con un passato dentro la
scia del quale procedono i destini, senza soluzioni definitive, ma con
un senso perenne di solitudine delle menti femminili. Rispetto a tutto
questo, allora, definire il ciclo dell’Amica geniale, come è
stato fatto e si continuerà a fare, un esempio narrativo di «sentire
femminile» equivale pure, visto che non si contempla l’uso di «sentire
maschile», a sottrarre importanza, a faer torto a una
scrittura «molesta», che scava fuori dagli schemi lagnosi e sentimentali
– e pure per questo sarebbe più comodo recintare nella letteratura di
genere.
DA il manifesto – Alias della domenica 8 dicembre 2013
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