14 dicembre 2013

CHI FUGGE E CHI RESTA...



Foto di Francesca Woodman
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Due donne, un destino di rivale reciprocità
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Recensione del libro di Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta per e/o. La parabola di una crescita esistenziale sullo sfondo dei cambiamenti che investono un rione, Napoli, e l’Italia tutta in oltre mezzo secolo.
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A cura di Daniela Brogi
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Storia di chi fugge e di chi resta di Elena Ferrante (e/o, pp. 382, € 19, 50) è il terzo e non ultimo libro del ciclo L’amica geniale. Il primo volume, con il medesimo titolo, è stato pubblicato nel 2011, e il secondo, Storia del nuovo cognome, nel 2012. Le opere che compongono questa provvisoria trilogia svolgono un filo narrativo che si articola dal 2010 per tornare indietro e svilupparsi attraverso memorie che ripartono dal secondo dopoguerra.
Nel primo pannello si va dal 1950 al 1960, nel secondo si ricomincia dal 1966, recuperando anche i tre anni precedenti e arrivando fino agli eventi successivi di un paio d’anni; nel terzo si ripercorrono fatti accaduti tra il 1968 e l’ottobre 1976. La scrittura reinventa il romanzo di un legame tra due donne durato sessantanni: «Lila comparve nella mia vita in prima elementare – si legge nell’Amica geniale – mi impressionò subito perché era molto cattiva». Si tratta di un’amicizia che viene voglia di definire molesta, per riprendere proprio la parola che ha fissato l’esordio di Ferrante (L’amore molesto, 1999; poi sono seguiti I giorni dell’abbandono, nel 2002, e La figlia oscura, nel 2006, mentre intanto sempre e/o aveva pubblicato, nel 2003, scritti, carteggi e interviste sull’esperienza di scrittura (La frantumaglia).
Dicevo amicizia molesta, per intendere «scomoda», «tormentata», come le relazioni affettive che rimettono in gioco le vulnerabilità legate al modello primo della relazione d’amore, ovvero il rapporto con la madre (il tema più trattato da Ferrante); dunque molesta anche nel senso di un legame segnato da un amore e da un conflitto eterno, fatto di reciproche ossessioni, di una ragnatela continua di tradimenti, abbandoni, nuove illusioni. Al centro della storia e delle voci che danno vita al racconto ci sono Elena, la narratrice, e Lina, nate e cresciute in un quartiere popolare di Napoli: Elena è figlia di un usciere, Lina di uno scarparo. Il primo volume, L’amica geniale racconta l’infanzia e l’adolescenza delle due protagoniste, riprendendo lo stile piano e sorvegliato dell’indagine – tutto ha inizio dalla scomparsa di Lina, o Lila, ormai sessantaseienne. È uno stile che talvolta ricorda i passaggi di Mistero napoletano, di Ermanno Rea, ma presto l’ordine di questa postura distante è rotto dai toni fiabeschi e dalle situazioni esagerate delle rievocazioni orali: come accadeva in parte nel Mare non bagna Napoli, di Ortese, siamo dentro il mondo incantato di un’epopea di quartiere. Eppure non si tratta soltanto di un orizzonte mitico al di fuori della storia, perché anzi già il primo volume mette in primo piano, narrando in parallelo la vita delle due ragazzine, il tema della conquista femminile del prestigio sociale e simbolico: essere la prima in tutto, conquistare attenzione e emancipazione sarà per le due protagoniste il dispositivo avventuroso che conferisce eroismo, eccezionalità, ma anche spessore storico ai loro destini.
Così da una parte c’è Elena, che investe tutto sullo studio, identificandosi più che può nel ruolo dell’allieva modello; dall’altra parte Lina, che invece ha dovuto abbandonare la scuola, sebbene sia intelligentissima, e che via via sarà aiutata proprio dalla sua vivacità, dal suo carisma, per sopravvivere alle logiche machiste e camorristiche del quartiere, e per capire velocemente di quali risorse disporre per avere potere: in cima a tutto un buon matrimonio – perché Lina, al contrario di Elena che vuole andarsene a ogni costo, ottiene riconoscimento e appartenenza proprio nel mondo a cui si contrappone. Nel secondo libro dell’Amica geniale (Storia del nuovo cognome. Giovinezza) questa controversa battaglia per l’affermazione matura attraverso la crisi matrimoniale e la seduzione dell’uomo silenziosamente amato dall’amica, nel caso di Lina; e per Elena superando la selezione per l’accesso alla Scuola Normale di Pisa.
Il Tempo di mezzo, come indica il sottotitolo del terzo volume Storia di chi fugge e di chi resta, è quello dell’età adulta, quello in cui Elena, finalmente lontana da Napoli e da Lina, trova più spazio nel racconto, e così la linea narrativa prevalente in questo terzo libro è la storia del salto di classe compiuto da Elena, che si fidanza con il figlio di un noto professore universitario, pubblica il suo primo libro anche grazie alle conoscenze giuste di sua suocera, si sposa e ha due figli da un marito tanto affettuoso quanto indisposto, in assoluta buona fede, a riconoscerle un piano di confronto paritario; mentre intanto Lina lavora in una fabbrica di salumi e partecipa alle lotte sindacali. Il ciclo dell’Amica geniale ha l’ambizione, in buona misura non velleitaria, di raccontare anche la storia di una generazione, e assieme a essa di un sud sempre più smarginato, come dice di sé stessa Lina, recluso in un sentimento di perdita continua. Poche volte – in Ferito a morte, in La dismissione – si sono incontrate narrazioni così capaci di raccontare Napoli come città/labirinto, luogo da cui chi fugge si condanna a una condizione di strappo e di esilio permanenti da una parte di sé rimasta altrove. Se questo accade, molto è dovuto anche al sistema dei personaggi attorno a cui è costruita la vicenda, e per spiegarci meglio forse si può ragionare ancora sui significati evocati dal titolo, per la  precisione da quell’aggettivo così ambiguo. L’amica «geniale», infatti, è anzitutto l’amica dall’intelligenza eccezionale, e già qui arriva la prima ambivalenza, perché entrambe le protagoniste sono via via investite da questa immagine di genialità, che appartiene a ciascuna di loro, dunque, ma anche al riflesso di ciascuna di loro nell’altra, secondo una relazione di sdoppiamento e li specularità.
In più, l’espressione «geniale» a Napoli ha una pienezza semantica tutta sua: rimanda subito anche al modo di dire «non tenere genio», per intendere: non avere la voglia, l’istinto profondo. L’amica geniale, dentro questo sistema semantico, diventa anche l’amica più affine, più prossima a quello da cui siamo stati generati (genio deriva dal latino «gignere»: creare). Le due amiche sono attaccate l’una all’altra da un destino di reciprocità, anche in senso tecnico (la storia di Lina sta dentro il racconto di Elena): sono o riferimento più a genio l’una dell’altra anche nel senso dell’attitudine morbosa a superare i rispettivi sensi di inadeguatezza, a trovare un varco dentro un mondo maschile che le vuole subalterne, compiendo la mossa più paradossale ma più comune, cioè stabilendo una competizione, una rivalità con chi è più simile: l’altra, l’amica, l’amica geniale, per l’appunto.
Anche la trama dei tre romanzi, tutta costruita su un movimento monologante che alterna al presente effetti continui di recupero in flashback, attesta questa condizione di conflittualità continua con un passato dentro la scia del quale procedono i destini, senza soluzioni definitive, ma con un senso perenne di solitudine delle menti femminili. Rispetto a tutto questo, allora, definire il ciclo dell’Amica geniale, come è stato fatto e si continuerà a fare, un esempio narrativo di «sentire femminile» equivale pure, visto che non si contempla l’uso di «sentire maschile», a sottrarre importanza, a faer torto a una scrittura «molesta», che scava fuori dagli schemi lagnosi e sentimentali – e pure per questo sarebbe più comodo recintare nella letteratura di genere.

DA il manifesto – Alias della domenica 8 dicembre 2013
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