Riprendo dal sito http://www.minimaetmoralia.it/ il testo di un intervento inedito che Lea Melandri ha tenuto a un incontro sul tema “La memoria del corpo nella scrittura di esperienza” nel 2006.
LEA MELANDRI - LA MEMORIA DEL CORPO
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso.
Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. È quello che Franco Rella chiama l’“impresentabile della vita” (F.Rella, Dall’esilio, Feltrinelli 2004), e che potremmo anche chiamare le “viscere della storia”, di cui si vedono oggi i riflessi deformati, banalizzati, nell’industria dello spettacolo, nella pubblicità, nel populismo, nel razzismo, ma su cui sembra difficile produrre cultura e cambiamenti. La scrittura che tenta di portare alla luce il “mare ribollente delle cose non dette” non è, come qualcuno potrebbe pensare, un “genere”, nonostante l’evidente parentela con la diaristica, le lettere, l’autobiografia. Non prevede tecniche né codici particolari. Nel medesimo tempo, si può dire che attraversa tutti i “generi”, producendo dislocazioni, modificazioni del linguaggio, nuove costellazioni di senso.
Anche gli effetti sono vari e molteplici: non solo estetici, né solo conoscitivi, ma anche formativi e in senso lato terapeutici. Inoltre, restituire alla storia, alla cultura, alla politica, passioni e accadimenti considerati ad esse estranei – l’”altro”, l’impolitico, l’astorico, ecc.- può essere un modo per entrare in una relazione inedita con la società in cui viviamo, indurre senso di responsabilità e desiderio di cambiamento. La ricaduta è perciò doppia: sulla storia personale e sulle relazioni sociali. In modo particolare, interessa la scuola, in quanto luogo dove l’organizzazione precoce dell’individuo può essere coattivamente “ripetuta”, o, nel migliore dei casi, “ripresa” per aprirsi a nuove soluzioni. Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio. Sono rimasti, rispetto alla scuola, ai suoi saperi, alle sue norme, il “fuori tema”.
“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente…Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione…Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia” .
(Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993)
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo- insieme alla famiglia-, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità. Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva -esibizionismo e voyeurismo- che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza -cura e conoscenza di sé-, così come è importante la dimensione collettiva. Lo sguardo dell’altro vede là dove noi siamo ciechi, può contraddirci, mostrare la nostra complicità con modelli interiorizzati a nostra insaputa.
Un passaggio importante, per evitare l’impaccio dell’“essere guardati”, può essere quello di spingere lo sguardo sulle scritture di altri, scomporle, spiare nelle crepe, vedere il non-visto: decontestualizzare, frammentare, sezionare, e lasciarsi poi, a propria volta, interrogare da questi frammenti. C’è in questo modo di procedere, contrario a ogni corretta regola scolastica, qualcosa che richiama la “mineralogia del pensiero”, di cui parla Alberto Asor Rosa nel suo libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986).
“Avverto in giro il bisogno di piantare una trivella in questo universo verbale sottostante, che, come un’immensa galassia sconosciuta, ci trasporta verso un mondo altrettanto incognito, anche soltanto per cavarne frammenti di parole, spezzoni di significato, cristalli di idee- tutto un pulviscolo di immagini e di sensazioni, una vera e propria mineralogia del pensiero, per cui non sembriamo avere, per ora, né classificazioni né definizioni… Invece di cercatori d’ora o di petrolio, cercatori di parole: parole antiche dimenticate, parole nuove non mai dette. Questo è il semplice assoluto della fine del secondo millennio.”
Gli “antecedenti” di quella che appare, prima ancora che una scrittura, una disposizione del pensiero, appartengono per un verso alla mia storia personale, e per l’altro, alla storia dei movimenti degli anni ’70: il movimento antiautoritario nella scuola, la rivista “L’erba voglio” (1971-1977), e il femminismo. Dal corso di studi liceali e dall’università sono uscita con la consapevolezza che gran parte della mia vita – legata all’origine contadina, alle inquietudini di adolescente scampata al destino dei suoi parenti e al ruolo tradizionale femminile – fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, o “fuori tema”, come venivano a volte giudicati i miei scritti, ritenuti, per altro invece formalmente lodevoli. L’incontro, a Milano, dopo la fuga dalla provincia e proprio quando mi accingevo ad assumere il “ruolo” di insegnante, con la “pratica non autoritaria” e col movimento delle donne, è stata una specie di rivoluzione copernicana: corpo, sessualità, relazioni parentali, vita affettiva, considerati materia “intima”, privata, e come tale estranea ai saperi, ai linguaggi colti, così come alle grandi questioni della politica, acquistavano un’inedita cittadinanza e legittimità. Il “fuori tema” diventava il tema.
L’esperienza più “impresentabile” , dissepolta e restituita alla parola, allo sguardo di una collettività attenta, veniva a occupare un posto di primo piano in quella “narrazione di sé” che è stata l’ “autocoscienza”, pratica politica anomala, originale, del femminismo: un “fare e disfare”, una rilettura della storia personale fatta di andirivieni, sogno e lucidità di analisi, sostenuta o contraddetta dall’attenzione di altre donne, un guardare e essere guardate nei risvolti più profondi, spesso inconsapevoli, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa” (Sibilla Aleramo).
Era un narrarsi particolarissimo, affidato prima alla parola e solo in un secondo tempo, quando ci si rese conto dei mascheramenti che essa opera, dei non-detti che contiene, alla scrittura. La parola scritta appariva come un terreno più solido: un reperto di memoria ibrido, come le stratificazioni rocciose, innesto di elementi diversi, scomponibili; una costruzione che si può guardare alle spalle, negli anfratti, che vela e lascia filtrare allo stesso tempo. La scrittura consente in effetti una grande varietà di movimenti: si può entrarvi e uscirne, aderirvi fino al ricalco o, al contrario, scostarsi e produrre un solco che ce ne separi. Si lascia manipolare, sezionare, ridurre a frammenti esilissimi, senza che si debba temere di vederla sparire, diventare solo respiro. È capace di accogliere la solitudine del singolo, il chiuso di una stanza, ma anche la relazione con gli altri e col mondo, il narrare e il riflettere.
Il gruppo “sessualità e scrittura” nasce nel 1977 con l’intenzione di dare un seguito alle intuizioni del femminismo, in particolare per quanto riguarda il radicamento inconscio del pensiero nell’esperienza corporea, nello psichismo profondo, nelle configurazioni immaginarie che lo sostengono al di là di ogni apparente razionalità. L’idea di riflettere sulla scrittura è mosso dall’insoddisfazione di ciò che fino ad allora si era prodotto: documenti falsamente collettivi e racconti di storie personali eccessivamente interpretativi. Discutibile appare soprattutto l’anonimato, che in realtà copriva il protagonismo di poche, quelle che già sapevano scrivere. Si voleva uscire dal mito del collettivo, dal silenzio sulla differenza tra quelle che scrivono diari e quelle che scrivono libri di successo, dall’idea della scrittura come strumento. Dall’intento iniziale di occuparsi soprattutto degli scritti pubblici, si passò quasi inavvertitamente a un’analisi delle “scritture del cassetto”, viste da alcune come una “pratica solitaria per costruirsi una cultura in un luogo protetto, fuori da uno sguardo giudicante”.
Ma si dovette riconoscere subito che dominante era “la componente autobiografica, emotiva, introspettiva -controllare meglio la propria storia, la propria crescita, la propria identità”- che poteva diventare autoanalisi, verifica e rafforzamento di un’analisi di sé, se svolta prevalentemente non in solitudine ma con altre. Diventava importante recuperare l’emotività, l’affettività, la sessualità come valore oltre che come coscienza, riconoscerle come parte di meccanismi che stanno alla base del nostro giudizio e non come peccato femminile che ne impedisce la lucidità a l’autonomia.
“…sconvolgere, nella scrittura delle donne, i modi di pensare e di esprimersi acquisiti senza che si avesse la libertà di scegliere, rintracciare l’origine e il farsi della parola scritta dentro la storia del corpo, imparare a leggere impietosamente, dentro i nostri scritti, la scrittura dell’inconscio, i molteplici segnali della violenza subita (A zig zag, numero unico, Milano 1978).
All’inizio degli anni ’80, il campo di osservazione si allarga e si approfondisce, in coincidenza con una lunga analisi. Vengo colta con mia sorpresa da una scrittura per me insolita, fatta di frasi brevi, frammenti segnati da un sottofondo emotivo, legato a vicende della vita personale. Sono dello stesso periodo, forse non a caso, la scoperta di Sibilla Aleramo (di quella che io chiamerei una singolare autoanalisi più che l’autobiografia di “una donna”), le rubriche di posta del cuore e di scritture del privato sul settimanale Ragazza In (1981-1983) e su Noi donne (1990-1993). Un rilievo particolare assumono anche le scritture che nascono all’interno dei corsi delle donne, emanazione dei “corsi 150 ore”, in cui già insegnavo dal 1976. È il momento in cui mi si fa più evidente la parentela tra scritture considerate di scarto -lettere, diari, note sparse- e scritture colte, tra il sentimentalismo attribuito alle donne e uno dei miti più duraturi del pensiero maschile: l’ideale androgino, la “mente creativa” di cui parla Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé.
L’Aleramo definisce la sua opera “un furore di autocreazione incessante”, “una somma enorme di vita”. L’esperienza messa la centro è il “sogno d’amore”, l’eterna illusione di “fare di due uno”: fondere due esseri diversi in un unico essere armonioso. Alla scrittura viene chiesto di mettere in scena l’andirivieni di “estasi” e “gelo”, ma anche il “lucido sguardo” che lo analizza e che costruisce via via la “mesta libertà” della donna che ha trovato “il fastidioso obbligo di vivere per sé”. Si tratta, nel caso dell’Aleramo, di una scrittura autoanalitica, di un percorso di svelamento, riguardante sia la vita che la scrittura stessa. Nel primo caso si decanta il sogno fusionale, l’unità a due degli amanti, nel secondo l’immagine androgina (“armonia degli opposti”) che sta dietro alla poesia e a ogni creazione artistica. Quando si accorge di non riuscire più a “poetare”, Sibilla scrive:
“Questa mia sotterranea, seconda vita…Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti…è questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sé, ma lui è uomo e non ne muore…” (Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979).
A raccogliere questo “flusso irrefrenabile di vita”, che resiste a lasciarsi “consumare” dalla “mente incandescente” della poesia, sarà il Diario, un genere noto, ma a cui Sibilla darà un’impronta del tutto originale facendone il luogo della rilettura e dello svelamento, la narrazione e l’analisi di sé attraverso cui si compie l’originale cammino di una coscienza femminile anticipatrice.
Mi sembra importante dire che tutte queste scritture –dall’Aleramo a Michelstaedter, Nietszche, Freud, che compaiono nel mio libro Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002)- non sono state trattate come materiale di studio. Le ho accostate con un procedimento che chiamerei di riscrittura: pedinare il testo, ricalcarlo, lasciarsi sedurre dalle parole dell’altro, fondersi o confondersi con esso, e poi scostarsi quel tanto che permette di poterlo mostrare, decantare, scoprirne il senso nascosto, il non-detto. Di nuovo sogno e lucidità, in un avvolgimento difficile da districare, un’autoanalisi fatta attraverso degli alter-ego, voci, volti, metafore che ci portiamo dentro, in quel paesaggio primordiale che è la “memoria del corpo”, sempre pronto a sprofondare nel mistero e nell’indicibile.
L’abitudine a scavare dentro i testi, a scomporli in frammenti, a ricalcarne le orme fino a perdersi, per poi aprire un solco e rileggere sé e l’altro con un’autonomia prima sconosciuta, è la lezione più originale e duratura del femminismo e delle sue “pratiche”: autocoscienza e pratica dell’inconscio.
La consapevolezza dei molti volti con cui la donna è stata identificata, non poteva che esprimersi come attraversamento di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi”, un processo lento, come la tela di Penelope, per districarsi da una foresta di simboli, maschere, amate e odiate, divenute, malgrado tutto, via obbligata di sopravvivenza. Con un movimento opposto a quello dell’autobiografia, preoccupata di comporre la frammentarietà in un tutto omogeneo, la rilettura/riscrittura cerca nella dispersione del senso la strada per avvicinarsi a una percezione più reale di sé.
“Dentro di me sento aprirsi sconnessure e temo perdermi in brandelli prima d’aver capito la nuova trama del mio essere eppure in fondo in fondo un senso di libertà un’eccitazione di essere pronta sul limite di un continente che finalmente potrò esplorare senza paura e se paura avrò sarò pronta a non mentirmi ad affrontare anche la verità di quel femminile misterioso oscuro come una caverna buia da cui non sai se tornerai…” (Agnese Seranis, Io, la strada e la luce di luna, Edizioni del Leone, Spinea, Venezia 1988).
Il femminismo degli anni ’70, la pratica collettiva del “narrarsi”, è come se avessero frantumato lo specchio in cui qualcuna aveva sperato di vedersi a tutto tondo. Per la costruzione di un sé più autonomo da modelli interiorizzati era necessario lo sguardo di altre donne, la disponibilità a interrogare la trama profonda del proprio essere, a riconoscere i molti volti e voci che ci abitano.
Il corpo oggi
Parlando di corpo, sessualità, sentimenti, vita intima, e di scritture mirate a cogliere l’esperienza nei suoi risvolti meno dicibili, viene immediato il confronto col presente. Quella che in passato poteva apparire come “sotterranea, seconda vita”, “preistoria” sepolta nelle viscere della civiltà o lasciata a margine della vita pubblica, negli interni delle case, dei rapporti famigliari, oggi è decisamente in scena, in sovraesposizione. Ma il corpo divenuto protagonista nei media è, a guardar bene, un corpo sempre più ridotto a se stesso: sparisce il corpo vissuto, il corpo pensato, animato, resta una massa corporea malleabile, scomponibile, ridotta alle sue componenti materiali prime, cellule, geni, embrioni. Il corpo sparisce proprio nel momento della sua massima ostentazione.
L’altro volto di questo mascherato occultamento è l’ideale di una soggettività “nomade”, “liberata”, capace di molteplici “metamorfosi”. Anche in questo caso siamo messi di fronte alla “inafferrabilità” dell’esperienza corporea e, più in generale, delle vicissitudini che hanno il corpo come parte in causa. Un luogo di resistenza a questi processi di decorporeizzazione può essere la scrittura, se abbandona le sue pretese di “rigenerazione”, di nascita sublime, di armonioso ricongiungimento nella potenza del “verbo”. Oggi è l’esperienza di noi stessi che ci viene rapinata dai media, dalla pubblicità, dai sogni incarnati nelle merci.
Ma si può “scrivere “ il corpo, le sue passioni, le sue ombre, le sue ferite, il suo lato impresentabile, l’orrore e il piacere che lo attraversano? L’avvicinamento a un’ “area di frontiera”, ancora in parte inesplorata comincia nel momento in cui prendiamo coscienza di quanto la storia, i linguaggi, i saperi correnti, siano incapaci di attingere a un sentire più autentico. Le parole ci sembrano sempre più usurate, mute nei loro risvolti interni. È come se fosse necessario “forare” incrostazioni di superficie, mettere in atto quella che Asor Rosa chiama una “mineralogia del pensiero”, costruire canali sotterranei, riallacciare percorsi nascosti, “imparare un’altra lingua”.
Questa è, per certi aspetti, la finalità di un “laboratorio di scrittura di esperienza”: imparare la lingua ibrida del mondo interno, sfatarlo dei suoi miti, scoraggiarne il silenzio, riconoscere i “tesori di cultura” che nasconde, dare un nome alle “cose che non siamo stati ancora capaci di nominare”.
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