Miniatura del canto XII del Purgatorio nella Divina Commedia.
Iniziamo con la prima parte di questo saggio di Francesco Lamendola ad affrontare il tema assai dibattuto e controverso dei contenuti esoterici dell'opera di Dante.
Francesco Lamendola
L’esoterismo di Dante
La parola italiana “esoterico”, in greco esoterikós, viene da esóteros che significa “interiore, intimo” e deriva da éso = dentro. Vale dunque per “interno, riservato, segreto”. La parola italiana “essoterico”, attraverso il latino exotericu(m), proviene dal greco exoterikós, da éxo = di fuori, esterno. Indica pertanto ciò che è esterno, palese, pubblico.
Esoterico era l’insegnamento impartito ai discepoli di alcune scuole filosofiche (segnatamente, il Pitagorismo): si trattava di un sapere intimo e segreto, che per tale sua natura non doveva essere reso pubblico. La tradizione, o la leggenda, vuole che un seguace della scuola pitagorica venisse ucciso per aver divulgato la scoperta dei numeri irrazionali, che sembrava incrinare il quadro di una matematica divinamente armoniosa, pervadente l’intero Universo. Questo, comunque, può dare un’idea del carattere cogente di segretezza che caratterizzava i saperi esoterici. Ancor più segreti, se possibile, erano i riti esoterici negli antichi Misteri, che erano quelli riservati ai soli iniziati. Il fatto che Gesù Cristo non ha, personalmente, messo per iscritto la propria dottrina ha favorito la nascita di un Cristianesimo esoterico, ossia degli iniziati, il quale ha storicamente assunto una posizione critica nei confronti dell’interpretazione canonica delle Sacre Scritture (e contestato l’esclusione dei Vangeli apocrifi).
Tornando alla filosofia, si dice quindi “essoterica” una dottrina che può essere conosciuta anche dai profani; particolarmente, di quel settore dell’insegnamento, nelle antiche scuole filosofiche, a cui era ammesso un pubblico più largo. Essoterici erano detti i discepoli non iniziati, ammessi all’insegnamento essoterico. Per capire questo fenomeno, occorre rifarsi al diverso rapporto esistente in Occidente, nell’antichità (e in Oriente anche in seguito), fra il corpus di determinate dottrine e i suoi eventuali destinatari. A noi, figli dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni democratico-borghesi, e quindi portati a una visione “democratica” e anti-aristocratica del fenomeno culturale, la cosa a tutta prima può risultare malagevole.
La filosofia antica, come ha esemplarmente chiarito Aristotele nell’Etica Nicomachea, non mirava a una semplice “saggezza” (phrónesis), relativa alle cose mutevoli e contingenti, ma a una suprema “sapienza” (sophía), contemplazione delle cose eterne e, quindi, capace di rendere quasi divini coloro che la raggiungevano. Di conseguenza, non tutti possono accedere ai livelli superiori del sapere, perché non tutti potrebbero comprenderli a fondo e quindi farne un buon uso. Non da egoistico esclusivismo ma da autentica preoccupazione pedagogica e sociale deriva allora l’opportunità di trasmettere solo a discepoli scelti, e con estrema prudenza, il sapere ultimo del maestro. Da ciò la diffidenza nei confronti della parola scritta, del libro, che appunto non distingue fra coloro che hanno i requisiti per accedere alle verità superiori, e coloro che non li possiedono.
Il maestro, pertanto, per dirla con Omero (Iliade, II, 361), non deve “buttare le proprie parole”; esse devono cadere solo entro orecchi di persone capaci di assumersi le proprie responsabilità che il vero comporta. Platone, ad esempio, nella VII lettera (generalmente considerata autentica), così si esprime: “Ogni uomo serio deve con grande cura evitare di dare mai in pasto le cose serie, scrivendo su di esse, all’invidia e all’incapacità di capire degli uomini”. E ancora: “Questo ho da dire su tutti quelli che hanno scritto o scriveranno, quanti sostengono di conoscere l’oggetto delle mie indagini, sia per averlo ascoltato da me sia da altri, sia per averlo scoperto da se stessi: non è possibile, a mio parere, che costoro abbiano capito niente dell’argomento.
Certamente non esiste un mio scritto sul tema né mai esisterà. Infatti non può essere enunciato in nessun modo come gli altri insegnamenti; ma in seguito a una lunga frequentazione del suo oggetto, e dal conviverci, all’improvviso, come una luce che si accende da una scintilla di fuoco, compare nell’anima e si nutre ormai da se stesso. E so almeno che queste cose, se fossero scritte o dette da me, lo sarebbero nel modo migliore; e se fossero scritte male, ne soffrirei moltissimo. Se poi avessi ritenuto che fossero da scrivere in modo sufficiente per la massa e fossero comunicabili, quale compito più nobile avrei potuto affrontare nella vita, dello scrivere una cosa che è di grande utilità per gli uomini e del portare in piena luce per tutti quanti la natura? Ma non penso che il metter mano, come si dice, a questi argomenti sia un bene per gli uomini, se non per un numero limitato di persone capaci di arrivarci da se stesse attraverso una minima indicazione…”.
Trasmissione orale, quindi, e segreta del sapere da maestro a discepolo. Nel Medioevo l’esoterismo modifica solo di poco tale concezione: il sapere esoterico può anche essere scritto, ma solo mediante una sorta di codice che faccia da filtro rispetto ai lettori: i veri destinatari riusciranno a decodificare il testo “con l’aiuto di una minima indicazione”, come voleva Platone; tutti gli altri crederanno di aver capito e invece non capiranno – e ciò sarà un bene per loro e per la società intera. E’ questo il caso della magia, dell’alchimia, dell’astrologia, e non solo per quanto riguarda la comunicazione scritta, ma anche quella delle arti figurative: ad esempio, le sculture delle cattedrali gotiche. (A proposito, Fulcanelli nelle sue celebri opere Le dimore filosofali e Il mistero delle cattedrali sostiene che “arte gotica” non deriva affatto, come pure si ripete ancor oggi, dall’antico popolo dei Goti – e perché, poi, nella Francia del XII sec.? -, bensì da argot, linguaggio segreto riservato ai soli iniziati).
William Blake - Purgatorio, Canto XXX, 60-146 |
Ed eccoci al punto. Nella XIII epistola, indirizzata a Cangrande della Scala, Dante Alighieri afferma che, a proposito della Divina Commedia “è da sapersi che il senso di quest’opera non è unico, anzi può dirsi polisema, cioè di più sensi (“dici potest polisemas, hoc est plurium sensuum”). Infatti il primo senso è quello che si ha dalla lettera, l’altro è quello che si ha dal significato attraverso la lettera (“nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram”). E il primo si dice letterale, il secondo allegorico o morale o anagogico (“et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus”). E si può esaminare questo modo di esporre, affinchè appaia meglio, in questi versi: <All’uscita d’Israele dall’Egitto, della casa di Giacobbe di fra un popolo barbaro, la Giudea diventò il suo santuario, Israele il suo dominio>.
Infatti se guardiamo alla sola lettera, ci è significata l’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; se all’allegoria, ci è significata la nostra redenzione operata per mezzo del Cristo; se al senso morale, ci è significata la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se a quello anagogico, ci è significata l’uscita dell’anima santa dal servaggio di questa corruzione alla libertà della gloria eterna. E benchè questi sensi mistici si appellino con vari nomi, si possono generalmente dir tutti allegorici, in quanto sono diversi da quello letterale o storico. Infatti si dice allegoria, dal greco “alleon”, che in latino si dice “alienum” o “diversum”. Visto ciò, è chiaro che occorre che duplice sia il soggetto, intorno al quale s’alternino i due sensi. E perciò si deve vedere riguardo al soggetto di quest’opera, secondo che si prende alla lettera; quindi, secondo che s’interpreta allegoricamente. Il soggetto di tutta l’opera dunque, presa solo letteralmente, è lo stato delle anime dopo la morte inteso genericamente; infatti su di esso e intorno a esso si svolge il procedimento di tutta l’opera. Se poi l’opera si prende allegoricamente, il soggetto è l’uomo, secondo che meritando o demeritando per la libertà d’arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo”.
E la stessa struttura polisensa è ravvisabile nelle opere minori di Dante, a cominciare da quella Vita nova che è tutta un succedersi di visioni, presagi, sogni e rivelazioni., dunque interamente pervasa di spirito allegorico. Già i primi commentatori ne ebbero l’intuizione e cominciarono col chiedersi chi sia Beatrice, questa figura misteriosa che attraversa luminosamente tutta l’opera e riappare poi nella Commedia, per trionfare nei canti finali del Purgatorio e quindi nel Paradiso, là dove Dante dice di lei “cosa che mai non fu detta d’alcuna”. Donna reale o creatura simbolica? A partire dal Boccaccio si è andata consolidando l’interpretazione “realistica” di Beatrice, identificata nella figlia di Folco Portinari, che oggi persiste presso il vasto pubblico e nell’ambiente scolastico. Francesco Buti, nel suo commento alla “Commedia” del 1380, non solo nega che Beatrice sia la Portinari, ma che sia donna reale; e Pietro di Dante non fa il nome della Portinari nella prima redazione del suo commento, che è del 1340, ma solo nella terza, evidentemente riecheggiando il Boccaccio.
(continua)
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