16 dicembre 2013

RINASCIMENTO EBRAICO



Attraverso Martin Buber abbiamo conosciuto il mondo dei Chassidim e una visione gioiosa del fatto religioso con la musica, la danza (e il vino) che diventano elementi portanti del rito. Un ebraismo vivo e operante nel mondo che la Shoah non è riuscita a cancellare.

Roberta Ascarelli

Buber: nell'ebraismo il riscatto dell'uomo


Nel gen­naio del 1901 si stampa a Ber­lino il primo fasci­colo di una rivi­sta dalle grandi ambi­zioni: si chiama «Ost und West» ed è espres­sione di quell’ebraismo cul­tu­rale che aveva chia­mato a rac­colta i rab­do­manti della spi­ri­tua­lità, pro­met­tendo ai cor­re­li­gio­nari di lin­gua tede­sca un vibrante senso di appar­te­nenza e un rin­no­va­mento epo­cale degli spi­riti. Rifiu­tate assi­mi­la­zione ed amne­sie, respinto il prag­ma­ti­smo poli­tico di Herzl «che non aveva capito nulla della mate­ria emo­tiva ebraica» – scrive Mar­tin Buber nel sag­gio dedi­cato al fon­da­tore del sio­ni­smo moderno nel 1904 – i cura­tori invi­tano a ritro­vare a Oriente, nello spec­chio dell’Ostjudentum, il senso di una vita ebraica ricca di tra­di­zioni, di arte e di speranze.

Il pre­am­bolo è sug­ge­stivo: «Dal gro­vi­glio di ten­denze estra­nee che, nel secolo appena tra­scorso, hanno invaso l’ebraismo si sta­glia con sem­pre mag­giore evi­denza un ele­mento troppo a lungo tra­scu­rato, la sfu­ma­tura cul­tu­rale spe­ci­fi­ca­mente ebraica riven­di­cando il suo diritto allo svi­luppo. L’antica vita ebraica, che è stata a lungo disprez­zata e avvi­lita, si alza, si avvolge nelle vesti del nuovo tempo e sale con passo sicuro i gra­dini che por­tano al trono».

A Mar­tin Buber, viene asse­gnato il com­pito di defi­nire la costel­la­zione teo­rica e gli obiet­tivi di «Ost und West». Scrive allora Jue­di­sche Renais­sance, «Rina­sci­mento ebraico», un sag­gio che evoca la Rina­scenza ita­liana, dopo l’«oscurità» del Medioevo, e cele­bra lo svi­luppo armo­nioso «dell’uomo intero», insieme all’amore per la cul­tura e al «senso delle cose a venire». La sug­ge­stione, che giunge a Buber da Burc­khardt e da alcune pagine del nor­dico Lang­behn, è ricca di cal­chi nie­tzscheani e devota a quella reli­gione della vita che pro­mette di resti­tuire allo spi­rito ciò che il posi­ti­vi­smo aveva ridotto a ope­ra­zione con­ta­bile e mercantile.

Con pas­sione annun­cia la «reden­zione inte­riore» dell’ebraismo, desti­nato a rina­scere nell’arte e nella bel­lezza. «Spaz­zerà via dall’anima del nostro popolo – scrive – la pol­vere e le ragna­tele del ghetto inte­riore e per­met­terà all’ebreo di guar­dare nel cuore della natura, gli inse­gnerà a … misu­rare la sua indi­vi­dua­lità su quella di tutti gli esseri». La palin­ge­nesi cul­tu­rale, morale e reli­giosa si inne­sta sulla liqui­da­zione senza appello dell’ebraismo dia­spo­rico, una realtà sta­tica e malata, «non pro­dut­tiva, non euro­pea, disu­mana» – afferma nel 1902 – al quale oppone una imma­gine vaga quanto idea­liz­za­bile dell’ebraismo costruita con il voca­bo­la­rio dell’irrazionalismo del tempo.



Pro­fe­tico ed evo­ca­tivo quel sag­gio ha debiti sor­pren­denti, non solo con Nie­tzsche, incon­tra­stato mae­stro, ma anche con la sub­cul­tura social­de­mo­cra­tica dell’età gugliel­mina: si tro­vano nelle pie­ghe del testo tracce del dibat­tito tra Bern­stein e Kau­tsky sull’importanza dell’«elemento idea­li­stico» nelle rivo­lu­zioni, echeg­gia l’appello di Eduard David alla «costru­zione spi­ri­tuale della gio­vane gene­ra­zione»; tor­nano, e alla let­tera, gli inviti dei revi­sio­ni­sti allo «spie­ga­mento della spi­ri­tua­lità ope­raia», l’impegno a vivere una «vita intera» lì dove c’era una «vita a metà», men­tre si rifran­gono spe­ranze mes­sia­ni­che e idea­liz­za­zioni comu­ni­ta­rie. Filo­so­fia della vita, neo­ro­man­ti­ci­smo tardo-ottocentesco, prime sug­ge­stioni nie­tzscheane, forse lo Zeit­geist intrec­ciano i lin­guaggi eppure non è scon­tato l’avvicinamento tra pro­le­tari ed ebrei, né l’idea che anche costoro deb­bano soprat­tutto spez­zare le loro catene e can­cel­lare secoli di sto­ria da paria inse­guendo «silen­ziosi riti solari».

Herzl, l’avversario su cui Buber eser­cita una cri­tica sup­po­nente, era riu­scito a non essere né paria né par­venu: snob, osses­sivo e visio­na­rio in un mondo di epi­goni alla ricerca di forme ambi­gue, ritar­date e san­gui­no­lente di rige­ne­ra­zione, aveva cer­cato di tra­sfi­gu­rare ghetto, fru­stra­zione, mise­ria per tes­sere la nar­ra­zione di un mondo per­fetto di cui gli ebrei, con la loro sto­ria, la loro sof­fe­renza e le molte abi­lità nutrite dall’esilio, sareb­bero dovuti essere le avan​guar​die​.Su que­sti temi si con­su­merà la rot­tura al V Con­gresso del 1901 tra sio­ni­smo cul­tu­rale e sio­ni­smo poli­tico – tra chi pen­sava che fosse suf­fi­ciente pos­se­dere una terra di sicu­rezza e di benes­sere per cor­re­li­gio­nari per­se­gui­tati e chi rite­neva invece che il ritorno in Pale­stina rap­pre­sen­tasse solo un End­ziel, l’atto con­clu­sivo di un pro­cesso cul­tu­rale e iden­ti­ta­rio che riu­scisse a sdo­ga­nare come nazione, quello che era stato fino ad allora un popolo.

Negli anni, Buber influen­zato da Ahad ha-‘Am, pseu­do­nimo di Asher Zvì Gin­sberg, pre­cisa la genesi di que­sta Jue­di­sche Renais­sance, la inse­gue nel Chas­si­di­smo con i suoi sen­ti­menti e nella Haska­lah con la sua ragione, la indi­vi­dua nell’arte ebraica con­tem­po­ra­nea e nelle espres­sioni – spesso sfug­genti – della Volks­seele, l’anima popo­lare che non va asso­lu­ta­mente cer­cata nelle isti­tu­zioni uffi­ciali e in una giu­ri­sdi­zione arida e sof­fo­cante. Buber fa così dell’idea rina­sci­men­tale un’arma effi­cace con­tro il dispo­ti­smo rab­bi­nico, l’oppressione disu­ma­niz­zante dell’utile e, inol­tre, un argo­mento vin­cente nelle pole­mi­che con­tro i molti che nega­vano ai ’con­cit­ta­dini di fede mosaica’ anche solo la pos­si­bi­lità di essere dei creativi.

Il com­pito del giorno rimane però il pro­getto dell’umanesimo sio­ni­sta e la sua rea­liz­za­zione in Pale­stina: «Quello che intendo per uma­ne­simo è che la gio­ventù di Pale­stina venga con­dotta all’assimilazione nazio­na­li­stica dal sacro egoi­smo alla cha­lu­ziut nazio­nale: che venga edu­cata allo sto­rico com­pito umano del giu­dai­smo come uma­nità inconcussa».



Il titolo di que­sto arti­colo (e di que­sto pro­getto) Jue­di­sche Renais­sance dà il nome alla rac­colta di testi su ebrai­smo e sio­ni­smo scritti da Buber tra il 1899 e il 1923: Rina­sci­mento ebraico (Mon­da­dori, pp. 470, euro 22,00) per la cura (e la tra­du­zione) sapiente e affa­sci­nante di Andreina Lava­getto. I saggi (in parte ine­diti in Ita­lia) accom­pa­gnano il let­tore in un per­corso ben cali­brato che, ricco di eventi e rife­ri­menti, occupa quasi cin­que lustri della lunga vita del filo­sofo austriaco. Vanno dalla rela­zione di Buber al III con­gresso sio­ni­sta, con le sue voca­zioni mino­ri­ta­rie, all’esperienza di «Der Jude», influente rivi­sta dell’ebraismo tede­sco. Attra­ver­sano l’incontro con gli ebrei pra­ghesi del Bar Kochba tra il 1909 e il 1911 che, dopo la sco­perta del Chas­si­di­smo, rap­pre­senta il punto più alto della teo­resi ebraica di Buber; guar­dano alla Grande guerra, sognata e poi rifiu­tata; e giun­gono fino al 1923, anno in cui, con­clusa l’esperienza reda­zio­nale e pub­bli­cato Io e tu, Buber ini­zia a con­si­de­rare i pro­blemi poli­tici nella pro­spet­tiva ben più arti­co­lata della filo­so­fia del dialogo.

Molti in que­ste pagine i ripen­sa­menti, le pre­ci­sa­zioni le sug­ge­stioni e le que­stioni con­tin­genti, ma costante l’obiettivo: raf­for­zare la con­sa­pe­vo­lezza della spe­ci­fi­cità spi­ri­tuale e cul­tu­rale ebraica per­ché sia pos­si­bile il riscatto e per­ché l’ebraismo possa contribuire alla rina­scita dell’umanità tutta. In un discorso dell’immediato dopo­guerra Sion e la gio­ventù indica tre obiet­tivi alle nuove gene­ra­zioni: «Il primo ele­mento è la sal­vezza di una nazio­na­lità … Il secondo, più alto, è la rico­stru­zione di una società cor­rotta, la rea­liz­za­zione di prin­cipi più equi di vita comune. Il terzo, il più alto di tutti, è l’annuncio all’umanità di una vera sal­vezza, quando il rap­porto con l’assoluto è tor­nato a incar­narsi nell’essere mor­tale». Il suo sio­ni­smo, un «risve­glio che porta alla libertà», rifiuta la poli­tica, il potere del denaro e della diplo­ma­zia; non vuole con­qui­ste, né impo­si­zioni, rifiuta la fol­lia della guerra ma evoca entu­sia­smi, comu­nità, spi­ri­tua­lità per­ché – scrive – Sion non sor­gerà nel mondo, se non la pre­pa­rate nell’anima.

(Il manifesto -1 dicembre 2013)

Martin Buber
Rinascimento ebraico
Mondadori, 2013
22 euro

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