Attraverso Martin Buber
abbiamo conosciuto il mondo dei Chassidim e una visione gioiosa del
fatto religioso con la musica, la danza (e il vino) che diventano
elementi portanti del rito. Un ebraismo vivo e operante nel mondo che
la Shoah non è riuscita a cancellare.
Roberta Ascarelli
Buber: nell'ebraismo
il riscatto dell'uomo
Nel gennaio del
1901 si stampa a Berlino il primo fascicolo di una
rivista dalle grandi ambizioni: si chiama «Ost und West»
ed è espressione di quell’ebraismo culturale
che aveva chiamato a raccolta i rabdomanti
della spiritualità, promettendo ai
correligionari di lingua tedesca un
vibrante senso di appartenenza e un rinnovamento
epocale degli spiriti. Rifiutate assimilazione
ed amnesie, respinto il pragmatismo politico
di Herzl «che non aveva capito nulla della materia emotiva
ebraica» – scrive Martin Buber nel saggio dedicato
al fondatore del sionismo moderno nel 1904 –
i curatori invitano a ritrovare a Oriente,
nello specchio dell’Ostjudentum, il senso di una vita ebraica
ricca di tradizioni, di arte e di speranze.
Il preambolo
è suggestivo: «Dal groviglio di tendenze
estranee che, nel secolo appena trascorso, hanno invaso
l’ebraismo si staglia con sempre maggiore evidenza
un elemento troppo a lungo trascurato, la
sfumatura culturale specificamente
ebraica rivendicando il suo diritto allo sviluppo.
L’antica vita ebraica, che è stata a lungo disprezzata
e avvilita, si alza, si avvolge nelle vesti del nuovo
tempo e sale con passo sicuro i gradini che portano
al trono».
A Martin Buber,
viene assegnato il compito di definire la
costellazione teorica e gli obiettivi di
«Ost und West». Scrive allora Juedische Renaissance,
«Rinascimento ebraico», un saggio che evoca la
Rinascenza italiana, dopo l’«oscurità» del Medioevo,
e celebra lo sviluppo armonioso «dell’uomo
intero», insieme all’amore per la cultura e al «senso
delle cose a venire». La suggestione, che giunge
a Buber da Burckhardt e da alcune pagine del nordico
Langbehn, è ricca di calchi nietzscheani
e devota a quella religione della vita che promette
di restituire allo spirito ciò che il positivismo
aveva ridotto a operazione contabile
e mercantile.
Con passione
annuncia la «redenzione interiore» dell’ebraismo,
destinato a rinascere nell’arte e nella
bellezza. «Spazzerà via dall’anima del nostro popolo –
scrive – la polvere e le ragnatele del ghetto
interiore e permetterà all’ebreo di guardare
nel cuore della natura, gli insegnerà a … misurare la
sua individualità su quella di tutti gli esseri».
La palingenesi culturale, morale e religiosa
si innesta sulla liquidazione senza appello
dell’ebraismo diasporico, una realtà statica
e malata, «non produttiva, non europea,
disumana» – afferma nel 1902 – al quale oppone una
immagine vaga quanto idealizzabile dell’ebraismo
costruita con il vocabolario dell’irrazionalismo
del tempo.
Profetico ed
evocativo quel saggio ha debiti sorprendenti,
non solo con Nietzsche, incontrastato maestro,
ma anche con la subcultura socialdemocratica
dell’età guglielmina: si trovano nelle pieghe del
testo tracce del dibattito tra Bernstein e Kautsky
sull’importanza dell’«elemento idealistico» nelle
rivoluzioni, echeggia l’appello di Eduard David
alla «costruzione spirituale della giovane
generazione»; tornano, e alla lettera, gli
inviti dei revisionisti allo «spiegamento
della spiritualità operaia», l’impegno
a vivere una «vita intera» lì dove c’era una «vita
a metà», mentre si rifrangono speranze
messianiche e idealizzazioni
comunitarie. Filosofia della vita,
neoromanticismo tardo-ottocentesco, prime
suggestioni nietzscheane, forse lo Zeitgeist
intrecciano i linguaggi eppure non è scontato
l’avvicinamento tra proletari ed ebrei, né l’idea che
anche costoro debbano soprattutto spezzare le loro
catene e cancellare secoli di storia da paria
inseguendo «silenziosi riti solari».
Herzl, l’avversario su
cui Buber esercita una critica supponente, era
riuscito a non essere né paria né parvenu: snob,
ossessivo e visionario in un mondo di epigoni
alla ricerca di forme ambigue, ritardate
e sanguinolente di rigenerazione,
aveva cercato di trasfigurare ghetto,
frustrazione, miseria per tessere la
narrazione di un mondo perfetto di cui gli ebrei, con
la loro storia, la loro sofferenza e le molte
abilità nutrite dall’esilio, sarebbero dovuti essere le
avanguardie.Su questi temi si consumerà la
rottura al V Congresso del 1901 tra sionismo
culturale e sionismo politico – tra
chi pensava che fosse sufficiente possedere
una terra di sicurezza e di benessere per
correligionari perseguitati e chi
riteneva invece che il ritorno in Palestina
rappresentasse solo un Endziel, l’atto
conclusivo di un processo culturale
e identitario che riuscisse a sdoganare
come nazione, quello che era stato fino ad allora un popolo.
Negli anni, Buber
influenzato da Ahad ha-‘Am, pseudonimo di Asher Zvì
Ginsberg, precisa la genesi di questa Juedische
Renaissance, la insegue nel Chassidismo con
i suoi sentimenti e nella Haskalah con la
sua ragione, la individua nell’arte ebraica
contemporanea e nelle espressioni –
spesso sfuggenti – della Volksseele, l’anima popolare
che non va assolutamente cercata nelle
istituzioni ufficiali e in una giurisdizione
arida e soffocante. Buber fa così dell’idea
rinascimentale un’arma efficace contro il
dispotismo rabbinico, l’oppressione
disumanizzante dell’utile e, inoltre, un
argomento vincente nelle polemiche contro
i molti che negavano ai ’concittadini di
fede mosaica’ anche solo la possibilità di essere
dei creativi.
Il compito del
giorno rimane però il progetto dell’umanesimo sionista
e la sua realizzazione in Palestina:
«Quello che intendo per umanesimo è che la
gioventù di Palestina venga condotta
all’assimilazione nazionalistica dal sacro egoismo
alla chaluziut nazionale: che venga educata allo
storico compito umano del giudaismo come
umanità inconcussa».
Il titolo di questo
articolo (e di questo progetto) Juedische
Renaissance dà il nome alla raccolta di testi su
ebraismo e sionismo scritti da Buber tra il 1899
e il 1923: Rinascimento ebraico (Mondadori,
pp. 470, euro 22,00) per la cura (e la traduzione)
sapiente e affascinante di Andreina Lavagetto.
I saggi (in parte inediti in Italia) accompagnano
il lettore in un percorso ben calibrato che, ricco di
eventi e riferimenti, occupa quasi cinque lustri
della lunga vita del filosofo austriaco. Vanno dalla relazione
di Buber al III congresso sionista, con le sue
vocazioni minoritarie, all’esperienza di «Der
Jude», influente rivista dell’ebraismo tedesco.
Attraversano l’incontro con gli ebrei praghesi del
Bar Kochba tra il 1909 e il 1911 che, dopo la scoperta del
Chassidismo, rappresenta il punto più alto
della teoresi ebraica di Buber; guardano alla Grande
guerra, sognata e poi rifiutata; e giungono fino
al 1923, anno in cui, conclusa l’esperienza redazionale
e pubblicato Io e tu, Buber inizia
a considerare i problemi politici
nella prospettiva ben più articolata della
filosofia del dialogo.
Molti in queste
pagine i ripensamenti, le precisazioni
le suggestioni e le questioni contingenti,
ma costante l’obiettivo: rafforzare la
consapevolezza della specificità
spirituale e culturale ebraica perché
sia possibile il riscatto e perché l’ebraismo
possa contribuire alla rinascita dell’umanità tutta. In un
discorso dell’immediato dopoguerra Sion e la gioventù
indica tre obiettivi alle nuove generazioni: «Il
primo elemento è la salvezza di una nazionalità
… Il secondo, più alto, è la ricostruzione di una
società corrotta, la realizzazione di principi
più equi di vita comune. Il terzo, il più alto di tutti,
è l’annuncio all’umanità di una vera salvezza,
quando il rapporto con l’assoluto è tornato
a incarnarsi nell’essere mortale». Il suo
sionismo, un «risveglio che porta alla libertà»,
rifiuta la politica, il potere del denaro e della
diplomazia; non vuole conquiste, né
imposizioni, rifiuta la follia della guerra ma evoca
entusiasmi, comunità, spiritualità
perché – scrive – Sion non sorgerà nel mondo, se non
la preparate nell’anima.
(Il manifesto -1
dicembre 2013)
Martin Buber
Rinascimento ebraico
Mondadori, 2013
22 euro
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