Niccolò Scaffai - Zanzotto dietro il paesaggio
19 dicembre 2013 it
L’origine e l’essenza del moderno
pensiero ecologico risiedono in uno straniamento. Solo quando mettiamo
in discussione il punto di vista antropocentrico e percepiamo la
relatività della nostra posizione rispetto all’ambiente e agli altri
esseri che vi abitano, possiamo davvero capire i luoghi nella loro
alterità, vederli al di là delle proiezioni utilitaristiche e
ingenuamente localistiche dietro i quali li nascondiamo. Ed è proprio in
questo senso, per la capacità cioè di esprimere una comprensione
profonda dei luoghi attraverso un doppio movimento di partenza e
ritorno, che gli scritti di Andrea Zanzotto sul paesaggio possono dirsi
‘ecologici’. Lo spiega in modo efficace Matteo Giancotti nella bella e
intelligente introduzione alla raccolta di quegli scritti, da poco
uscita per sua cura: Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Milano,
Bompiani, pp. 240, euro 11,00. Zanzotto – osserva il curatore –
suggerisce «che per capire i luoghi non abbiamo bisogno di radicarci, ma
di eradicarci da essi, addentrandoci così profondamente in loro da
riuscire a “bucarli” per arrivare altrove, rivedendoli nuovi, forse
soltanto allora “nostri”».
Il rinnovamento dello sguardo sul
paesaggio è un tema che attraversa i diciotto scritti ora riuniti: un
insieme consistente, di cui la maggior parte dei lettori conosceva solo
un paio di esempi (le prose Venezia, forse e Colli Euganei, apparsi a suo tempo nel «Meridiano» Mondadori), qui ricompresi nella seconda parte del volume, Mio ambiente natale. Un titolo, come quelli delle altre quattro sezioni (Una certa idea di paesaggio, Un’evidenza fantascientifica, Quasi una parte integrante del paesaggio e Tra viaggio e fantasia),
ricavato dalle frasi dell’autore, ma scelto da Giancotti, cui si devono
l’ideazione e l’organizzazione non cronologica della raccolta.
Raccolta peraltro molto coesa,
nonostante la distanza degli estremi temporali (lo scritto più antico
risale alla metà degli anni Cinquanta, i più recenti agli anni Duemila),
e percorsa da ricorrenze tematiche e letterali; in qualche caso,
infatti, Zanzotto ha trasferito brani di testo da uno scritto all’altro:
ripetizioni che il curatore ha scelto giustamente di mantenere, non
solo per salvaguardare l’integrità dei saggi d’autore, ma anche per
mettere in risalto la costanza della riflessione che li sostiene.
Proprio quella costanza, unita
all’estensione dell’arco cronologico, permette di cogliere le sfumature e
lo sviluppo cui Zanzotto sottopone nel tempo la propria idea di
paesaggio. In uno scritto del 1967 (Ragioni di una fedeltà), ad
esempio, il poeta riflette sul «collocarsi» dell’uomo rispetto al
paesaggio in cui s’insedia: «Il paesaggio viene dunque ad animarsi e a
meglio splendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto
della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto”
antropocentrismo ha fatto risaltare». È un punto di vista che Zanzotto
stesso, con una parola e un concetto usati qui (Il paesaggio come eros della terra, 2006) e nelle IX Egloghe,
definisce ‘biologale’: il paesaggio, la natura contribuiscono a formare
le creature che l’abitano, ricevendone in cambio un arricchimento
spirituale che va oltre il piano biologico. Quest’idea ancora armoniosa e
quasi teleologica del rapporto tra uomo e natura, caratterizzato da un
«giusto antropocentrismo» capace di far emergere «l’espressività della
figura di un territorio», era già presente anche in un testo di pochi
anni prima (1962), Architettura e urbanistica informali, nel
quale s’intuisce ancora meglio l’origine culturale (letteraria e più
ancora pittorica) dell’utopia di Zanzotto. Ma è un’utopia destinata a
erodersi nei decenni successivi, frustrata dall’‘ingiustizia’
dell’antropocentrismo contemporaneo. Se i movimenti nello spazio sono
anche «spostamenti nella storia» (La memoria nella lingua),
Zanzotto non può fare a meno di rilevare come proprio la storia, nel
secondo Novecento, si sia mossa travolgendo la geografia ‘umanistica’
del territorio italiano. «C’è stato un tempo – scrive Zanzotto nel 2006,
in Sarà (stata) natura?, una sorta di palinodia al sé stesso
di quarant’anni prima – in cui ho creduto che la cultura nascesse e si
sviluppasse come manifestazione spontanea di un dialogo in atto tra
l’uomo e la natura, quasi di un rapporto di mutua e amorosa comprensione
tra una madre e il proprio feto […]. A conti fatti, posso dire di
essermi parzialmente illuso. Non si è trattato di due realtà in
accrescimento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale di
prevaricazione; tantomeno si può parlare di un vero e proprio “dialogo”
[…], ma di una monologante e allucinata sequela di insulti.»
Questa constatazione storica non si
risolve nella semplice idiosincrasia per il presente; è piuttosto la
premessa a un auspicio: che la poesia possa «costituire il “luogo” di un
insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un
“tempo” proiettato verso il “futuro semplice” […] della speranza». La
riflessione di Zanzotto sulla natura è paragonabile, per costanza e
intensità, a quella di Leopardi (e come quella appare ed è per certi
versi antimoderna). Ma direi che il poeta novecentesco inverte i termini
del confronto: se la promessa di resistenza è per entrambi basata sul
valore e la dignità dell’uomo, il fine di Zanzotto è una difesa della natura, non dalla natura
come per l’ultimo Leopardi. E se Leopardi ha sempre immaginato la
natura come polo, di segno variabile, all’interno di un’opposizione,
Zanzotto tende a una conciliazione tra gli elementi del binomio.
A connotare però gli scritti di Zanzotto
sono soprattutto due aspetti. Da un lato il legame stretto con
l’esperienza di uno specifico paesaggio, quello veneto e prealpino che
fa da sfondo anche a molte sue poesie (qui per esempio, in Verso il montuoso nord, si trovano le coordinate geografiche della situazione evocata in Vocativo dai versi di I compagni corsi avanti). Dall’altro, la mediazione attraverso la storia, la letteratura e, come dicevo, l’arte e la pittura.
Tra gli scritti in cui la relazione tra natura e arte è più sostanziale vi è certamente Un paese nella visione di Cima,
pubblicato nel ’62 in occasione di una mostra trevigiana su Cima da
Conegliano e strettamente legato – come osserva Giancotti – alla quinta
delle IX Egloghe. Nei dipinti di Cima, Zanzotto non cerca una
via di fuga estetico-contemplativa, ma al contrario una conferma del
proprio impegno verso la natura e soprattutto un rispecchiamento o
applicazione di quell’idea biologale che informa la relazione
reciproca, il dialogo (all’epoca) ancora possibile tra l’uomo e il suo
paesaggio: «Nella vigna sovrabbondante dei colori-natura l’uomo si
colloca vendemmiatore, dio, centro di “attività” anche quando è composto
nell’armonica quiete che supera la tensione degl’incontri […]: ma pur
restando signore e punto di equilibrio, eccolo signoreggiato dal suo
stesso regno, riequilibrato veramente per esso e in esso, in uno scambio
senza fine di comunicazioni e di allusioni».
Se l’arte vale a mantenere vivo il
ricordo di un tempo proiettato verso il futuro, la pittura di Cima può
divenire anche l’emblema di un’utopia necessaria: il buon governo che
potrà interrompere – scriveva Zanzotto nel suo In margine a un vecchio articolo
(2005) – la «marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto
ricco di arte e di memorie» (un Veneto che è quasi un’allegoria
dell’Occidente intero, in questo caso), giunta, «con le sue iniziative
imprenditoriali, ad alterare la consistenza stessa della terra che ci
sta sotto i piedi.»
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