Abbiamo già parlato
del libro di Fabre sui tentativi falliti di liberare Gramsci. Ci torniamo volentieri perché la recensione del
Manifesto merita davvero la segnalazione.
Gianpasquale
Santomassimo
Gramsci vittima della
sua strategia
A partire dai primi studi di Spriano, la vicenda dei tentativi falliti di liberare Gramsci ha conosciuto una fortuna storiografica che ne ha fatto un tema sempre più ricorrente, e anche ineludibile nella discussione sul comunismo italiano, per le implicazioni che conteneva attorno al contrasto tra il «capo» dei comunisti e i suoi compagni che dall’estero tenevano in vita le stentate fortune di quel partito. Nel tempo si è trasformato, anche, in un «genere letterario» aperto a scorribande complottistiche, a processi sommari basati su brandelli di documenti decontestualizzati.
Oggi con il libro di Giorgio Fabre (Lo scambio Come Gramsci non fu liberato, Sellerio «La diagonale», pp. 536, euro 24,00) si esce decisamente dal complottismo o dalla reticenza (che è stata a esso speculare), e la vicenda viene riportata alla sua dimensione storica effettiva, dentro la quale però si annida anche un grumo di pensieri, di cose non dette e solo accennate o adombrate, e che tali inevitabilmente resteranno.
È un quadro molto ampio e frastagliato, di cui è impossibile rendere conto in dettaglio. Forse non tutto è egualmente significativo, e non è detto che dietro a ogni singolo gesto, supposizione od omissione debba nascondersi parte di un disegno o di molti disegni che si intersecano.
La trattazione segue le tre fasi che si succedono: una prima collegata a una sperata mediazione vaticana tra potere fascista e governo sovietico (scambio con vescovi) che si rivela inconsistente. Poi quello che Gramsci definisce il «tentativo grande», fase più lunga, che interviene mentre i rapporti fra Italia fascista e Urss conoscono un momento di incontro e collaborazione (Patto di amicizia del settembre 1933), che non dà vita neppure stavolta allo scambio auspicato ma che si conclude comunque con la concessione della «libertà condizionale» presso le cliniche di Formia e poi di Roma. Libertà che diviene però ben presto molto condizionata e sorvegliata e non si traduce nella concessione dell’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia, che è l’ultimo tentativo di un Gramsci ormai piegato e destinato a spegnersi il 27 aprile del 1937.
Posto che la mancata liberazione di Gramsci dipese in ultima istanza dalla volontà di Mussolini di mantenere uno stretto controllo sulla sua persona, la discussione che si apre riguarda il ruolo dei sovietici e, soprattutto, dei comunisti italiani.
Qui si possono cogliere molte novità. Intanto, contrariamente a quanto molti avevano adombrato, si può dire che non viene mai meno l’impegno dei sovietici per ottenere la liberazione di un loro uomo, malgrado le critiche del 1926, rivolte non tanto alla maggioranza staliniana quanto alle modalità di esercizio del suo predominio. Più complicato e dolente è il quadro dei rapporti con i compagni italiani. Lasciando da parte dissensi e dissapori sulle scelte dell’Internazionale, che pure agiscono sullo sfondo, la questione si pone sui pochi e spesso male improvvisati interventi nella questione.
Alla fine, si può anche
convenire con l’autore che «gli italiani non facevano una gran
bella figura» nella vicenda, sia perché «era difficile trovare
qualche episodio che li vedesse positivamente coinvolti nei tentativi
di liberazione del loro leader», sia perché alcuni interventi
furono controproducenti e tali vennero severamente giudicati da
Gramsci. Imbarazzo e reticenza che accompagneranno tale memoria e che
impediranno fino all’ultimo una ricostruzione veritiera della
vicenda. Ma qui è giusto ricordare che i comunisti italiani si
mossero sotto un condizionamento difficilissimo tanto da ignorare
quanto da accettare pienamente.
Infatti la novità più rilevante del libro è quella di porre al centro di tutta la vicenda Gramsci stesso, non solo in quanto oggetto di iniziative altrui ma soprattutto in quanto regista e stratega delle tortuose strade che avrebbero dovuto condurre alla sua liberazione. Una strategia largamente fallimentare, bisogna pur dire. Fin dall’inizio, con una fiducia immotivata nella disponibilità vaticana a trattare il suo scambio. Ma soprattutto con una strategia processuale debolissima e che si sarebbe rivelata all’origine di tutti i contrasti e di tutte le amarezze vissute nel rapporto con i compagni italiani.
Volontà di Gramsci era che gli italiani si tenessero fuori da ogni aspetto di quella trattativa, interamente demandata all’impulso sovietico. Una pesante intromissione era stata considerata la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, sulla quale molto si è scritto, e che procurò in Gramsci un’irritazione destinata a riaffiorare nel tempo, mentre non suscitò reazioni simili in Terracini e Scoccimarro, che erano gli altri destinatari della missiva.
Al riguardo, bisognerebbe
cominciare pure a chiedersi se davvero una polizia efficientissima
come quella fascista avesse bisogno della lettera di Grieco per
«scoprire» che Gramsci era uno dei massimi dirigenti del partito
comunista. Ma tutta la strategia prescelta puntava ad attenuare e
porre in dubbio l’esercizio di quel ruolo dirigente: il che
comportava anche la raccomandazione di evitare campagne
propagandistiche volte a rivendicare la sua liberazione.
A questo era particolarmente difficile attenersi, per un partito clandestino in patria e che aveva un compito naturale di mobilitazione di coscienze sul piano internazionale. Tanto più diverrà difficile col passare del tempo, quando, ad esempio, col patto di unità d’azione siglato con i socialisti nel 1934 il nome di Sandro Pertini verrà stabilmente ad associarsi a quello di Terracini tra le vittime del carcere fascista di cui si chiedeva la liberazione.
Al riguardo, è singolare che in questa letteratura non si sia mai tenuto conto della lettera di Togliatti a Turati del 30 ottobre 1930, nella quale venivano segnalate le gravi condizioni di salute di Pertini nel carcere di Santo Stefano, si invitava a una mobilitazione unitaria e si suggeriva di inoltrare la richiesta di trasferimento a un carcere più idoneo: come poi avvenne, nel carcere-sanatorio di Turi nel quale era recluso anche Gramsci (Sandro Pertini combattente per la libertà, a cura di S. Caretti e M. Degl’Innocenti, Lacaita 2006, pp. 70–71).
La vicenda, tanto più
significativa perché avvenuta in piena epoca di «socialfascismo»,
fa comprendere come da parte comunista si tenessero unite le
dimensioni dell’agitazione politica e dell’esperire le vie
«legali» consentite dai regolamenti.
Se si eccettuano cadute approssimative e dilettantesche (il modo in cui Azione popolare del 29 dicembre 1934, diretta da Teresa Noce, diede conto della scarcerazione di Gramsci, irrigidendo la posizione di Mussolini e dando luogo a quello che ancora nel 1969 Sraffa definiva un «disastro» rispetto alle speranze di Gramsci), la posizione del gruppo dirigente comunista fu nel complesso di accettazione della richiesta di Gramsci, se pure non condivisa e ritenuta sicuramente onerosa sul piano politico.
Anche il ruolo di
Togliatti emerge come particolarmente rispettoso della personalità
dell’amico e volto a salvaguardarne la memoria, attribuendogli
perfino colorite espressioni contro Trotskij nel momento in cui
Grieco, Di Vittorio e altri sollecitavano un processo postumo contro
Gramsci, che riuscì a bloccare. A Togliatti si deve in larga misura
anche l’invenzione della frase eroica pronunciata di fronte al
Tribunale speciale, dibattimento che invece si svolse in forma timida
e stentata.
Quando all’inizio del 1934 Dimitrov venne espulso dalla Germania, dopo avere trionfato contro il Tribunale nazista, Gramsci dovette probabilmente porsi delle questioni e venire assalito da dubbi. Perché la strategia seguita dall’«eroe di Lipsia» era stata esattamente opposta a quella che Gramsci aveva prescelto: politicizzare al massimo il dibattimento, dare a esso la massima pubblicità, convogliare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica internazionale.
Gli ultimi anni di Gramsci furono amarissimi, segnati da delusione e scoramento, da sensazioni di abbandono e tradimento. Un esito di cui fu certamente vittima, ma che in qualche misura contribuì anche a determinare.
il manifesto – 1
novembre 2015
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