05 novembre 2015

MARINA CVETAEVA E LA POESIA


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     Con questo pezzo, dedicato all’intensa relazione tra Marina Cvetaeva e la parola scritta, riprendiamo la serie  di articoli di Annalena Benini sulla poetessa russa apparsa sul Foglio. Ringraziamo l’autrice e la testata: qui la prima puntata, qui la seconda.

Scrivere per restare viva. Marina Cvetaeva e la poesia

 Mia madre è molto strana. Mia madre non somiglia affatto a una madre, scriveva nel 1918, a sei anni, Ariadna Efron. Un piccolo componimento su Marina Cvetaeva, il ritratto preciso, innamorato ma anche spietato di una ragazza con gli occhi verdi e la figura slanciata che “scrive poesie”, non ama i bambini piccoli e non loda i loro primi disegni (“un uomo? Questo sarebbe un uomo? No, Alja, non ci siamo, questo per ora è un mostro, devi fare ancora ta-a-nti disegni e riprovare mo-o-lto a lungo”).
La vita di una donna che per prima cosa ogni mattina, mettendo da parte tutte le faccende e le urgenze, a mente fresca, e pancia vuota, scrive. “Si versava una tazzina di caffè bollente e la posava sullo scrittoio, al quale andava ogni giorno della sua vita, come un operaio alla macchina: con lo stesso senso di responsabilità, ineluttabilità, impossibilità di fare altrimenti”.
L’impossibilità di non scrivere ha segnato la vita di Marina Cvetaeva, nella povertà, nell’esilio, nella mancata pubblicazione dei versi, durante la Rivoluzione, durante la morte della sua figlia più piccola, nella sparizione degli amici, degli amori, e nella solitudine più dolorosa. Anche nella giovinezza allegra, quando le serviva molto poco per essere felice: “A Dio io chiedo / una stanza – qualunque – / un buco – da sola! – / un posto – per me! – / quattro pareti per / il silenzio”.
“Il suo giorno preferito è l’Annunciazione – scrive Ariadna Efron nel libro di memorie sulla madre, pubblicato in Italia una decina d’anni fa nella collana La Tartaruga di Baldini&Castoldi – E’ malinconica, svelta, ama la Poesia e la Musica. E’ paziente, sopporta sempre a più non posso. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un cuore grande così. La voce dolce. Il passo rapido. Marina di notte legge. Ha quasi sempre gli occhi che prendono in giro. Non le piace essere tormentata con domande stupide, allora si arrabbia molto. Qualche volta va in giro come persa, ma all’improvviso pare che si svegli e comincia a parlare, e poi di nuovo sembra che parta per chissà dove”.
Marina Cvetaeva, che aveva pubblicato la prima raccolta di poesie a diciott’anni, scriveva come gli altri respirano, per restare viva. “Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere. Alla domanda sullo scopo – risposta sulla causa. E non può essercene altra”. Osservare e descrivere, cercare la verità, contemplare, scolpire. Per fare questo aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (“trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi”), si innamorava di tutti, tendeva le braccia, inondava le persone e chiedeva loro di inondarla. Cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite.
Una volta, in Francia, in casa di amici, Marina conversò per ore con una signora di cui, a fine giornata, lodò le sottili capacità di comprensione. Questa signora era finlandese e conosceva soltanto poche parole di russo: Marina aveva parlato per tutto il tempo con sé, per sé e di sé. Come nelle lettere, sterminate, meticolose, vegliate con l’attenzione e la cura che aveva per le poesie, e che fissano la nascita di un linguaggio, la scelta delle parole (l’ossessione per le parole) e testimoniano lo sfrenato bisogno di ascoltare e di essere ascoltata. Serena Vitale lo chiama “l’orecchio assoluto”. Marina Cvetaeva era un poeta, assediato dalle voci (degli alberi, degli uccelli, della crudeltà, del cielo, del vento), e aveva perciò bisogno di udire anche la propria voce: “Nell’altro a me servono la fronte e il petto. Al cuore posso rinunciare – non al petto. Ho bisogno di una volta sonora. Io non penso, ascolto. Poi cerco un’esatta incarnazione della parola”.
Quando nel 1922, a trent’anni, lasciò la Russia, portò con sé, tra le sue pochissime cose (“Il mio senso di possesso si limita ai miei figli e ai miei quaderni”), i diari degli anni 1917-1919, gli anni terribili della Rivoluzione, anni che lei aveva vissuto, osservato, incarnato nelle parole dei taccuini: la fame, il Cremlino, la vita quotidiana, i sogni, le persone. Aveva già scelto il titolo: “Indizi terrestri”. Ma l’editore, che pure aveva già pubblicato le poesie di Marina, pretendeva troppi tagli per ragioni politiche. Per Marina Cvetaeva era inaccettabile: “Mosca 1917-1919 – cosa crede, che mi sia dondolata in una culla? Avevo ventiquattro-ventisei anni, avevo occhi, orecchie, piedi, mani: con questi occhi ho visto, con queste orecchie ho sentito, e con queste mani ho spaccato legna (e scritto i diari!), con queste gambe da mattina a sera sono andata per mercati e posti di blocco – dovunque mi portassero!… Nel libro non c’è politica: c’è la cocente verità, la cocentissima verità del gelo, della fame, della rabbia, dell’Anno! Ah! Esteti! Che non si vogliono sporcare le manine!… Non è un libro politico, neanche per un attimo. E’ un’anima vera: in un cappio mortale – eppure viva. Lo sfondo è tetro, eppure non sono stata certo io a inventarlo…”, scrisse Marina Cvetaeva in una lettera a un amico.
Nei taccuini aveva scritto la storia più vera, quella delle persone e dei loro giorni, gli indizi terrestri di un’esistenza appunto, e non sopportava l’idea che questo lavoro andasse sprecato, non per i soldi che ne avrebbe forse ricavato (“sarebbe una bassezza”) e nemmeno per la gloria: ma per l’opera in sé. “Scrivere per qualsiasi cosa che non sia l’opera stessa è condannare l’opera a un giorno e basta. Così si scrivono, e così devono essere scritti, gli articoli di fondo. Gloria, denaro, trionfo, questa o quell’idea – qualsiasi obiettivo estraneo all’opera è la sua fine”. Marina Cvetaeva non scrisse mai articoli di fondo, non scrisse per brillare, per essere ammirata, per ricevere elogi o contratti: scrisse perché non poteva non scrivere.
“Dopo avere scritto delle poesie posso leggerle da un palcoscenico e acquistare la gloria o la morte. Ma se è a questo che penso mentre mi metto al lavoro, non le scriverò, oppure le scriverò in un modo tale che non meriteranno né gloria né morte”. Le piacevano le cose belle, i bei vestiti che non poteva avere, le sigarette, il caffè, la bellezza nei volti e nei corpi, le piacevano le feste, l’allegria, la giovinezza negli altri, le persone felici da cui viene felicità. Non disprezzava il denaro: “I soldi sono la mia possibilità di continuare a scrivere. I soldi sono le mie poesie di domani. I soldi sono il mio riscatto da editori, redattori, padroni di casa, bottegai, mecenati: la mia libertà e il mio tavolo di lavoro”.
E la gloria? Marina Cvetaeva conosceva il proprio valore, i meriti, la potenza del talento, il senso del dovere e la brama incontenibile di esprimersi, e quando Boris Pasternak le scrisse per la prima volta un fiume di parole entusiastiche per le sue poesie, nel 1922, riconobbe la voce di un’anima simile alla sua, credette fosse un’allucinazione, riuscì a rispondere quasi soltanto: “Vi attendo”. “Ma cosa c’è di bello nella gloria? Il suono della parola”. Non aveva bisogno di gloria, ma cercava comprensione, e non ne era mai sazia. Qualcuno che capisse nel profondo quella non-vita, e la lodasse, la mettesse in salvo. Lui lo fece. La calmò. La nutrì. Le scrisse: “Tu sei oggettiva, ma soprattutto molto dotata: geniale. Quest’ultima parola cancellala, per favore. Per uso personale è una parola leziosa, da bellimbusto. Incontrandola mi sentivo a disagio, come forse capiterà anche a te. Un giorno o l’altro la diranno sul tuo conto. Poco importa. L’importante è ciò di cui ti occupi. L’importante è che stai costruendo un mondo incoronato dal mistero della genialità”. L’importante era continuare a scrivere.
Perché, nonostante la fame e il bisogno di ascoltare e ricevere i giorni e l’amore degli altri, nonostante il senso dell’umorismo e la natura allegra, sfrenata, che era certa di avere posseduto almeno in giovinezza, la vita di Marina Cvetaeva nel mondo reale fu devastata, forse alla fine distrutta, dalla condizione creativa: “La condizione creativa è quella dell’ossessione. Finché non cominci – obsession, finché non finisci – possession. Qualcosa, qualcuno, si insedia in te, la tua mano è solo strumento – non di te, di un altro. Di chi si tratta? Di ciò che attraverso te vuole essere”.
Questa ossessione le rese impossibile un amore compiuto e non infelice, le rese impossibile smettere di scrivere anche mentre la figlia piccola moriva in orfanotrofio, mentre l’altra bambina, più grande, aveva la malaria, mentre la soffitta in cui viveva si trasformava in un tugurio dove tutto era ricoperto di cenere e spazzatura. È come una febbre, come un tormento: lo senti addosso, dà i brividi, una sensazione di malessere e distrazione che scompare solo mentre Marina, come la descrive la figlia Ariadna, “spingeva da parte tutto ciò che in quel momento non le serviva sul tavolo, facendo spazio, con un gesto ormai meccanico, ai quaderni e ai gomiti.
Appoggiava la fronte su una mano cacciando le dita tra i capelli e si concentrava all’istante. Diventava cieca e sorda a tutto ciò che non fosse il manoscritto, in cui letteralmente si conficcava con la punta della penna e l’acume del pensiero”. Ogni tanto si accendeva una sigaretta e beveva un sorso di caffè. Parlottava per sentire come suonavano le parole, restava seduta al tavolo, come inchiodata, qualunque cosa accadesse intorno a lei, e ricopiava i manoscritti da mandare in tipografia in stampatello. “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto”, scrive nella seconda raccolta di lettere pubblicata da Adelphi, Deserti luoghi.
Cvetaeva era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere, e il resto dell’esistenza, la vita dei giorni, le sfuggiva di mano, la faceva sentire “una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa solamente far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre”. Così, mentre gli altri stanno in vacanza, si divertono, si riposano dopo un lavoro che forse non amano, o non amano abbastanza, o comunque non amano più della vita stessa, Marina soffre: “La mia vacanza è proprio il mio lavoro. Quando non scrivo sono semplicemente infelice, e nessun mare può darmi sollievo”.
Non è possibile tenere bene insieme la vita esteriore quando si vive soprattutto dentro di sé, in uno spazio esiguo e assediato da ogni parte, come ha scritto Serena Vitale nel saggio intitolato: Le voci di Marina: “In una sottilissima striscia di terra che non confina con nessun luogo e in cui regna un’ora sconosciuta ai quadranti terrestri vive il poeta, cieco a tutte le apparenze con cui il mondo reale vorrebbe sopraffare i suoi sensi”. Marina visse quasi sempre su quella sottilissima striscia di terra senza confini e senza orologi (“la mia libertà interiore”), e verso il mondo reale fu volubile, incostante, appassionata e poi subito indifferente, e nonostante un cuore buono non riuscì a essere una buona madre (“Al lavoro era capace di posporre qualunque altra cosa. Insisto: qualunque”, scrive la figlia Ariadna). “Mia madre non somiglia affatto a una madre”: è di nuovo tutto nella frase di una bambina di sei anni che non veniva elogiata per il suo essere bambina, ma che doveva essere un poeta per attirare a sé l’amore della madre.
Marina non somigliava a niente, ma ascoltava tutto: “Do ascolto a qualcosa che risuona in me in modo costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora dandomi ordini. Quando indica – discuto, quando ingiunge – ubbidisco”. Fino a restare completamente sola, di nuovo in Russia dove accettò l’ineluttabilità del ritorno, fino a non sopportare più la vita reale e la sua misera felicità (“mi vergogno: di essere ancora viva”), fino a desiderare il gancio e la sparizione assoluta. “Ma se esiste l’Ultimo Giudizio della parola – davanti ad esso sono pura”.

Testo riprodotto da  http://www.minimaetmoralia.it/

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