Collocò i papi
all’inferno Separò teologia e politica. Esaltò il libero arbitrio
e la coscienza personale. Non a caso Marx lo considera punto di
svolta fra due mondi: ultimo uomo del Medoevo e primo dell'età
moderna.
Vito Mancuso
Il Dante laico un
eretico in Paradiso
Il centro
matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la
libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così
fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia
/ per ben letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72).
L’intera opera in realtà ruota attorno al concetto di libero
arbitrio, come spiega Dante stesso presentando il suo lavoro:
«L’uomo, meritando o demeritando nell’esercizio del suo libero
arbitrio, è soggetto al giusto premio o alla giusta pena»
(“Epistola a Cangrande”,8). È per questo che si dà commedia,
cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza si avrebbe
tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la
madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di struttura.
Uno dei versi più
belli è quello con cui Virgilio, accomiatandosi da Dante, gli
conferisce la corona e la mitria attestando che ormai egli è re e
papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e mitrio» (
Purg. XXVII, 142). Appare qui l’altissimo senso della libertà
della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto
scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto
e di ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono
rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia,
perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da
loro» ( Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha
ben poco a che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non
a caso si ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis
dignitate di Pico della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo
scritto di Kant del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è
l’illuminismo?.
Da tale
considerazione della libertà discende il primato della morale
sostenuto da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze
sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di
felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate»
(Convivio, II, 14). Si tratta di una tesi «veramente straordinaria
nel medioevo» (Gilson), secondo cui la filosofia si compie come
etica e la conoscenza come giustizia. È per questo che in Dante
hanno tanto spazio la denuncia e l’invettiva: sono una logica
conseguenza dell’aver assunto l’etica quale punto di vista in
base a cui guardare il mondo.
Uno sguardo informato
dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di
distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori. Dante
quindi è un moralista, non però nel senso decaduto della
contemporaneità, ma nel senso classico che fa della giustizia la
virtù più grande al cui servizio si devono porre la politica, la
filosofia e la teologia, perché a questo servono il potere, la
conoscenza e la religione: a essere giusti nel proprio intimo e a
incrementare il tasso di giustizia nel mondo.
Esattamente per
perseguire la giustizia sopra ogni cosa Dante non esita a collocare
all’inferno ben cinque papi: Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente
V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri non nominati e a
moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto nel girone
degli avari e dei sodomiti.
Il pensiero di Dante
sul rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con
la filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un
passo biblico secondo cui «sessanta sono le regine… una è la
colomba mia e la perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte
scienze come regine» e la teologia «colomba perché è sanza macula
di lite» ( Convivio II,14; la citazione biblica è Cantico dei
cantici 6,8). Ora Dante sapeva bene che la condizione effettiva della
teologia non era certo quella di essere priva di liti, visto che la
rabies theologorum alimentava scomuniche e roghi.
Egli si riferiva però
alla teologia quale avrebbe dovuto essere idealmente: una scienza non
a servizio del potere, e perciò ricolma di invidia e di litigiosità,
ma a servizio della vita spirituale, e perciò ricolma di pace e di
mitezza. La teologia amata da Dante ha il vertice non nella
dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso
Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico
come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica
unitiva.
A questo proposito un
grande esperto quale Gilson ha scritto che la prospettiva dantesca
«non solo non contiene la dottrina tomista della subordinazione
delle scienze alla teologia, ma manifesta piuttosto l’intenzione di
evitarla », e qui occorre ricordare che fu a causa di tale teoria
tomista della subordinazione delle scienze alla teologia che in
Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e l’abiura
di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale, civile
e morale del nostro paese.
Tutto ciò trova
conferma nella clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già
condannati come tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da
Fiore, condannato dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante,
condannato dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa
sì che essi vengano presentati da chi in terra era stato loro
particolarmente ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da
Fiore è «di spirito profetico dotato », un’affermazione che il
Bonaventura storico non avrebbe mai potuto compiere perché
considerava Gioacchino «come un ignorante condannato a buon diritto
».
Quanto a Sigieri, ancora
gli esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante
a porre in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di
quell’aristotelismo radicale, o averroismo, guardato con palese
ostilità dal potere ecclesiastico per la piena autonomia della
ragione che professava. Ma proprio un personaggio così scomodo viene
posto da Dante in Paradiso accanto ai teologi più illustri e fatto
presentare dal più illustre di tutti, san Tommaso d’Aquino, con le
celebri parole: «Essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo
nel vico degli strami, / sillogizzò invidiosi veri» ( Par. X,
136-138). Sigieri era un filosofo che professava la più rigorosa
distinzione tra teologia e filosofia: collocandolo in Paradiso Dante
approva questa impostazione, persino dopo la pubblica condanna
ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte sospetta di Sigieri nella
curia papale per mano del segretario, si disse preso da un raptus di
follia).
Perché Dante esalta
Sigieri? Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella
rigorosa distinzione tra papato e impero, e nella conseguente
esclusione del papato da ogni gestione del potere politico. È la
prospettiva che noi oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche
l’ostilità di cui fu oggetto il pensiero politico di Dante da
parte del potere ecclesiastico, con l’ordine di papa Giovanni XXII
nel 1329 di dare alle fiamme il De Monarchia e l’inserimento della
stessa opera nel 1559 nella prima edizione del famigerato Index
librorum prohibitorum.
La repubblica – 27
maggio 2017