“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 gennaio 2018
AMELIA CRISANTINO INTERVISTA IL PRINCIPE SALINA
Le interviste impossibili: Fabrizio Salina
- Mi sento più ingombrante di tanti che furon vivi. Occupo più spazio io, che cento di quelli che ebbero un corpo. Per lasciarlo quasi subito, s’intende. Senza per questo evitare acciacchi e decadimenti, e un giorno tradisce il fegato e il giorno dopo gli occhi. Come tutto quanto nel mondo, anche il corpo tradisce. Abbandona e se ne va. Alla fine siamo tutti ombre, ed io non sono più ombra di un altro.
- È un grande onore incontrarvi. E anche un’emozione, lasciatemelo dire. Voi, il principe Fabrizio del Gattopardo… non è qualcosa che capiti tutti i giorni…
- Non provatevi a solleticare la mia vanità, son quasi guarito. Adempio con scrupolo i miei doveri, faccio quel che posso. Ho delle responsabilità, vi rendete conto.
- Responsabilità, certo.
- Vi vedo scettico. Ricopro un ruolo per niente disprezzabile. Come compete al mio rango, del resto. Sono fra le ombre pure, fra quelli che mai ebbero un corpo. Sto coi personaggi da romanzo, con gli ideali prototipi di tutti i vizi e tutte le virtù.
- Frequentate Fabrizio del Dongo, e il giovane Holden e don Chisciotte, e anche Candide e anche Renzo e Lucia? Perdonate l’ardire, principe. È come guardare su per un caleidoscopio, verso la luce.
- Un caleidoscopio con minuscoli disegni e minuziose architetture. Son tante le opere dell’ingegno umano, che noi ombre pure non abbiamo niente da invidiare a quelli che ebbero un corpo. Siamo dei tipi ideali, diamo il meglio di quel buffo fenomeno che è l’umanità. Niente di superfluo, nessun particolare fuori luogo.
- Tutte le letterature?
- Vi siete avvicinato al punto. Nessuno sta qua a perder tempo con la demagogica idea d’una qualche democrazia. Ma insomma ci vuole una rappresentanza, un sistema per combinare assieme le nostre esistenze, se così posso esprimermi. A meno che non si voglia dar credito a quel certo Leibnitz, quello delle monadi che non comunicano. Ma questi son sistemi che vanno bene sulla terra, dove il tempo è poco, a misura umana. La non comunicazione per principio non potrebbe mai aver successo qua da noi, con tutto quel tempo che a volte sembra una condanna.
- Mi sento frastornato. Ammetterete che non è cosa facile da capire o da pensare così, senza alcuna preparazione.
- Il vero problema è quello della creazione. La parola crea, ma basta la parola a dare consistenza? E quanto? Sino a che punto? Riesce ad oltrepassare la fatidica soglia oltre cui i personaggi avrebbero autonome avventure?
- I nominalisti, certo. Elaborarono teorie interessanti, e anche superbe.
- Non vorrete riesumare dispute antiche, dove nessuno mai s’arrende alle ragioni dell’avversario. Se io sono qua e siete qua anche voi, questo vorrà certo dire qualcosa. E non vedo perché voi, che siete di passaggio, potete stabilire chi di noi due sia più reale.
- Principe, lo so bene che voi siete reale. Più vero di tanti che vedono scorrere la loro vita sulla terra. Se mi è concesso, posso conoscere qualcosa della vostra vita fra le ombre pure?
- Un altro problema è quello del carattere, che poi in fondo coincide con quello della fedeltà.
- Fedeltà?
- Tutti noi abbiamo un carattere, i nostri creatori sono stati generosi con noi. Vedete da voi come il problema del carattere e quello della fedeltà si presentino da subito appaiati.
- Certo, per molti la fedeltà è un problema di carattere… Forse non comprendo, non del tutto.
- Non mi stupisce. Dalle pagine dei libri noi veniamo fuori con un carattere ben definito, che ci porta a scegliere ed agire anche al di fuori della trame che ci appartengono. Ma la maga Circe non diventerà mai un’ostessa, tranne che per suo piacere. Enea resterà pietoso, Ulisse inquieto e ingannatore. I nostri caratteri sono già definiti, nati adulti, come Atena da Giove pluvio.
- Questo è il carattere. Rischia di diventare una prigione.
- Avete capito, finalmente.
- Anche noi, intendo noi che non siamo ombre pure, tante volte diventiamo prigionieri di abitudini e vizi. Quasi ostaggi del nostro carattere.
- Non lo nego. Né ho mai pensato che la caducità delle membra potesse in qualche modo significare libertà. Ma il tempo porta il tarlo insidioso del cambiamento. Ed io, per dirla tutta, non riesco più a guardare con compiaciuta simpatia quel che dovrei essere. Non mi diverto più a fare il Gattopardo.
- Principe, voi siete una categoria della mente… qualcosa da cui non ci si può dimettere…
- Fortuna che il mio autore, che fra l’altro, posso dirvelo, non starebbe a parlare con voi che non avete il più misero fra i titoli nobiliari, ha scritto che amavo esplorare le vie del cielo. Questo continuo a farlo. Ho pure compilato un catalogo delle mie scoperte, ho elencato più stelle io che non l’astronomo Piazzi. Ma ci sono tante cose che non mi sono mai piaciute, che ormai non sopporto.
- Principe, mi confondete. Mai avrei immaginato…
- Il torpore, quello che non sopporto è il torpore. Tutta la negativa esaltazione del dormire, del ripiegarsi e sognare i miti passati. La paralisi della volontà. Non sopporto d’essere io la scusa buona per ogni scelta immobile, per ogni rifiuto a vivere. Quell’isola che mi sbandiera come un araldo per i suoi vizi, io non la riconosco. Io rifiuto quell’identità.
- Principe, voi e la Sicilia, l’isola del Gattopardo… voi non potete… anche un po’ di riconoscenza, scusate se mi permetto… voi siete il Gattopardo perché la Sicilia è la Sicilia. Senza quell’isola e i suoi antichi vizi, voi non sareste mai nato…
- Immagino senza volerlo, ma avete toccato il tasto della fedeltà. Argomento complesso quant’altri mai. Vi basti sapere che non sempre la fedeltà a se stessi e quella al proprio creatore coincidono. La fedeltà a se stessi può anche portare al cambiamento, quella al proprio creatore prevede solo un’identità paralizzata.
- E voi, Principe, avete scelto la fedeltà a voi stesso…
- L’unica possibile. Mi si condannava ad un regressivo torpore.
- Principe, la fedeltà a voi stesso non deve spingervi a rinnegare il passato… ci sono motivi profondi per quello che chiamate torpore regressivo…
- Voi non mettete in conto la violenza da me subita. Se Ulisse è diventato il simbolo dell’irrequietezza, che come un tarlo rode il pacioso adagiarsi nelle abitudini umane, se Achille è il valore un po’ feroce e per niente riflessivo, se insomma il più bel riconoscimento per noi ombre pure è che il tratto distintivo del nostro essere passa ad indicare un aspetto umano, a me che è successo?
- Anche voi, principe. Anche voi indicate una categoria dello spirito…
- Non indico un bel niente, non in questo senso. Ditemi voi se mai s’è detto di qualcuno ch’è un Gattopardo. Voglio dire, s’è detto di tanti, ma io non c’entro niente. Quando va bene mi scambiano con quel lupacchiotto feroce ch’era Tancredi, con quel suo proclama a voler cambiare tutto per non cambiare niente.
- Sono di quelle cose che difficilmente si possono controllare. L’immaginario collettivo, non so se avete mai sentito…
- Conosco bene. Il mio creatore era sposo ad una donna ch’era ben addentro a questi misteri, era lei che per insultarlo gli diceva “hai il torpore regressivo”. Così come un’altra Santippe avrebbe detto “hai sempre il naso rosso” o “hai le orecchie a sventola”. Ma io nemmeno quello sono passato ad indicare, al massimo mi ricordano per dire una rinuncia da depressi. Non so se ha presente la mia conversazione con Chevalley, il diniego ad occupare un seggio nel Senato del Regno…
- Certo che ricordo. Su quella rinuncia si possono scrivere interi trattati politici, e forse è stato fatto…
- E sapete cosa ho fatto adesso io, avendo deciso nel pieno possesso delle mie facoltà mentali di essere fedele a me stesso, e con questo allontanarmi dal mio creatore e forse anche tradirlo?
- Principe, non riesco a pensarlo…
- Ho dato il mio consenso acciocché venisse speso il mio nome, e adesso occupo un seggio nel governo delle ombre pure. Sovrintendo ad un aspetto pratico ed anche vile della nostra organizzazione, gli affari interni. Compito che ho scelto con coscienza, che porto a termine come fosse un volontario contrappasso. Per l’ignavia che contrassegnò quella parte della mia vita conosciuta da tutti, voi mi capite…
- Principe, questa davvero è una grande novità. Dispiace che non ci crederà mai nessuno. Anche se tentassi di divulgare la notizia ai quattro venti, nessuno la prenderebbe sul serio. E anzi avrei a preoccuparmi per le illazioni sulla mia sanità mentale, che di sicuro tirerebbero fuori quei pochi disposti ad ascoltarmi.
- Capisco bene, non state ad offrire scuse che nessuno vi ha chiesto. Il mondo degli uomini è un mondo confuso, lo so bene. Quello che mi dispiace è d’essere passato ad indicare non uno stato d’animo, o un moto del cuore, o un aspetto del carattere, o un’aspirazione della carne e del sangue. No, sono andato ad indicare qualcosa che è più di tutto questo ma anche qualcosa di meno, che non mette in gioco la verità della condizione umana.
- Principe, questa conversazione sta mettendo in crisi qualcuna delle mie certezze…
- Sono diventato il simbolo d’un alibi collettivo. Un alibi falso, così come lo sono spesso gli alibi. Un alibi che è un’impudenza, che tradisce e stravolge il mio personaggio. Che nobilita una patologia secreta dalla storia e la ammanta di virtù sotterranee. Io soffro la dannazione d’essere stato moltiplicato nei miei significati. Ero un carattere ideale, hanno fatto di me un vizio collettivo.
ATTUALITA' DI WALTER BENJAMIN
Tecniche di esposizione. L’attualità di Walter
Benjamin
Se c’è un saggio novecentesco dalla
attualità impressionante sul quale continuare a interrogarsi con urgenza è
senza dubbio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
di Walter Benjamin.
Un testo relativamente breve ma
densissimo di riflessioni tuttora illuminanti, dalla vita editoriale complessa
e frastagliata: ne esistono cinque versioni(dal settembre 1935 all’agosto 1936,
poi corrette e integrate fino al 1939-40) delle quali quattro in tedesco e una
in francese, l’unica pubblicata in vita dell’autore sulla rivista della Scuola
di Francoforte, tradotta dal giovane Pierre Klossowski, ma rinnegata da
Benjamin per i tagli operati sul testo, senza il suo consenso, da Max
Horkheimer.
L’ultima stesura apparirà postuma
solo nel ’55. Il testo è cruciale per molti motivi. Innanzitutto, per aver
colto immediatamente l’influenza della tecnologia sull’arte e aver riflettuto
con originale lucidità sul tema. Un’influenza (la riproducibilità) che modifica
non solo la fruizione da parte del pubblico e la potenziale strumentalizzazione
da parte del potere politico, ma lo status stesso dell’opera d’arte.
Soprattutto, questo processo induce
allo smarrimento dell’”aura” (concetto mutuato da Baudelaire), ovvero del
valore sacrale dell’opera, rimosso completamente nell’era della cultura di
massa.
Benjamin evidenzia il passaggio dal
valore religioso al valore politico dell’opera d’arte. Una relazione tra arte e
politica, secondo Benjamin, di segno opposto nei totalitarismi contemporanei
alla stesura del saggio: mentre il fascismo estetizza la politica, il
comunismo politicizza l’arte. Questa è chiaramente solo una sintesi di una
brutalità imbarazzante di un saggio dalle molteplici possibilità di lettura.
Ora, per Quodlibet studio, l’opera
viene riproposta in italiano, corredata da un importante e dettagliato apparato
critico (dodici densi saggi introduttivi) a cura di Marina Montanelli e Massimo
Palma. L’importanza di questa edizione è nel proporre in italiano per la
prima volta la prima versione dell’opera, fino a pochi anni fa inedita anche in
Germania.
Come scrive Fabrizio Desideri,
sottolineando nel primo saggio di commento della nuova edizione l’attualità
dell’opera, “la diagnosi della realtà si fa telescopage del futuro”. Abbiamo
conversato su questo punto con i curatori, in occasione della prossima
presentazione romana del libro, prevista all’Istituto Italiano di Studi
Germanici a Villa Sciarra per il 31 Gennaio alle ore 17.
Qual è la necessità di questa nuova
edizione di uno dei saggi più importanti del Novecento? Perché proprio ora?
Lo spunto – prima dei seminari dell’Associazione
Walter Benjamin, poi di questo volume – è stato la riedizione tedesca de L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica all’interno
della nuova raccolta critica degli scritti di Benjamin (i Werke und Nachlaß),
che ha portato un’aria radicalmente nuova su uno dei saggi più citati del
Novecento. Le novità sul piano filologico sono molte. La più importante è la
fissazione, per la prima volta, di cinque differenti stesure del saggio.
L’edizione critica tedesca ha reso infatti disponibile la primissima versione
del testo, scritta nel settembre del 1935, incompiuta, ma ben riconoscibile nei
suoi tratti dirompenti. Accanto ai commenti di molti specialisti, col nostro
volume abbiamo voluto offrire ai lettori italiani la possibilità di leggere
questa prima redazione. E di chiarire, con una Nota critico-filologica, la
complessa storia editoriale di un testo che Benjamin non pubblicò mai, se non
in francese e con molte censure impostegli da Max Horkheimer.
Del resto, l’attualità dell’opera è
talmente evidente da far emergere, senza enfasi, il carattere profetico
dell’analisi di Benjamin. Siete d’accordo?
Mai come in questo momento, il
carattere profetico dell’Opera d’arte appare lampante. Non sono soltanto
i social media e l’ulteriore sviluppo tecnologico a far scoccare una nuova “ora
della sua leggibilità”, ma anche i modi di produrre contemporanei, nonché le
forme di vita a essi corrispondenti. Benjamin ci ha infatti consegnato una
lettura della tecnica eminentemente politica, nella quale rivoluzione e
modificazione percettiva sono inseparabili. I margini d’azione dischiusi dalla
serialità e dalla riproduzione tecnica non definiscono uno spazio neutro, al
contrario, sono il campo di battaglia dello scontro col capitale e le sue forme
di sfruttamento. Le nuove “innervazioni collettive”, così le chiamava, degli
organi sensoriali possono dischiudere processi di liberazione potentissimi – a
partire dalla preminenza della cooperazione, dell’orizzontalità, delle
connessioni – oppure essere catturati nei circuiti della valorizzazione
capitalistica. Come suggerisce Paolo Virno, il capitalismo ha ormai da tempo
messo a valore quello stesso fenomeno che Benjamin ha chiamato “povertà di
esperienza”: formazione permanente, precarietà, intermittenza lavorativa, sono
alcuni dei modi con cui si trasforma in profitto un tratto propriamente
antropologico, la capacità umana di destreggiarsi nell’assenza di solide
abitudini, di costruirne sempre da capo di nuove. È a partire da qui che va
ripensata oggi la questione della politicizzazione dell’arte, del “rinnovamento
dell’umanità” a partire dalla sua stessa crisi.
Ho sempre ritenuto cruciale la
relazione saggio con l’arte contemporanea, soprattutto con la cosiddetta pop
art. Si tratta di un tema che ritengo fondamentale per la cultura contemporanea.
Secondo voi, Andy Warhol ha compiuto la profezia di Benjamin come erede
consapevole o come manifestazione del “male” culturale annunciato nel saggio?
Warhol è la variazione diffusa di
una compiuta strategia di estetizzazione che non rima affatto con “più
democrazia” – nonostante le celebrazioni dell’uguaglianza dell’uomo qualunque
con Liz Taylor (entrambi bevono Coca Cola). Ma Warhol, il campione della pop
art come arte della superficie, è anche il custode di un nocciolo irriducibile
alla rappresentazione. L’estremo valore cultuale in Warhol è quello di un nulla
esistenziale irrappresentabile. Certo, ogni suo film, ogni serigrafia è la
traccia di un’esposizione al quadrato. Espongo l’esponibile, estetizzo la
merce, mercifico l’oggetto già estetizzato – Marilyn, ma anche la
confezione di fagioli. E tuttavia il segreto custodito nel mio rapporto con
l’oggetto è rimandato completamente al singolo. E il singolo, pur
ipersensibile, è rappresentato come inetto alla rappresentazione. Il suo Popism
termina con un micidiale “Poscritto” che elenca tutti i morti della “scena”
apparentemente imperdibile della Factory anni Sessanta. Il segreto del
“successo” è un rapporto ineffabile con la morte. Una religione della morte,
forse.
Presente è nell’opera il riferimento
al tema gnostico della Caduta. Del resto parliamo di un intellettuale che ha
avuto non solo come amco ma come interlocutore privilegiato Gershom Scholem,
padre degli studi sulla Qabbalah nel Novecento.
Il tasso di gnosticismo in Benjamin
è un tema che ha affascinato molti, spesso a partire da una lettura di Jacob
Taubes (che con Scholem non mancò di litigare). Ma chi legge il saggio
sull’opera d’arte, a dispetto, o no?, delle riserve di Brecht («tutto è mistica
in questa postura antimistica», appuntava nel suo Diario di lavoro) può
trarne l’impressione di un nesso sistematico con la teoria dei nomi del primo
Benjamin, influenzata dal dialogo con Scholem. Quando, dopo la Caduta, nome e
cosa non coincidono più, comincia l’odissea del significato, l’epopea del lutto
dei viventi, ma anche l’ascesa di una materia sempre percepibile e dicibile, la
cui capacità comunicativa però si perde in una continua rappresentazione di cui
l’intelletto umano è il regista. Nell’Opera d’arte avviene la
scoperta che la caduta dell’artistico in sé e per sé, l’uscita dell’arte dal
cultuale, è apertura di uno spazio di possibilità, che è politicizzabile.
Ho sempre trovato cruciale la
polemica sul “sacro” che ha visto protagonisti Benjamin e Bataille. Trovate che
sia ancora attuale?
La polemica risale a una presunta
frase di Benjamin alla fine di una seduta del Collège de sociologie, l’accolita
di sperimentatori di un “sacro” sinistro (anti-autoritario, trasgressivo, alla
ricerca di una ‘comune eterogeneità’ contro l’omologazione utilitaria), guidata
da Bataille e Caillois. Benjamin avrebbe detto: “Voi lavorate per il fascismo”.
Klossowski, che tradusse il saggio sull’Opera d’arte in francese,
trent’anni dopo rivelò che aveva detto: “Lavorate per un’estetica prefascista”.
Così espressa, la provocazione, legata a una critica dell’uso del mito
politico, col nesso diretto all’estetica, ha una sua attualità. Il paradigma
dell’estetizzazione della politica non ha fatto che propagarsi. La fascinazione
intellettuale per un sacro ‘destro’, che guida un fruitore infantile,
beato nel suo nulla d’esperienza, è ben attiva. Il meccanismo di estetizzazione
è coestensivo alla struttura del capitalismo odierno, alle nostre pratiche di
vita: la politica resa consumabile, la finzione giustapposta alla storia,
l’aura disegnata sulla violenza esposta, sono altrettanti atti di
(an)estetizzazione. E suscettibili d’una deriva fascista.
L’ultima domanda è forse la più
drammaticamente urgente: come ripristinare l’aura?
Ma è davvero necessario ripristinare
l’aura? Anche in questo caso è fondamentale seguire le indicazioni di Benjamin,
non per fedeltà ideologica al suo dettato, ma perché proficue per l’epoca
presente. Il potenziale rivoluzionario che la riproducibilità tecnica ha
portato alla luce ha a che fare proprio con la distruzione della dimensione
auratica dell’opera, del suo tratto rituale, legato cioè al contesto sacro e
religioso. La messa in crisi del concetto stesso di ‘originale’ e ‘originalità’
ha reso possibile la riemersione del tratto ludico dell’esperienza estetica in
senso ampio. Tratto – come sottolineato anche da Giorgio Agamben – fortemente
profanatorio, capace di restituire alla sfera umana dell’uso ciò che prima era
separato e inaccessibile nella propria lontananza cultuale. È il capitalismo
maturo, per Benjamin, ad aver ripristinato l’aura nella forma della merce,
della nouveauté a tutti costi, dietro cui si nasconde il volto del “sempre
uguale”. Allora se proprio si vuole pensare a un eventuale “ripristino
dell’aura”, forse l’unico possibile è quello a cui Benjamin allude in un
appunto dove ne dà una nuova definizione: aura è anche capacità di levare lo
sguardo. Lo sguardo a cui Benjamin pensa è quello con cui l’oppresso risponde
allo sguardo dell’oppressore. È lo sguardo di chi si è svegliato da ogni sogno,
in cui ogni lontananza è cancellata.
Articolo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it
LA STRADA di F. SHEDIR DI PAOLA
Ci sarà una strada per chi non si prostra?
Per chi non accetta di vendersi
né di montare in carrozza?
Per chi rimane a coltivarsi le spighe,
a scordarsi del fiele, l’alito corto
di chi mira solo ad arrivare?
Ci sarà dunque una strada
transitabile e giusta?
Solitaria ma libera nel passo
indipendente in ogni verso
senza l’ombra di una maschera
ora felice ora disperata.
Esisterà mai una tale strada?
LA LINEA di AMINA NARIMI
Scultura Georg Kolbe
Se tu segui tua stella
non puoi fallire a glorioso porto
Divina Commedia, Inferno, vv. 55-56
Seguo la linea quando scompare
dietro una curva - come il tornante
che offusca la cima salendo gli dei
e sembra di scendere- l’intima stella,
più grande di me. L'ascolto obbediente
mentre l’acqua finisce e l’ultima legna
è sul fuoco a bruciare il brillio naturale
la carne del soffio, la sua direzione.
Con le ossa nell’aria lo stesso cammino
nell’oscuro dell’abse mi insegna a vedere
dove il silenzio non sta senza verbo,
a tenere un diario, a scrivere lettere
mi inchino, confusa - Di fronte a che cosa
tu fai riverenza? A chi ti inginocchi?-
Assentendo alla vita, io credo, soltanto
se chino il mio capo, cadendo vicino
al verde nel vero alla sua primavera
al suono che fa sentire che “ vr”
dispone nell’aria la pioggia dei fiori
che l’acqua raccolta nel cuore a giumella
offre al pensiero e alle mani il sapore
dal basso continuo, andando alla gioia
se dalla terra imparo il respiro.
Amina Nariminon puoi fallire a glorioso porto
Divina Commedia, Inferno, vv. 55-56
Seguo la linea quando scompare
dietro una curva - come il tornante
che offusca la cima salendo gli dei
e sembra di scendere- l’intima stella,
più grande di me. L'ascolto obbediente
mentre l’acqua finisce e l’ultima legna
è sul fuoco a bruciare il brillio naturale
la carne del soffio, la sua direzione.
Con le ossa nell’aria lo stesso cammino
nell’oscuro dell’abse mi insegna a vedere
dove il silenzio non sta senza verbo,
a tenere un diario, a scrivere lettere
mi inchino, confusa - Di fronte a che cosa
tu fai riverenza? A chi ti inginocchi?-
Assentendo alla vita, io credo, soltanto
se chino il mio capo, cadendo vicino
al verde nel vero alla sua primavera
al suono che fa sentire che “ vr”
dispone nell’aria la pioggia dei fiori
che l’acqua raccolta nel cuore a giumella
offre al pensiero e alle mani il sapore
dal basso continuo, andando alla gioia
se dalla terra imparo il respiro.
*****
Si apre piano
la lunga tenda gialla
sopra il giardino.
Porto al cuore le mani,
piccole spinte e
una sola parola-
per dire la pelle
toccando il tuo viso
le braccia la schiena
e il tuo sesso-
s'innalza nel cielo,
bello semplice azzurro;
un giovane albero
è l'ombra leggera
sotto il fogliame,
un uccello sacro, sul muro
della mia stanza.
Tace l'immaginazione.
Ti ascolto,
come quel fiore arancione
che ha sentito il mio desiderio,
e si è dichiuso,
come fa il bene,
silenziosamente.
Amina Narimi
come quel fiore arancione
che ha sentito il mio desiderio,
e si è dichiuso,
come fa il bene,
silenziosamente.
Amina Narimi
30 gennaio 2018
Sarebbe ora che risorgesse un giornale come L' ORA!
“L'Ora”, un cane da guardia contro la mafia
Jolanda Bufalini
Sarebbe
l'ora, verrebbe da parafrasare dopo la lettura di Era L'Ora (a cura di
Michele Figurelli e Franco Nicastro, XL, 2012) che, attraverso le
testimonianze di chi vi lavorò (o anche di chi, come Roberto Lagalla,
partecipava al «rito» pomeridiano in edicola: «è uscito l'Ora?»)
racconta la storia del quotidiano che ha inseminato con i suoi cronisti
(diventati inviati e direttori) le maggiori testate italiane. Il volume,
uscito di recente, segue una mostra e un convegno organizzati a Palermo
dall'Istituto Gramsci nel 2010. Ne viene fuori il ritratto del
leggendario direttore Vittorio Nisticò, e però anche un trentennio, sino
all'epilogo traumatico della chiusura nel 1992, in cui la vicenda de
“l'Ora” si intreccia con la storia di Sicilia e d'Italia e dunque, alla
fine, si traggono dal libro spunti che vanno ben al di là della storia
del giornalismo.
Direttore
tosto, incazzoso, «sono caduta nelle grinfie di un nevrotico
abbarbicato al suo tavolino 16 ore di fila», scriveva Giuliana Saladino.
Emerge dai ricordi, ancora oggi, il terrore davanti alla porta chiusa
del direttore, la gioia intima e fortissima per un apprezzamento. E
l'orgoglio per essere cresciuti a quella scuola, laboratorio che
sfornava al pomeriggio non più di 12-16 pagine. “L'Ora” «divenne in
breve la fonte più accreditata sui fatti di mafia, il mito della
controinformazione si identificava in sostanza con una informazione
completa e corretta», scrive Vincenzo Vasile. Roberto Ciuni: «Il
giornalismo palermitano non si scomodava per assistere alla guerriglia
dietro casa: pigro, codino, metteva un ruffiano S.E. davanti ai nomi dei
ministri, prefetti, sottosegretari, magistrati, generali,
ambasciatori». C'è il tributo di sangue dei giornalisti uccisi, Cosimo
Cristina (maggio 1960), Mauro De Mauro (settembre 1970), Giovanni
Spampinato (delitto fascista, ottobre 1972) ma la prima avvisaglia della
guerra fu una bomba al tritolo che squassò la sede del quotidiano nel
1958, quando era in corso la prima inchiesta fra mafia e politica. Il
titolo dell'edizione straordinaria fu: «La mafia ci minaccia l'inchiesta
continua». Allora come ora le inchieste vere disturbavano il
manovratore. Nisticò non era un eretico, era stato nominato da Amerigo
Terenzi, editore dei giornali del Pci, con l'accordo dei vertici del
partito. Eppure (annota nelle memorie) dopo la bomba, ebbe «una
sensazione spiacevole di isolamento rispetto alle forze siciliane dello
schieramento amico».
Un'avventura di libertà giornalistica
A
cosa si deve l'alchimia che produsse quei vent' anni (1954-1975) di una
straordinaria avventura di libertà giornalistica? Marcello Sorgi: «La
sua impazienza cominciava dal primo mattino, quando ancora non erano
disponibili a Palermo i giornali nazionali, e si informava al telefono
delle aperture, dei commenti e delle articolazioni delle prime pagine.
Non si è mai accontentato dell'orizzonte locale». C'è il rapporto forte
con il Pci e con il progetto di cambiamento che in Sicilia significava,
alla Togliatti, prima di tutto autonomia. Ma Nisticò sa che da
giornalista deve rispondere prima di tutto ai lettori («dovevamo essere i
cani da guardia dei cittadini, specialmente di quelli che non hanno
voce», Francesco La Licata. «Garantisti verso tutti non verso i
potenti», Vincenzo Vasile). Il 1958 non è solo l'anno della bomba, è
anche l'anno della rivolta milazziana che esclude la Dc dal governo
regionale. Per il giornale è un passaggio delicatissimo, nella
maggioranza trasversale ci sono anche contiguità mafiose. Ma, sul piano
politico, racconta Nisticò (Accadeva in Sicilia, Sellerio 2001): «L'Ora
aveva precorso a modo suo, cioè facendo giornalismo, perché le idee
politiche non fanno da sole un giornale e d'altro canto io stesso, per
quanto affascinato dalla politica, non riuscivo a viverla, se non in una
dimensione giornalistica».
La
dimensione giornalistica gli consente di sfamare una curiosità
onnivora: l'aristocrazia palermitana, la mondanità; le vacanze
all'estero dei redattori servono per raccontare, in un giornale povero,
il mondo. Cerca la collaborazione di intellettuali dai caratteri e dalle
idee anche opposte: Sciascia e Danilo Dolci, Nino Sorgi e Francesco
Renda, Giuliana Saladino, Marcello Cimino, Gioacchino Lanza Tomasi,
Italo Calvino. Le foto d'archivio mostrano Claudia Cardinale in
redazione, al tempo in cui Visconti girava a Palermo il Gattopardo.
Sguinzaglia i fotoreporter (Scafidi, Petyx, Letizia Battaglia, Lo
Bianco) perché senza la foto il pezzo di nera si può anche buttare.
Colleziona querele, come ricorda nel libro Etrio Fidora. Attento
spasmodicamente alla concorrenza, Sergio Sergi mi ha raccontato di
quando un giornale concorrente titolò: «Ho visto la madonna piangere».
«E tu? - ringhiò il direttore al cronista - dov’eri?».
Praga e la Grecia dei colonnelli
Kris
Mancuso ricorda come approdò agli esteri. 1968, era di nuovo inviata al
festival di Sanremo, dove aveva realizzato l’ultima intervista a Luigi
Tenco, appena prima del colpo di pistola. Ma c’era stato il terremoto
del Belice, chiamò:«Il cronista si rifiuta di riferire di questo mondo
luccicante e chiuso mentre fuori accade...». «Sei diventata pazza?». Il
primo reportage fu da Praga: «Tre mesi dopo, era l’agosto 1968, guardavo
sul teleschermo le sequenze della repressione della Primavera, e
piangevo». Poi fu la Grecia dei colonnelli, Panagoulis, gli esuli e
l’oscura persecuzione dei servizi segreti italiani per i suoi contatti
con gli studenti greci a Palermo.
Ho
conosciuto Nisticò come lo racconta AlbertoSpampinato, dopo, a Roma: «È
diventato l’opposto del terribile direttore che scagliava il
portacenere contro il malcapitato cronista. Vittorio si è addolcito, è
diventato premuroso». Però era sempre direttore, riuniva a cena le
persone più diverse, e domandava, interrogava. Poi, facendo volare
quelle sue mani magre come di fronte a un pianoforte, sintetizzava fatti
e punti di vista.
Sulla
fine de “L'Ora” Nisticò se la prende con i colonnelli di Berlinguer.
Poi ci sono stati i sergenti e i caporali. Alberto Stabile: «Avremmo
dovuto capire per tempo che politica e editoria sono incompatibili».
Vincenzo Vasile, che è stato l’ultimo direttore: «L'Ora non poteva
sopravvivere in una stagione segnata dallo svilimento». Vale però la
pena di riprendere un editoriale di Nisticò, citato da Michele
Figurelli, in polemica con il “Giornale di Sicilia”: «Degasperiano
finché De Gasperi non cadde, pelliano per la pelle fino a che Scelba non
silurò Pella, nessuno potrà sorprendersi se dovesse svegliarsi
filocomunista, se le sinistre tornassero al governo. Nessuna sorpresa
neppure se in futuro dovessimo fare i conti con qualche piccolo Beria di
casa nostra. Sarà il Giornale di Sicilia ad accusarci per la semplice
ragione che, pure allora, lui sarà per Beria e noi, se Dio ci darà
vita,per i diritti del popolo e per le libertà».
“l'Unità”, 11 luglio 2012
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