Emilio Gentile ha ricostruito il punto di vista (sempre opportunistico) del quotidiano fascista, in un saggio per Laterza: «Mussolini contro Lenin».
Giorgio Fabre
I fatti del 1917
filtrati dal Popolo d'Italia
La copertina può ingannare, il titolo no. Mussolini contro Lenin di Emilio Gentile (Laterza «i Robinson/Letture», pp. 263, euro 16,00) non è, come sembra far intendere appunto l’immagine appositamente elaborata per la copertina, il racconto di una lotta all’ultimo sangue tra il leader sovietico e quello italiano: quasi volessero cavarsi gli occhi. Il libro di Gentile è piuttosto un’utile ricostruzione di ciò che Mussolini e i suoi organi di stampa, e in particolare Il Popolo d’Italia, scrissero su Lenin, la Rivoluzione d’ottobre e il bolscevismo. E poi di ciò che disse (pochissimo) Mussolini stesso, praticamente in un discorso solo.
Gentile riporta
attentamente tutto: dalle minute notizie stampa recuperate da fonti
in mezza Europa, agli articoli di fondo, alle cronache che Mussolini
trasse dai giornali italiani a partire dalla rivoluzione del febbraio
1917, fino alla morte di Vladimir Ilic Ulianov nel gennaio 1924 e
alle sue commemorazioni.
Per quanto riguarda le
vicende precedenti al 1917, le pagine più rilevanti sono quelle che
si riferiscono alla compresenza di entrambi in Svizzera nei primi
anni del Novecento e all’ipotesi che possano davvero essersi – se
non conosciuti – almeno incrociati. Gentile ipotizza che ciò
avvenne a Ginevra, nella Brasserie Handwerk, il 18 marzo 1904: in
occasione dell’anniversario della Comune. Un’ipotesi che resta
tale, ma pare più attendibile di altre, create da un’enorme
memorialistica cialtrona che ha ricamato enormemente sui due leader
avversari. E comunque, nel caso, i due si sfiorarono appena.
Ma le pagine più interessanti del libro sono quelle dal ’17 in poi e riguardano in particolare Mussolini. Meritoriamente Gentile non accenna neanche a un’altra leggenda metropolitana: che a un congresso dell’Internazionale Lenin avrebbe detto ai delegati italiani che erano stati degli sciocchi a perdersi, nel 1914, il loro leader migliore, cioè proprio Mussolini.
Lenin, da quanto si sa,
citò Mussolini solo due volte, in due articoli, nel 1915; e tutte e
due le volte sbagliando in modo grossolano, a causa delle cattive
informazioni di cui disponeva. In entrambi gli articoli indicò
Mussolini come un socialista «parlamentarista» e bissolatiano, cioè
il contrario esatto della verità: perché era stato lui a cacciare
Leonida Bissolati e altri compagni dal Partito socialista, in quanto
troppo compromessi col governo e col riformismo.
Nel frattempo, invece, come sappiamo, Mussolini, alla fine del 1914, anche corrotto da soldi francesi, era uscito dal Psi, che era neutralista. E aveva fondato un suo giornale, Il Popolo d’Italia, interventista. Fu la natura del giornale a condizionare tutta la sua interpretazione delle due rivoluzioni russe, quella di febbraio che condusse al potere il socialista e riformista Kerenskij, e quella di ottobre-novembre dei bolscevichi.
Mussolini fu
violentemente antileninista perché Lenin portò l’esercito russo
fuori dalla prima guerra mondiale e mise in difficoltà gli alleati
occidentali. In questo modo anche l’Italia rischiava di perdere e
gli sforzi del futuro duce sarebbero stati vani. Allora Mussolini usò
tutti gli epiteti possibili per insultarlo. I più articolati erano
quelli che riferivano di un «complotto ebraico» di cui faceva parte
anche Ulianov, Leitmotiv che ripeté dal ’17 al ’19. Il
«complotto ebraico» in Russia era alleato a quello della grande
finanza internazionale, anch’essa ebraica e così si trattava di un
«complotto» che aveva lo stile dei «savi anziani di Sion».
Ma durò poco, perché, dopo che Mussolini venne rimproverato aspramente da qualche ebreo, alla fine del 1919, sulle colonne del suo giornale, gli ebrei di Russia da persecutori divennero i perseguitati dal «terrore rosso» leninista. E non fu l’ultima delle sue giravolte.
Molte delle ricostruzioni degli avvenimenti sovietici che pubblicò sul Popolo d’Italia dopo il ’17 provenivano dai Socialisti rivoluzionari russi, i fidi di Kerenskij che complottavano contro i bolscevichi. E forse sarebbe stato meglio che Gentile avesse spiegato chi erano costoro: ad esempio Vassili Soukmouline, giornalista molto attivo, era il braccio destro di Viktor Cernov, ex ministro di Kerenskij, e dai fascicoli della polizia italiana risulta in Italia protettissimo e proprio in chiave anti-bolscevica.
Insomma, sulla base di
queste fonti, Mussolini scrisse sul Popolo d’Italia una propria
personale Storia della Rivoluzione russa, per molti tratti
interpretata con gli occhi e i documenti di quelli che erano i
peggiori nemici di Lenin (e magari amici del socialista Filippo
Turati, che li proteggeva). Eppure, anche su di loro, via via che il
«potere rosso» si consolidava in Russia, Mussolini cambiò idea.
Anche in questo, era un grande opportunista. E presto «scaricò» i
socialisti rivoluzionari (che, tra parentesi, secondo una spia
inglese erano guidati dai Servizi occidentali).
Finita la guerra, il problema per Mussolini, più che Lenin stesso e la Russia, furono i leninisti italiani, che nel 1921 arrivarono alla scissione del Partito socialista e alla nascita del Partito comunista. Giustamente Gentile sottolinea due suoi articoli che non molti ricordano, del marzo e del maggio 1921. Nel primo, attaccò il giornale di Gramsci, L’Ordine nuovo, organo del partito comunista appena nato, e scritto «da italiani più o meno autentici che noi conosciamo e che sono mostruosi e deformi nel corpo e nell’anima»; nel secondo, a proposito del medesimo giornale, lo definì: «organo di quattro deformi intellettuali che ci “sbafano” sopra (tanto è Lenin che paga!)». Il futuro duce conosceva bene Gramsci, e questi pezzi virulenti e sguaiati ne sono una buona dimostrazione.
Sui comunisti italiani, in realtà, non tornò mai indietro, ma sulla Rivoluzione d’ottobre e su Lenin sì, eccome. Via via che il fascismo si assestava e da movimento diventava partito, e via via che il gruppo dirigente bolscevico metteva radici in Russia, Mussolini, sempre realista, cambiava idea. Prima (luglio 1920, e poi di nuovo nel giugno ’21) definì Lenin «artista che ha lavorato gli uomini»; aveva fallito, ma sempre artista era. E la descrizione dello Stato sovietico guidato dallo «zar rosso» era venato di invidia, perché aveva superato d’un balzo il caos politico che vigeva in Occidente: «lo stato russo è lo Stato per eccellenza».
Poi anche quando
Lenin impresse, con la Nep, una torsione alla politica bolscevica,
introducendo elementi di piccolo capitalismo, Mussolini cantò
vittoria, sostenendo che, come aveva previsto, la Russia si stava
piegando all’Occidente e la Rivoluzione era sconfitta. Ma si
ribellò a una nuova guerra col paese di Lenin e già allora
caldeggiò l’apertura di rapporti diplomatici con Mosca (che poi in
effetti avviò lui stesso, poco dopo la morte di Lenin). Infine,
quando il leader sovietico morì, da presidente del Consiglio non si
sporcò le mani con una commemorazione. Ma il suo giornale scrisse un
peana, intitolato Il dittatore, a «uno delle figure più popolari
del mondo contemporaneo».
E qui, per finire, Gentile fa questa osservazione: Lenin fu un leader che, anche nelle decisioni più temerarie, «precedeva» tutti. Mussolini invece, fino alla conquista del potere, fu un leader che «seguiva», che aspettava che le situazioni evolvessero e poi prendeva le sue decisioni. Un uomo di lunga lena e attendista. Quando vide che la Russia si era stabilizzata e, negli anni seguenti, che Stalin si era sistemato al potere, accettò a lungo lo stato dei fatti, perfino con qualche sfumatura di invidia per il nuovo «zar rosso», come era successo per Lenin. Sarà una lettura «personalizzata» della grande Storia, ma appare piuttosto convincente.
Il Manifesto/Alias – 14
gennaio 2018
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