Rabbia e perdono secondo Martha Nussbaum
di Stefano Catucci
Con Rabbia e perdono, libro
uscito per la Oxford University Press nel 2016 e prontamente tradotto da
Roberto Falcioni per Il Mulino (pp. 41, Euro 28,00), Martha Nussbaum
aggiunge un nuovo capitolo all’indagine sui rapporti fra i sentimenti e
la costruzione del nostro essere sociale avviata nel 2001 con L’intelligenza delle emozioni.
A quel primo testo Nussbaum ha fatto seguire negli anni successivi
altri lavori sempre basati su un duplice registro argomentativo: da un
lato far luce su moventi molto generali dell’azione e del giudizio
umano, universali antropologici che tuttavia prendono forme differenti a
seconda dei contesti storici e sociali, dall’altro intervenire su
fenomeni d’attualità mettendo in discussione alcuni luoghi comuni del
liberalismo, a partire da quello che contrappone la razionalità della
legge e l’irrazionalità delle passioni. Già in Nascondere l’umanità,
del 2004, Nussbaum aveva parlato di una politica fondata sul disgusto e
sulla vergogna come base delle discriminazioni di razza e di genere che
permettono ai gruppi dominanti di isolare le minoranze svantaggiate e
difendersi, così, dalle loro paure. Con Emozioni politiche, del
2013, si era concentrata invece sull’amore e sul sentimento di
uguaglianza, fonti di apertura e di inclusione nei confronti dell’altro.
Ora in Rabbia e perdono il rapporto fra le due spinte
fondamentali alla chiusura e all’apertura, a una politica di
discriminazione e a una di accoglienza, viene affrontato in vista di
un’elaborazione che non le rinneghi, ma ne addomestichi l’energia per
sviluppare un sistema normativo e sociale più equilibrato. È in fondo il
senso dell’apologo che apre il libro e che Martha Nussbaum trae dal
finale dell’Orestea di Eschilo. La dea Atena fonda un ordine
giuridico nuovo per la città, istituisce un tribunale, formula procedure
ben regolate per i processi e per porre fine al ciclo interminabile
delle vendette di sangue. Le antiche personificazioni della furia, le
Erinni, non vengono però cacciate dalla città. Potranno anzi essere
collocate in un posto d’onore, a patto che si trasformino in divinità
benevole, in Eumenidi, nuovi «strumenti di giustizia e di benessere».
Martha Nussbaum ha ben chiaro come la
rabbia qualifichi, oggi, un intero atteggiamento politico nutrito dal
rancore, dalla frustrazione e dal desiderio di rivalsa. D’altra parte il
perdono, a prima vista l’esatto opposto della rabbia, gode in ambito
politico e morale di una popolarità e di un consenso mai registrato
prima fuori dal campo delle dottrine religiose. Tra perdono e rabbia,
però, esiste un legame profondo, una connessione che invita a pensare
entrambe queste emozioni non per come vengono vissute o manifestate, ma
per i loro effetti, per i risultati che raggiungono passando magari
attraverso vie contorte.
Non esiste un solo tipo di rabbia,
precisa Nussbaum, e non tutte le sue forme possono essere declinate in
una chiave costruttiva. C’è una rabbia implacabile di «restituzione»,
che si esprime quando pensiamo che solo il dolore di chi ci ha inflitto
un torto può riparare il danno da lui provocato. Sul piano delle
relazioni private si cerca allora di provocare nella controparte la
sofferenza più acuta possibile, protratta per il tempo il più lungo
possibile, mentre sul piano sociale la rabbia di restituzione rimane
vendicativa e accetta come risarcimento solo la distruzione del
colpevole, con la pena di morte, il carcere a vita, l’evirazione chimica
e così via. In un altro genere di rabbia a essere messo in gioco è il
nostro status: ci sentiamo squalificati, declassati, o anche solo
misconosciuti dal comportamento dell’altro e cerchiamo la sua
umiliazione per ristabilire l’integrità del nostro ruolo. Entrambe
queste forme si autoalimentano e crescono su se stesse senza realmente
trasformare i loro contenuti di partenza. Non si progredisce, non si
risana il torto subito, non si guadagna l’immagine di una dignità
restaurata ma si rimane impantanati nella ripetizione del meccanismo
vendicativo. Si potrà avere una sensazione temporanea di sollievo, ma in
realtà si conduce un gioco delle parti nel quale l’offesa appare sempre
inestinguibile e il desiderio di risarcimento mai sazio.
La rabbia positiva che mira alla
ricostruzione, tanto del Sé offeso quanto dei legami sociali, è quella
che Martha Nussbaum chiama «rabbia di transizione» e che, lungi
dall’autoalimentarsi, trasforma i conflitti e le persone, come nel
passaggio dalle Erinni alle Eumenidi. È una rabbia non priva di
razionalità, è in rapporto esplicito con il polo del perdono e può
diventare persino edificante quando viene rivolta contro l’ingiustizia.
La rabbia degli oppressi e dei ribelli, il sentimento per cui «bisogna
fare qualcosa», è certamente una spinta che Nussbaum riconosce, ma alla
quale non è disposta ad attribuire tratti di nobiltà. In un libro che è
ricchissimo di esempi raccontati e analizzati con maestria, i casi di
Martin Luther King e di Nelson Mandela sono richiamati per mostrare come
persino l’appello strategico alla violenza fosse da collocare, per
loro, «nell’ottica di una transizione verso la collaborazione futura» e,
dunque, «in uno spirito di non-rabbia». Per Mandela, in particolare, la
rinuncia alla vendetta culmina nel perdono come atto rivoluzionario per
eccellenza, gesto pragmatico e costruttivo che ridefinisce la
convivenza civile a un nuovo livello di qualità e di consapevolezza.
Difficile dissentire se si resta nel
dibattito della teoria politica contemporanea, dove sono diffuse le
difese della rabbia come veicolo di affermazione identitaria e le accuse
di debolezza nei confronti del perdono. Resta da chiedersi però quanto
un sentimento così depotenziato, spogliato dei suoi contenuti
pulsionali, possa ancora chiamarsi rabbia o non sia piuttosto l’elemento
di una dialettica interna al gioco degli statuti normativi, per i quali
può avere un’utilità solo la parte non-rabbiosa della rabbia. Martha
Nussbaum smentisce preventivamente chi voglia avvicinare la sua
posizione allo stoicismo romano, per il quale conoscere una passione
equivaleva a elaborare una tecnica per contenerla. Eppure l’esito è
molto simile, il tentativo è quello di funzionalizzare la rabbia fin
dov’è possibile funzionalizzarla e di ricondurla, comunque, a
un’economia dei sentimenti nella quale ogni fattore esplosivo,
incoercibile, ossessivo, viene messo sul conto di divinità primitive
ancora incapaci di trasformarsi in Eumenidi. Non è privo di significato
che l’ambito in cui le tesi di Martha Nussbaum fanno maggior presa
appartiene al mondo dell’arte, perché è nell’arte che la trasfigurazione
della rabbia in perdono può avvenire senza lasciare dietro di sé alcun
resto. La musica, in particolare, fornisce a Martha Nussbaum l’esempio
perfetto di un perdono senza condizioni, senza scopi, senza rabbia,
senza più un giudice che si erga da qualche parte, in un tribunale o
nell’al di là, per valutare il peso delle colpe. Nella Sinfonia n. 2 di
Gustav Mahler per Nussbaum si incarna un momento ideale: «l’escatologia è
sostituita con l’amore terreno, non c’è Paradiso, non c’è Inferno, non
c’è alcun giudizio. Solo amore e creatività».
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