Francesco Guccini
Intervista di Antonio
Gnoli
Perché hai scelto di
ritirarti a vivere qui?
«È l’ ultimo luogo
della mia resistenza: un paese che è stato infanzia e sogno, durezza
e forza. Mi sembrava appropriato sceglierlo come il punto di approdo
di tutta una vita».
Parli di resistenza,
ma in che senso?
«Bisogna resistere: alle
tentazioni inutili e dispersive; al degrado; allo svuotamento. Ma non
sono qui per espiare, sono qui per testimoniare che è ancora
possibile scegliersi una vita a misura».
Il rapporto con il
paese com’ è?
«Direi buono: nessun
assillo, nessuna pretesa di eleggermi a gloria locale. Un tempo,
all’inizio del Novecento, qui vivevano settemila persone, ne sono
rimaste poco meno di millecinquecento. Il paese si è svuotato. Pochi
giovani. Pochi sogni. Poche prospettive. Un tempo qui venivano a
villeggiare. Oggi la gente si vergogna di posti così. La cosa più
desolante è il fiume qui sotto. Era pieno di vita; ma oggi non ci va
più nessuno. Ma lui se ne frega e continua a scorrere lento. C’è
solo un airone cinerino che ogni tanto vola a pelo e poi si pianta in
mezzo. Impalato nell’ acqua, come un assurdo segnale di tristezza».
Sei nato a Pavana?
«No, i miei nonni ci
vivevano. Sono nato a Modena. L’estate venivamo qui a villeggiare.
A Modena sono rimasto fino a vent’ anni. Nel 1960 ci trasferimmo a
Bologna. Mio padre che era impiegato alle poste approfittò di
un’offerta di lavoro. E portò la famiglia con sé».
Pavana, Il Mulino di Guccini
Come erano i rapporti
con tuo padre?
«Poca roba. Era stato in
un campo di concentramento a Ravensbrück vicino ad Amburgo. Non
amava parlarne. Seppi in seguito che con lui c’erano stati Giovanni
Guareschi e Gian Enrico Tedeschi. Fu un uomo duro. Un montanaro.
Scarno di parole e di affetti. Però mi ha sempre lasciato libero di
fare quel che volevo».
Anche la vita del
cantante?
«Mi ha sorpreso quando
accettò senza fiatare la mia scelta. Ma non è mai venuto a sentire
un mio concerto. Io non l’ho mai incoraggiato e lui ha sempre fatto
finta di niente. In fondo se ne è sempre fregato del mio successo».
Anche tua madre stessa
linea di comportamento?
«Meno drastica. Lei una
volta venne a sentirmi cantare. Mi esibivo a Porretta Terme, a pochi
chilometri da qui. Nessun commento, nessuna emozione».
Quando hai cominciato
a cantare?
«Mi pare nel 1964, o giù
di lì. Fu il mio primo contratto di centomila lire al mese. Ora mi
viene in mente l’unico commento di mio padre: quanto durerà? Sai,
era un uomo abituato a dare del voi a mia nonna. La mia musica non
era il suo mondo».
Al tuo mondo come
arrivasti?
«Non fu un percorso
lineare. A Modena mi iscrissi a magistero, feci un solo esame e poi
cominciai a lavorare come assistente in un istituto per orfani di
dipendenti postali. Il collegio era a Pesaro. Non è che fossi
particolarmente entusiasta. Mi licenziarono. Dopodiché divenni
cronista alla Gazzetta di Modena. Anni di precariato, addolciti dal
fatto che la sera con alcuni amici, un piccolo gruppo di orchestrali,
suonavamo nelle balere del parco. Poi venne il militare che ho fatto
con il grado di sottotenente. Infine mi iscrissi nuovamente all’
università. Questa volta a Bologna. Mi mancava la tesi, che avevo
chiesto a Ezio Raimondi. Ma non riuscii a finire. Le canzoni
bussavano alla mia porta».
E tu apristi?
«Erano gli anni
Sessanta, si formavano i primi gruppi musicali con affaccio
nazionale. A Modena venne a suonare l’Equipe 84, sapevano che avevo
scritto qualche canzone. Gli proposi Auschwitz e la presero.
Contemporaneamente avevo dato ai Nomadi Noi non ci saremo. Tieni
conto che non avevo una lira. Oltretutto non essendo iscritto alla
Siae non potevo firmare le mie canzoni».
Guccini e i Nomadi
Finì lì la tua
collaborazione?
«No, ricordo che proposi
alla Equipe Dio è morto, ma rifiutarono per paura che la canzone
facesse troppo casino. Avevo pronta anche Un altro giorno è andato e
Maurizio Vandelli, il leader del gruppo, sentenziò che Guccini non
aveva più un cazzo da dire. E questo atteggiamento fece sì che si
rafforzasse la mia collaborazione con i Nomadi».
Furono loro a cantare
per primi “Dio è morto”.
«La cosa divertente è
che mentre la Rai censurò la canzone, Radio Vaticana la trasmise più
volte, fino a farla diventare un grande successo tra i nuovi
cattolici».
Dietro quella canzone
c’ erano le tue fascinazioni americane.
«A che ti riferisci?».
Con ogni evidenza a
“Urlo” di Allen Ginsberg.
«Sì, la Beat Generation
è stata importante, ma una canzone è pur sempre una canzone: un
prodotto autonomo. Ed è inutile appesantirla di significati
letterari. Anche se ho un’ amica, grande esperta delle tragedie di
Alfieri, che sta facendo un lavoro da critica letteraria sulle mie
canzoni».
E tu come hai reagito?
«Beh, che devo dirti: mi
fa piacere sapere che le mie non sono solo canzonette. La verità è
che quando si parla di Guccini alla fine è per una decina di canzoni
che ha scritto».
Come giudichi le tue
prime?
«Tecnicamente parlando
Auschwitz e Dio è morto non sono belle canzoni. Sono testi piuttosto
semplici. Ne ho realizzate di più complesse».
Come è nata “La
locomotiva”?
«Per delle strane
combinazioni. Lessi le memorie bolognesi di Romolo Bianconi, un
lavoratore che raccontando la sua vita scrisse di un ferroviere
anarchico, Pietro Rigosi, cui avevano amputato una gamba che decise
di impadronirsi di un treno per farlo saltare. Fu una ballata, contro
le ingiustizie sociali, che scrissi in mezz’ ora. Arrivai alla fine
e mi accorsi che mancava l’ ultima e la prima strofa: “Non so che
viso avesse e neppure come si chiamava…”. In quel periodo
cominciai a cantarla alla Osteria delle Dame».
È stata una canzone
emblema che ti ha identificato con il Sessantotto. Che giudizio dai
di quel momento?
«Per me è stato un
periodo positivo. Sono cambiate molte cose, a cominciare nei rapporti
tra i due sessi. Penso che il ’68 ha trasformato la società».
Migliorandola?
«In certe cose sì, in
altre no. Se penso alla scuola e all’ università vedo i disastri
che la morte del merito ha provocato. Non ci siamo ancora ripresi».
Le canzoni fanno la
rivoluzione?
«Non scherziamo, al più
la accompagnano come nel caso di Bandiera rossa. Un canto
tecnicamente brutto, ma messo in un certo contesto può perfino
commuovere».
Ti commuove ripensare
a una canzone come “Eskimo”?
«Un altro emblema di
quel periodo, ma del tutto involontario. Comprai l’ indumento nel
1963 al mercatino di Trieste. Avevo finito il militare. Costò
diecimila lire e veniva indossato dai soldati americani nella guerra
di Corea. Anni dopo mi sono ritrovato in un mondo di eskimo. Ma ti
assicuro che il mio era innocente. No, non mi commuove, semmai mi dà
emozione una canzone come Incontro ».
“I nostri miti morti
ormai…” così scrivevi.
«Era la storia di un’
amicizia tra un uomo e una donna».
Ho sempre pensato che
fosse una tua storia d’ amore.
«Parlava di una ragazza
che ora vive negli Stati Uniti e che allora viveva a Modena. C’ era
molta complicità tra noi. Poi si trasferì a Bologna. Sposò un
americano. E sparì per un po’ di tempo. Un giorno mi telefonò per
dirmi che il matrimonio era andato a pezzi e lei lo aveva lasciato.
Lui si uccise. E a me venne in mente di scriverci su una canzone ».
Ti piacciono i
ricordi?
«Sono uno che ricorda
spesso. La memoria è un bel motore che mi ha consentito anche di
scrivere diversi libri. Tre romanzi che hanno al centro
rispettivamente Pavana, Modena e Bologna. Ricordo meglio il passato
remoto e non è male che certe cose rimangono e altre spariscono».
Perché hai lasciato
Bologna?
«Era un’ altra vita.
Qui a Pavana vado a letto alle undici di sera. A Bologna rincasavo
alle cinque del mattino».
Musica, cibo e vino.
«Anche donne e carte.
Giocavamo in osteria fino a notte fonda. Senza mai mettere in palio
nulla: neppure un caffè».
Hai pubblicato da poco
la raccolta delle canzoni che cantavi all’ Osteria delle Dame.
«Sono tre cd che
racchiudono una manciata di anni. Quando pochi mesi fa sono tornato
alle “Dame” mi sono commosso. Ma è stato come vedere un altro
Guccini».
Un altro in che senso?
«Ho smesso di scrivere
canzoni. Da anni non tocco più la chitarra. Tira tu le conclusioni».
Hai smesso con quale
giustificazione?
«Mi sono accorto che le
canzoni non uscivano più con la stessa voglia e intensità. Facevo
sempre più fatica a riempire un album. E ho capito una cosa
semplice: non ho più niente da dire. Almeno su quel versante là».
Come hai vissuto
questa rinuncia?
«All’inizio male, poi
mi sono abituato. Ho perfino tentato di riprendere. Ho scritto una
nuova canzone per i Nomadi. Ma preferisco scrivere libri. Con Loriano
Macchiavelli siamo all’ottavo giallo. E poi ci sono i miei
romanzi».
Scusa se insisto, ma
chiudere una porta così importante come la musica non ti dà dolore?
«No, mi dà dolore o
angoscia non avere più l’ età che avevo. E guarda non avevo
neanche la paura di fallire. Se le canzoni venivano, bene sennò
pazienza».
Quindi ti sei ritirato
qui a Pavana.
«Un posto che amo. Anche
Bologna è stata molto importante».
Chi vedevi a Bologna,
di chi eri amico?
«Le osterie erano porti
di mare. Ti arrivavano attutite queste onde umane».
Frequentavi Augusto
Daolio, il leader storico dei Nomadi?
«Non molto, ero più
legato a Beppe Carletti. Frequentavo Claudio Lolli. Sono amico di
Zucchero e di Ligabue, molto diversi ma con una base contadina in
comune. Poi c’ era Lucio Dalla che veniva qualche volta a mangiare
da Vito. Odiava la campagna. Mi diceva: ma cosa vai a fare a Pavana?
Niente che ti piaccia, gli rispondevo».
A Bologna ne hanno
fatto un mito.
«Sai quando uno muore è
facile che diventi un mito o un aspirante mito. Lucio era uno strano
personaggio. Eravamo molto diversi, due mentalità diverse. E credo
che non abbiamo mai legato veramente. Aveva una capacità
polimorfica; però alla fine anche lui faceva una certa fatica a
scrivere canzoni. Era dotato di una voce secondo me bellissima».
Ti dà fastidio
rievocare certe cose?
«No, anzi. Mi dà
fastidio la richiesta di foto, i selfie che non sopporto. Ma cerco di
essere gentile».
Che cos’ è la
sopportazione?
«È l’ arte di non
incazzarsi. E poi, dopo una certa età, si sopportano molte più
cose».
Alludi alla tua
vecchiaia?
«Se ne va poco per volta
la prestanza fisica, arrivano gli acciacchi. Oggi faccio fatica a
camminare e non ci vedo quasi più. Non riesco a leggere e ho bisogno
di qualcuno che lo faccia per me».
Siamo a conversare
nella tua cucina. Che rapporto hai con il cibo?
«Non sono quel che si
dice un raffinato gourmet. Mi piace la cucina dei miei nonni. Non se
ne può più di questi chef, che se uno perde una ” stella”
scoppia una tragedia. Sono un uomo semplice di gusti semplici».
Hai scritto una
bellissima canzone sui vecchi.
«Adesso sarebbe pura
autobiografia».
Quanto ti piaci?
«Poco. Non ho orgoglio
di me né autostima. Deve essere stata l’educazione repressiva di
mio padre. Solo verso la fine della sua vita ci siamo incontrati
veramente. Un giorno mi disse: avrei tanto voluto che tu facessi lo
storico. E invece sono uno che ha scritto canzoni. Ma lui, intendo
mio padre, avrebbe voluto fare il maestro. Finì in un ufficio
postale. Non sempre le vite corrispondono ai nostri desideri».
La Repubblica/Robinson – 31 dicembre
2017
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