30 gennaio 2018

IN MEMORIA DI CRISTINA CAMPO 2

La danza della libellula. In memoria di Cristina Campo

di Rossella Farnese

1977 – 2018. Quarantuno anni dopo la morte di Cristina Campo (Roma, 10 gennaio 1977), quarantuno anni dopo la morte di «quell’anacoreta sul tappeto volante» – così il titolo di un articolo di Doriano Fasoli del 10 settembre 1989 su «Paese sera» ‒ quarantuno anni dopo la morte di una «trappista della parola» – questa una definizione di Cristina De Stefano nella romanzata biografia Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo ‒ cosa resta?

Cristina Campo è una figura eccezionale che brilla solitaria nel panorama culturale italiano, la sua voce è cristallina, il suo pensiero altissimo, il suo orecchio assoluto, il suo occhio un’ape, il suo mondo quello delle fiabe: «Due mondi – e io vengo dall’altro» è l’incipit di Diario bizantino, apparso per la prima volta postumo, nel 1977, su «Conoscenza religiosa» nel numero che annuncia la morte della scrittrice e ora contenuto nel volume di poesie e traduzioni, La Tigre Assenza (Milano, Adelphi, 1991).
Distacco, nobiltà e assenza caratterizzano Cristina Campo, fiore indefinibile, imparagonabile e imperdonabile – per usare un’etichetta che lei medesima adotta in un saggio, Gli imperdonabili appunto, nell’omonimo volume, dedicato a Marianne Moore, Gottfried Benn e Hugo von Hofmannsthal e che Laura Boella, volgendola al femminile, applicherà anche alla Campo stessa, nel testo Le imperdonabili. Milena Jesenská, EttyHillesum, Marina Cveateva, IngeborgbBachman, Cristina Campo (Mimesis, 2013). La vicenda campiana è un destino di anonimato per via dell’irriducibilità al proprio tempo: negli anni Cinquanta-Sessanta, tra tardo neorealismo e neo-avanguardia, tra impegno sociale e poesia schizofrenico-schizomorfa, Cristina Campo è l’anti-Presente, l’inattuale, la dissidente; Roberto Calasso dice a riguardo che «aborriva ogni spiffero di avanguardia».
Si pensi ad esempio che nel 1956, anno dell’uscita della prima raccolta poetica campiana, Passo d’addio (Milano, Scheiwiller, All’Insegna del Pesce d’Oro), vede la luce Laborintus di Edoardo Sanguineti.
Appassionata della bellezza e smaniosa di perfezione, la Campo ha una tensione spirituale di tipo dostoevskiano, nel suo pellegrinaggio terrestre cerca il pensiero e l’anima, compie un itinerarium in Deum, verso il centro immobile della propria vita, le cui «vere radici erano in cielo e non sulla terra» – secondo una definizione di Arnaldo Pini in occasione del convegno campiano svoltosi a Firenze nel gennaio 1997 ‒e questa quêtesi traduce in un incessante lavoro di scavo, di lima, di frammento, di silenzio: la poesia è per sé, lo stile è nudo, la parola è un cammeo.
Cristina Campo è una sacerdotessa delle Muse che le diedero il privilegio bruciante, trafiggente e irrinunciabile della bellezza cosicché tutta la sua vita e tutta la sua opera sono caratterizzate dalla dedizione a un assoluto, l’assoluto della bellezza. Nell’Intervista in occasione della pubblicazione di Il flauto e il tappeto (Milano, Rusconi, 1971), riportata in Sotto falso nome, la Campo definisce la bellezza
…un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino. Si può senza dubbio chiamare “esorcismo” questo attrarre, per mezzo di figure, lo spirito, che di certe cose ha sempre una grande paura. Questo fanno i miti. Questo dovrebbe fare la poesia.
E del resto in tutta l’opera campiana riecheggiano i celebri versi conclusivi dell’Ode on a Grecian Urn(1819) di John Keats:
Beauty is Truth, Truth Beauty, – that is all
Ye know on earth, and allyeneed to know
A questo proposito abbiamo dialogato con il professor Arturo Donati, poeta, saggista, gestore del sito ufficiale e promotore di eventi culturali legati a Cristina Campo.

Cosa ne pensa del rapporto tra letteratura, bellezza e verità?
Se la letteratura viene intesa quale narrazione sorgiva della verità allora la bellezza letteraria appartiene tutta alla stessa verità in senso propedeutico ed è questo il compito mistico-misterico assolto in origine dalla fiaba. Se invece scindiamo, come spesso accade nel postmoderno, il rapporto tra verità e bellezza, impoverendola con l’autonomia estetica, allora la letteratura raccoglie e veicola contenuti di bellezza autoappaganti. Pertanto la letteratura può, in forza della stessa bellezza, distaccarsi dalla verità. In termini campiani, come possiamo desumere dal saggio breve dedicato a Proust, Lessources de la Vivonne, la letteratura può esprimere, anche nella dimensione contemporanea, una felice coniugazione tra verità e bellezza, possibile nella plasticità della forma narrativa, quando la narrazione mantiene l’intensità poetica della soggettività che offre “…il lutto del cuore…alla misura illusoria dell’universo…”, riconducendo il lettore sulla soglia rigenerante dello stupore. Per accostarsi alla verità servono ma non bastano le parole, occorrono visioni.

Nel saggio Con lievi mani, inglobato nella raccolta Gli imperdonabili, Campo tratta della sprezzatura: «La sprezzatura è arte […] è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore, è il tempo nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino […] è la delicata, feroce geometria che rende possibile la danza della libellula».
Nell’accezione originaria rinascimentale riconducibile al notissimo Libro del cortegiano di Baldassar Castiglione, il compito etico di reggenza è assicurato dalla padronanza, possibile grazie a un’alterità, conquistata con esercizio e passione indifferente alla volgarità, sino al punto di mostrar facile l’espletamento dei compiti più difficili. In senso letterario tale facoltà corrisponde all’esercizio proprio di uno stile, possibile per la forza interna del linguaggio, disciplinato dal bello che consente l’elargizione della grazia. Accostandoci alle tematiche campiane, la radice della credibilità di un linguaggio nasce dall’attenzione, quando coglie le sedimentazioni dei significati che sottendono alle parole. L’attenzione presuppone una distrazione dall’ordinario, possibile grazie al senso della trascendenza, al rifiuto dell’immediatezza espressiva che eluda il vaglio della perfezione a cui sottoporre la sorgiva parola poetica e al linguaggio del critico se emulo dell’arte dell’orefice.

Articolo ripreso dal sito  

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