Contro la tesi di
Althusser della scuola come luogo di riproduzione e diffusione delle
idee della classe dominante, Massimo Baldacci ripropone nel suo
ultimo libro la visione gramsciana dell'educazione come campo
fondamentale di lotta per l'egemonia.
Come ho cercato di mostrare nella mia tesi di laurea - Educazione e socialismo nel giovane Gramsci, Palermo 1975 - il grande sardo recupera e sviluppa una tesi di Tasca già duramente avversata da
Bordiga che nel 1911-12 l'aveva combattuta nella federazione
giovanile socialista come “culturalismo”.
Donatello Santarone
Praxis e educazione in Gramsci
Il libro di Massimo Baldacci, Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci (Carocci, pp. 276, euro 27), riempie un vuoto di conoscenza sul pensiero pedagogico di Antonio Gramsci che durava, in Italia, dagli anni Sessanta-Settanta, da quando cioè su tale questione apparvero i primi fondamentali studi di Urbani, Manacorda e Broccoli (seguiti poi da quelli di Ragazzini).
Massimo Baldacci, docente di Pedagogia generale all’università di Urbino, parte da questa importante tradizione di studi per riproporne l’eredità più feconda ma anche per introdurre con maggior vigore un nesso fondamentale tra tutto il pensiero di Gramsci interamente innervato dalla filosofia della praxis, cioè da una originale e creativa forma di marxismo, e la dimensione pedagogica, che è politica e culturale, del suo pensiero. Il tutto per rispondere a una cruciale domanda educativa del presente: come fare per liberare la mente dalle scorie nocive del pensiero neoliberale che penetra nella forma di un suadente senso comune che rende passivi e docili i soggetti.
Tutta la ricerca di Baldacci e il suo attuale impegno nella denuncia degli aspetti mercantili delle politiche scolastiche e universitarie avviate dagli anni Novanta nasce da qui. Pensare la scuola e l’educazione in modo gramsciano significa per l’autore porsi il problema di come modificare la soggettività dei subalterni, come far arrivare in alto chi sta in basso (per dirla con Brecht), come far diventare governanti i governati. Insomma, pensare all’educazione come una lotta egemonica di tipo pedagogico-culturale per andare, come recita il titolo del libro, oltre la subalternità.
Su tutto questo la miniera inesauribile dei Quaderni e delle Lettere rappresenta ancora oggi una fertile cassetta degli attrezzi che Baldacci rovista con profonda competenza partendo da quello che egli definisce il postulato pedagogico di Gramsci riassunto in queste parole del rivoluzionario sardo: «Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico». Un’egemonia vista sempre nella sua contraddittoria dialettica di direzione e dominio, consenso e forza. La stessa che caratterizza anche il processo educativo, fatto non idealisticamente di buoni sentimenti da dispensare, ma caratterizzato da un nesso inestricabile di autorità e spontaneità, necessità e libertà, norma e infrazione della norma.
«Si deve riconoscere a Gramsci – scrive Baldacci – una profonda onestà intellettuale, oltre a uno spiccato realismo, perché la tendenza dominante nella pedagogia è sempre stata quella di semplificare o mascherare l’ambiguità del rapporto educativo, nascondendo o edulcorando il suo lato coercitivo, per enfatizzare la dimensione dell’amore reciproco educatore/educando.
Sarà Manacorda a evidenziare questo aspetto del pensiero di Gramsci», in particolare attraverso la fondamentale categoria del conformismo dinamico. Rispetto ai contributi di Mario Alighiero Manacorda, del quale restano insuperabili non solo gli studi sul comunista sardo ma anche quelli su Marx e in generale sul marxismo e l’educazione, la posizione di Baldacci è critica in quello che definisce un certo economicismo di Manacorda, in particolare nell’enfatizzazione degli aspetti legati al nesso educazione-americanismo-conformismo. Ci sono certamente, in questa critica, elementi di verità, ma bisogna considerare la necessità avvertita da Manacorda di contrastare una certa lettura culturalista di Gramsci e di farlo proprio in nome dell’indiscutibile nesso che c’è tra le riflessioni pedagogiche di Marx e quelle di Gramsci.
Molto pertinente appare, invece, la critica che Baldacci rivolge alla posizione adialettica di Althusser che vede l’apparato educativo solo come luogo di mera riproduzione delle idee delle classi dominanti, non cogliendo la dimensione contraddittoria dei sistemi educativi attraversati invece, secondo Gramsci, da dure lotte egemoniche, da quelle che gli statunitensi chiamano guerre culturali. E molto acutamente, parlando della nozione gramsciana di apparato egemonico, Baldacci scrive in una nota che tale nozione «sembra maggiormente vicina al concetto di campo di Bourdieu – come realtà attraversata da forze contrastanti – che non a quello althusseriano di apparati ideologici di Stato».
Un'ultima fondamentale questione è il nesso tra educazione e filosofia della praxis. Si tratta di uno degli aspetti centrali dell’interpretazione di Baldacci il quale giustamente sostiene che il progetto emancipativo insito nei processi educativi è tale per Gramsci solo se si lega a una prospettiva di liberazione umana che prende il nome di comunismo e si connette, sul piano teorico, con la filosofia della praxis.
Questo perché in Gramsci, e in generale in tutta la tradizione del marxismo pedagogico, l’educazione non è un’entità disincarnata dai rapporti di produzione e dai conflitti di classe, ma è, come tutte le dimensioni dello spirito, espressione in ultima analisi di determinati rapporti storici tra governanti e governati. Anche in questo per il pensatore sardo la lezione di Marx è fondamentale, in particolare nella scoperta della dialettica inesauribile tra dimensione simbolica e dimensione socioeconomica le quali, a dispetto di una certa tradizione interpretativa caricaturale del pensiero di Marx, non sono mai meccanicamente effetto l’una dell’altra ma vivono dinamicamente come momenti di uno stesso processo storico e umano.
il manifesto - 26 gennaio 2018
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