Parlare di lingua vuol dire davvero fare politica. (A un anno dalla morte di Tullio De Mauro)
di Vanessa Roghi
Nel 1963 Tullio De Mauro pubblica la Storia linguistica dell’Italia unita con
l’editore Laterza. Non c’è bisogno di ricordare, ancora una volta,
quanto questo libro abbia rivoluzionato lo sguardo sulla lingua e, più
in generale, sulla società italiana in un Paese in bilico fra spinte
conservatrici e riformiste.
La
lingua non è l’energia elettrica che si nazionalizza, né la scuola
dell’obbligo, che si rende più comprensiva; far passare l’idea che la
lingua sia un processo, e che in quanto tale sia passibile di scelte
politiche, è essa stessa una vera rivoluzione. La Storia linguistica dell’Italia unita è
una scossa nei confronti di chi, Manzoni (frainteso) alla mano,
vorrebbe che per l’italiano esistesse una formula unica, da replicare a
prescindere dalle trasformazioni storiche e sociali. Ma, secondo De
Mauro, «la formula manzoniana
racchiudeva ben altro insegnamento che non la famosissima prescrizione
di seguire l’uso della parlata fiorentina, quale fu pedissequamente
applicata dal ‘manzonismo de gli stenterelli’ e ingenuamente teorizzata
dal De Amicis ne L’idioma gentile. Essa poneva in realtà e inverava, col
più autorevole esempio, il gran principio del ‘riferirsi al linguaggio
parlato come a mezzo di controllo del patrimonio linguistico
tradizionale’».
Riferirsi al linguaggio parlato come a mezzo di controllo del patrimonio linguistico tradizionale, vale la pena sottolinearlo.
Nella Storia liguistica,
ha scritto Tullio De Mauro, «spiegavo la saldatura, che regnava in
Italia, tra redditi, scolarità, capacità di usare la lingua italiana. Il
libro, l’ho raccontato altrove, se posizioni ideologiche supponeva,
supponeva quelle di ‘Nord e Sud’, del ‘Mondo’, dei liberali di sinistra.
Ma qualcuno che lo lesse come giudice di un concorso disse: ‘Opera più
che di studioso di agitatore comunista’. Comunista io? Mai sia! Ma già
Leonardo Sciascia aveva scritto nelle Parrocchie di Regalpetra su quanto poco bastava – bastava? – in Italia per essere ritenuto un pericoloso sovversivo».
Eppure,
nel 1963 la questione della lingua è una questione «sovversiva», di
attualità stringente, e non è un caso che il libro di De Mauro esca lo
stesso anno nel quale le medie unificate diventano finalmente una
realtà. Parlare di lingua significa davvero fare politica. De Mauro
sottolinea come, nel corso degli anni Cinquanta, ma soprattutto con la
riforma delle scuole medie, si sono avvicinati all’istruzione centinaia
di migliaia di ragazzi e ragazze nelle cui famiglie non esisteva un
libro, non esisteva l’abitudine di leggere i giornali, non esisteva la
pratica del parlare italiano. Ragazzi e ragazze per i quali,
nell’ambiente extrascolastico, la sola voce italiana è stata la
televisione. La scuola è andata incontro a questi ragazzi e ragazze con
la stessa mentalità e gli stessi metodi in uso in altri tempi.
Limitare
l’insegnamento dell’italiano alle storture della vecchia analisi logica
è certamente inutile, antipedagogico, dannoso; limitare tale
insegnamento a una mera analisi riflessa, scientificamente qualificata –
posto che sia pedagogicamente possibile – è certamente insufficiente:
«se la scuola dell’obbligo si limitasse a questo, se non provvedesse a
insegnare soprattutto parole e costrutti, capacità di discutere in pubblico
e in privato e capacità di leggere e sintetizzare rapidamente, se,
insomma, non provvedesse a dare e irrobustire il possesso effettivo
della lingua, essa contribuirebbe a tenere gli alunni dei più bassi
livelli socioeconomici e socioculturali ai margini della vita associata e
delle scelte decisive per la collettività nazionale».
Tutti
gli insegnanti possono insegnare qualche regola, ma chi, si domanda De
Mauro, può pensare l’insegnamento come quel momento nel quale il
lessico, la frase, si arricchisce e si arricchisce in modo funzionale,
per essere usata, in modo pronto e sicuro? Chi può cogliere la
differenza sociale fra i ragazzi e rendere questo diverso patrimonio
fonte di ricchezza e non di deprivazione?
Domande che in quel volgere di decennio suonano drammaticamente urgenti.
Molti sono gli insegnati che si trovano spaesati di fronte alla riforma della media unica del 1962.
Ma
il problema degli insegnanti di italiano nella nuova scuola di massa e
democratica non è restare o meno ancorati a certe regole grammaticali, a
modelli letterari; non è neanche accettare novità sintattiche o
fonetiche, dialettali, sperimentali, avanguardistiche come vorrebbe oggi
una certa storiografia che vede nell’allargamento della base sociale
del paese un limite e non un’opportunità. Il problema degli insegnanti è
anche e soprattutto insegnare a tutti parole uguali. «Quella lingua
comune ci appare come un miracolo ma si potrà raggiungere soltanto […]
se negli istituti magistrali e nelle facoltà di lettere e di magistero
si insegnerà veramente come si insegna veramente a parlare e a scrivere
in italiano» scrive il linguista Oronzo Parlangèli a margine del
dibattito sulla lingua italiana. Tra dicembre 1964 e la primavera 1965
la questione della lingua torna ad essere di nuovo, prepotentemente,
sulla stampa quotidiana, un argomento di discussione. Non è la prima
volta che gli italiani e le italiane, dalle pagine dei giornali, sentono
parlare dei loro concreti problemi linguistici. Ma è sicuramente la
prima volta che il dibattito riguarda una massa di persone così vasta,
perché così vasta è la quantità di persone che questo dibattito riescono
a leggere. Sull’«Espresso», sulla «Gazzetta del Mezzogiorno», sul
«Giorno» e sul «Corriere della Sera», su «Rinascita» e sul
«Contemporaneo», in televisione e alla radio, si parla della lingua
degli italiani.
I
termini della discussione sono termini concreti, che riflettono le
trasformazioni sociali del Paese più di ogni ragionamento sull’economia,
o meglio, come ogni buon ragionamento sull’economia, perché pensare
alla lingua significa pensare, appunto, alle classi sociali, e alla
possibilità che le stesse hanno di capirsi
Rispunta,
come previsto da Antonio Gramsci molti anni prima, la questione della
lingua, anzi, una «nuova» questione della lingua. Connaturata alla
nascita stessa dello Stato nazionale, era stato il ministro Emilio
Broglio a inserirla come questione centrale della scuola italiana. Così,
se Gino Capponi aveva affermato: «La lingua in Italia sarà quello che
sapranno essere gli Italiani», ora il punto era davvero domandarsi di
quale lingua e di quali italiani si stava parlando.
Tullio De Mauro in quel lontano 1963 poneva le basi di questa discussione che ancora oggi ci riguarda.
Estratto da La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro il potere delle parole, Laterza 2017)
Testo ripreso da minima&moralia , 5 gennaio 2018
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