Franco Fortini è
stato, insieme a Calvino e Pasolini, l’ultimo dei nostri classici
Come loro credeva che non esistono cultura e letteratura senza un
passato da conoscere e reinventare. Ora una sua antologia critica ce
lo fa riscoprire.
Alberto Asor Rosa
La lezione di Fortini
senza la poesia cos’altro resta?
Appare presso
l’editore Donzelli un’antologia de I poeti italiani del
Novecento, di Franco Fortini, riproduzione del capitolo a tale
soggetto da lui dedicato nella grande sintesi La letteratura
italiana. Storia e testi, diretta da Carlo Muscetta per l’editore
Laterza (1977). Anche il saggio introduttivo di Pier Vincenzo
Mengaldo, il critico e saggista con cui Fortini ebbe intensi
rapporti, è coevo (1979).
Attuale è invece l’acuta
postfazione di Donatello Santarone. Prima di dire qualcosa sulle
scelte che costituiscono le premesse e i criteri guida dell’oggetto
di questo nostro discorso, vorrei però richiamare qualche nozione e
considerazione sull’autore. Franco Fortini è un autore attualmente
troppo dimenticato (non a caso, forse: rappresenta un’altra
stagione, a cui siamo diventati lentamente estranei).
Anche recentemente ho
scritto, nei miei tentativi di ricostruzione storico-letteraria del
Novecento italiano, che una fase della nostra attuale evoluzione
letteraria si chiude sostanzialmente — nel senso letterale del
termine — con la presenza e l’opera di tre nostri scrittori e/o
poeti, che io definirei appunto gli ultimi classici, e sono Pier
Paolo Pasolini, Italo Calvino e Franco Fortini. In che senso
“classici”? In un duplice senso.
Innanzi tutto perché i tre coltivano ancora l’idea che l’operazione letteraria e, più specificamente ancora, quella poetica, non può non riallacciarsi continuamente, anche criticamente, s’intende, ma sempre creativamente, a tutto ciò che l’ha preceduta: è quel che comunemente si definisce la questione della “tradizione”.
In
secondo luogo, perché, come tutti i classici che si rispettano, essi
pensano che l’operazione letteraria rappresenti uno strumento
formidabile di azione sul mondo, agisca sulle coscienze, ne muti i
connotati, riesca a diventare un’opzione fra le più decisive di
“qualificazione” della vita umana. Di tutto ciò, io penso, oggi
non c’è più traccia: il che costituisce un motivo di
distanziamento forte nei confronti dei tre “classici”, al di là
di alcune mentite apparenze.
I tre, s’intende, hanno poi praticato i due sensi in modi profondamente diversi. Fortini, in quanto saggista, ha esplorato con tenacia la modalità con cui un’ideologia generale di conoscenza e interpretazione del mondo — nel caso suo il marxismo — avrebbe potuto infondere nuova linfa nel tessuto ormai troppo logoro e precario dei meccanismi intellettuali e culturali odierni.
Come dimenticare a questo proposito un libro straordinario come Verifica dei poteri (1965)? Ad onta di certe pungenti riserve, manifestate con estremistica e giovanile presunzione quando il libro apparve, non esiterei a dire oggi che l’esperimento, sul piano storico, forse non ha eguali. Ma ormai da molti anni, anche prima che morisse, non ho più nutrito dubbi che il vero, grande Fortini, il “classico” appunto, sia il poeta, non a caso collegato, oltre che alla tradizione novecentesca italiana, a molti rami di quella europea, da Bertolt Brecht a Charles Baudelaire a Paul Eluard. Tra le raccolte sue apparse nel tempo suggerirei oggi Una volta per sempre (1973), un comodo e riassuntivo Versi scelti (che arriva fino del 1989), fino allo straordinario e conclusivo Composita solvantur (1994).
Con questi riferimenti alla sua poesia andiamo avvicinandoci anche al Fortini curatore dell’antologia da cui abbiamo preso le mosse. In Fortini la poesia rappresenta il tentativo di trovare una “lingua comune”, però a partire da una esperienza fortemente personale, anzi quasi unica. Non è sempre così che fa la poesia? Sì, certo. Solo che Fortini applica la formula universale, tentando di rendere più percepibili — a un lettore contemporaneo, incerto, deluso e per usare una vecchia formula adeguata al caso, alienato — i due termini della questione. Il ragionamento sull’antologia donzelliana parte da qui.
L’esposizione storica, l’interpretazione dei testi, i raggruppamenti storici degli autori sono impeccabili e chiarissimi. Se si trattasse invece d’indicare le linee fondamentali delle sue preferenze e delle sue scelte, direi che Fortini è lontano dal punto supremo raggiunto, secondo l’opinione comune, dalla poesia italiana del Novecento e cioè l’algida perfezione di Eugenio Montale, e dei suoi seguaci (con qualche non insignificante apertura, però, nei confronti di Mario Luzi). Per capire rapidamente la posizione di Fortini, interprete e antologista, io citerei due nomi, l’uno all’inizio, l’altro alla fine del suo percorso: Clemente Rebora e Andrea Zanzotto.
Clemente Rebora
Chi era Clemente Rebora?
Ligure, nato laico e morto nelle vesti di tormentato sacerdote
cattolico, lasciò una mole non consistente di versi, in cui cercò
di conciliare la sua vena lirica profonda con un’esposizione di
verità sapienziali, di volta in volta religiose, sociali o
etico-psicologiche. Ora un ricordo personale che può servire
sinteticamente a far capire molte cose. Quando io elaborai il
progetto, che doveva dar vita alla sezione delle Opere della
Letteratura italiana Einaudi, interpellai Franco Fortini per la
poesia italiana del Novecento, lasciandolo libero di scegliere un
autore e un testo: Fortini senza esitazioni scelse i Frammenti lirici
di Clemente Rebora. Scelta non da poco, mi pare.
Andrea Zanzotto, il grande poeta veneto, anche lui appartato e, come dire, reclino su se stesso, piuttosto che aperto indiscriminatamente verso il mondo, chiude nel senso letterale del termine l’esposizione antologica fortiniana, e non solo, io penso, per motivi cronologici.
Anche lui, infatti, come scrive Fortini nelle pagine di commento ai testi, ma forse pensando a se stesso, «la poesia… è poesia di riflessione filosofico-esistenziale e autobiografica», però «vibrata nei modi del sarcasmo intellettuale».
Il poeta cioè anche in questo caso vuol dire la sostanza; ma con l’illusione, e la ricerca, di dirla «seguendo una linea media fra coscienza e incoscienza». Siamo nell’iperuranio di una scommessa linguistico-storica, a cui anche Franco Fortini ha ampiamente attinto.
La Repubblica – 8
gennaio 2018
Nessun commento:
Posta un commento