10 gennaio 2018

ASOR ROSA RILEGGE FORTINI


Franco Fortini è stato, insieme a Calvino e Pasolini, l’ultimo dei nostri classici Come loro credeva che non esistono cultura e letteratura senza un passato da conoscere e reinventare. Ora una sua antologia critica ce lo fa riscoprire.

Alberto Asor Rosa

La lezione di Fortini senza la poesia cos’altro resta?

Appare presso l’editore Donzelli un’antologia de I poeti italiani del Novecento, di Franco Fortini, riproduzione del capitolo a tale soggetto da lui dedicato nella grande sintesi La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da Carlo Muscetta per l’editore Laterza (1977). Anche il saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo, il critico e saggista con cui Fortini ebbe intensi rapporti, è coevo (1979).

Attuale è invece l’acuta postfazione di Donatello Santarone. Prima di dire qualcosa sulle scelte che costituiscono le premesse e i criteri guida dell’oggetto di questo nostro discorso, vorrei però richiamare qualche nozione e considerazione sull’autore. Franco Fortini è un autore attualmente troppo dimenticato (non a caso, forse: rappresenta un’altra stagione, a cui siamo diventati lentamente estranei).

Anche recentemente ho scritto, nei miei tentativi di ricostruzione storico-letteraria del Novecento italiano, che una fase della nostra attuale evoluzione letteraria si chiude sostanzialmente — nel senso letterale del termine — con la presenza e l’opera di tre nostri scrittori e/o poeti, che io definirei appunto gli ultimi classici, e sono Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Franco Fortini. In che senso “classici”? In un duplice senso.

Innanzi tutto perché i tre coltivano ancora l’idea che l’operazione letteraria e, più specificamente ancora, quella poetica, non può non riallacciarsi continuamente, anche criticamente, s’intende, ma sempre creativamente, a tutto ciò che l’ha preceduta: è quel che comunemente si definisce la questione della “tradizione”. 
In secondo luogo, perché, come tutti i classici che si rispettano, essi pensano che l’operazione letteraria rappresenti uno strumento formidabile di azione sul mondo, agisca sulle coscienze, ne muti i connotati, riesca a diventare un’opzione fra le più decisive di “qualificazione” della vita umana. Di tutto ciò, io penso, oggi non c’è più traccia: il che costituisce un motivo di distanziamento forte nei confronti dei tre “classici”, al di là di alcune mentite apparenze.

I tre, s’intende, hanno poi praticato i due sensi in modi profondamente diversi. Fortini, in quanto saggista, ha esplorato con tenacia la modalità con cui un’ideologia generale di conoscenza e interpretazione del mondo — nel caso suo il marxismo — avrebbe potuto infondere nuova linfa nel tessuto ormai troppo logoro e precario dei meccanismi intellettuali e culturali odierni.

Come dimenticare a questo proposito un libro straordinario come Verifica dei poteri (1965)? Ad onta di certe pungenti riserve, manifestate con estremistica e giovanile presunzione quando il libro apparve, non esiterei a dire oggi che l’esperimento, sul piano storico, forse non ha eguali. Ma ormai da molti anni, anche prima che morisse, non ho più nutrito dubbi che il vero, grande Fortini, il “classico” appunto, sia il poeta, non a caso collegato, oltre che alla tradizione novecentesca italiana, a molti rami di quella europea, da Bertolt Brecht a Charles Baudelaire a Paul Eluard. Tra le raccolte sue apparse nel tempo suggerirei oggi Una volta per sempre (1973), un comodo e riassuntivo Versi scelti (che arriva fino del 1989), fino allo straordinario e conclusivo Composita solvantur (1994).

Con questi riferimenti alla sua poesia andiamo avvicinandoci anche al Fortini curatore dell’antologia da cui abbiamo preso le mosse. In Fortini la poesia rappresenta il tentativo di trovare una “lingua comune”, però a partire da una esperienza fortemente personale, anzi quasi unica. Non è sempre così che fa la poesia? Sì, certo. Solo che Fortini applica la formula universale, tentando di rendere più percepibili — a un lettore contemporaneo, incerto, deluso e per usare una vecchia formula adeguata al caso, alienato — i due termini della questione. Il ragionamento sull’antologia donzelliana parte da qui.

L’esposizione storica, l’interpretazione dei testi, i raggruppamenti storici degli autori sono impeccabili e chiarissimi. Se si trattasse invece d’indicare le linee fondamentali delle sue preferenze e delle sue scelte, direi che Fortini è lontano dal punto supremo raggiunto, secondo l’opinione comune, dalla poesia italiana del Novecento e cioè l’algida perfezione di Eugenio Montale, e dei suoi seguaci (con qualche non insignificante apertura, però, nei confronti di Mario Luzi). Per capire rapidamente la posizione di Fortini, interprete e antologista, io citerei due nomi, l’uno all’inizio, l’altro alla fine del suo percorso: Clemente Rebora e Andrea Zanzotto.
    Clemente Rebora

Chi era Clemente Rebora? Ligure, nato laico e morto nelle vesti di tormentato sacerdote cattolico, lasciò una mole non consistente di versi, in cui cercò di conciliare la sua vena lirica profonda con un’esposizione di verità sapienziali, di volta in volta religiose, sociali o etico-psicologiche. Ora un ricordo personale che può servire sinteticamente a far capire molte cose. Quando io elaborai il progetto, che doveva dar vita alla sezione delle Opere della Letteratura italiana Einaudi, interpellai Franco Fortini per la poesia italiana del Novecento, lasciandolo libero di scegliere un autore e un testo: Fortini senza esitazioni scelse i Frammenti lirici di Clemente Rebora. Scelta non da poco, mi pare.

Andrea Zanzotto, il grande poeta veneto, anche lui appartato e, come dire, reclino su se stesso, piuttosto che aperto indiscriminatamente verso il mondo, chiude nel senso letterale del termine l’esposizione antologica fortiniana, e non solo, io penso, per motivi cronologici.
Anche lui, infatti, come scrive Fortini nelle pagine di commento ai testi, ma forse pensando a se stesso, «la poesia… è poesia di riflessione filosofico-esistenziale e autobiografica», però «vibrata nei modi del sarcasmo intellettuale».

Il poeta cioè anche in questo caso vuol dire la sostanza; ma con l’illusione, e la ricerca, di dirla «seguendo una linea media fra coscienza e incoscienza». Siamo nell’iperuranio di una scommessa linguistico-storica, a cui anche Franco Fortini ha ampiamente attinto.

La Repubblica – 8 gennaio 2018

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