Lo scarafaggio, la tarma (e lo scorpione). Fortini (e Levi) di fronte a Kafka
alla memoria di Riccardo Bonavita, 1968-2005
Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con questa – che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare.
Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con questa – che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare.
C’è molta speranza, ma nessuna per noi.
Oggi che l’icona di Kafka – gli occhi
dolci e tristi sotto la bombetta, il cappotto a tubino stretto sul corpo
filiforme («la magrezza, forma ingenua dell’intelligenza», suona un suo
aforisma) – viene stampata in milioni di esemplari sulle t-shirt dei
turisti in visita al parco a tema che è Praga, risulta pressoché
incomprensibile – come proveniente da un altro pianeta – che qualche
decennio fa, su una serissima rivista francese, ci si proponesse niente
di meno che di «bruciarlo», Kafka. In quello stesso 1946, per dirne una
assai nota, Einaudi non se la sentiva di pubblicare Se questo è un uomo.
Era, quello, tempo di ferite da sanare e fervori ri-edificanti; e la
rivista in questione era «Action», organo del partito comunista
francese. Ne seguì un dibattito bruciante, è il caso di dire, che per
reazione segnò per sempre un certo modo d’intendere “politicamente” la
letteratura; un modo assai francese, si dirà, ma che si diffonderà
dappertutto (e, per quel che vale, è rimasto per esempio il mio). Assai
giustamente Carmelo Colangelo, in un libro molto bello (Una rotonda sul male,
Edizioni d’If 2014) che qualche anno fa disegnava le immagini di Kafka
«allo specchio dei filosofi», ha parlato di un’«autointerpretazione che
il secolo ventesimo ha via via proposto di se stesso tramite il commento a Kafka»[1]. Davvero e per eccellenza i suoi testi, come amava ripetere in linea generale Edoardo Sanguineti, funzionano insomma come test.
A fronte dell’universo orrendo che
disegna con crudele esattezza, diceva «Action», Kafka non muove un dito
per ribellarsi, cioè per incitare alla ribellione; i suoi personaggi
anzi – come il contadino di fronte alla Porta della Legge, nella
parabola del Processo – sono l’emblema di un’umanità
ipnoticamente affascinata dai suoi persecutori e che, volente o nolente,
finisce per collaborare con loro. Le accuse a Kafka, morto nel 1924,
ricordano da vicino quelle che più avanti verranno rivolte agli ebrei
vittime dei nazisti: pecore inermi condotte al macello senza levare un
fiato, e che talvolta con quegli sterminatori finirono appunto, neppure
troppo inconsapevoli, per collaborare (proprio come Josef K., nella
scena finale dello stesso Processo). In tempi non sospetti del resto, recensendo a caldo nel 1914 uno dei piccoli libri da pubblicati in vita da Kafka, Contemplazione,
Robert Musil scriveva che quelle piccole prose avevano «una nullità
scelta umilmente, una gentile soavità quale può avere un suicida nelle
ore tra la risoluzione e l’atto»[2].
Come ha ricordato in un suo scritto di gioventù Michele Sisto,
un filosofo come Günther Anders di lì a pochi anni riprenderà l’analisi
di grana piuttosto grossa svolta dai comunisti francesi per dire che
sì, nulla fa il personaggio di Kafka (non Kafka!) per contrapporsi al
male: ma proprio quella passività, rovesciata, è l’immagine più esatta
dell’atteggiamento che può essere il nostro, solo che noi lo vogliamo (è
il modo, per inciso, con cui nel suo film tratto nel ’62 dal Processo,
e girato a Roma, Orson Welles rovescia quel finale; non diversamente si
comporterà Quentin Tarantino, nel 2009, nel film forse più kafkiano che
mai sia stato realizzato, il magnifico Inglourious Basterds). A
patto cioè che lo si legga fino in fondo, Kafka, e senza sconti. Non lo
si deve dunque bruciare Kafka, concludeva Anders: bensì «comprenderlo a
morte». Non siamo troppo distanti, insomma, dalla classica (e
classicamente discutibile) interpretazione di Leopardi da parte di De
Sanctis («questo uomo odia la vita e te la fa amare, dice che l’amore e
la virtù sono illusioni, e te ne accende nell’anima un desiderio
vivissimo»).
È sintomatico che immagini violente,
dall’urgenza perentoria e ultimativa, ricorrano così spesso in chi si
ponga a riflettere su cosa vuol dire leggerlo davvero, Kafka.
Due volte lo paragona a Leopardi, Kafka, Franco Fortini nel lungo e
carsico intrattenimento con lui avuto nell’arco di quasi mezzo secolo –
giusto da quell’“incandescente” ’46 e da quel dibattito da cui
tacitamente prende le mosse, cioè, sino al ’90 : otto testi più o meno
d’occasione (e uno solo raccolto in volume dall’autore)[3]
ma tutti per un motivo o per l’altro notevolissimi, e che assai
opportunamente Giuseppe Lupo ha raccolto in un piccolo e fiammeggiante
volumetto dal titolo Capoversi su Kafka, appena uscito per le
marchigiane edizioni Hacca (pp. 91, € 12), come postrema – e forse
massima – fra le occasioni bibliografiche di questa imprevedibilmente
nutrita annata centenaria[4].
Il pezzo più irresistibile fra questi
otto è la breve e densissima nota (alle pp. 75-81) che Fortini fece
uscire il 29 giugno 1983 sul «Corriere della Sera», mentre lavorava alla
propria versione della Colonia penale e altri racconti (solo tre anni dopo pubblicata nella serie einaudiana degli «Scrittori tradotti da scrittori»)[5]. Sempre eccezionale l’ars rhetorica
del Fortini critico. Ma è significativo che le pagine più acute, su
Kafka, siano quelle da lui scritte in servizio di una propria
traduzione: il compito del traduttore infatti, per dirla con Benjamin,
era in tutti i sensi allegoria, per Fortini, non solo di quello
dell’interprete (in tutti i sensi), ma più in generale di chiunque
voglia appunto leggere davvero un testo (e allora è giusto che la “sua” Siena, dove insegnò al ’71 all’86, lo abbia voluto ricordare, il mese scorso, con un convegno internazionale dedicato giusto alla traduzione).
A colpirmi in particolare è la frase con cui Fortini attacca la sua straordinaria lettura della Metamorfosi,
condotta sul filo – un filo assai rischioso – dell’etimologia inter- e
intra-linguistica (un metodo non così distante, insomma, da quello dei
saggi sulla letteratura, o con la letteratura, di Martin Heidegger – personaggio che, in generale, non credo Fortini troppo apprezzasse)[6]:
«cerco di trapanare Kafka come fossi un tarlo o una tarma» (76). Il
testo come una tavola (la Tavola della Legge della letteratura),
l’interprete come un insetto che quella superficie così dura intacca,
operoso e paziente: sino a perforarla, a percorrerla, a inabissarsi
nella materia viva sottostante. E tra quelle fibre l’insetto scava e
ancora scava, incurante del suo perdersi, forse del suo perderla. Sino
magari a giungere a sgretolarla, a ridurla in polvere; e così, in
quell’apocalisse minima, annientare anche se stesso. Una crudeltà
necessaria, forse; ma che per certo appartiene al “carattere” di un
simile interprete (come quella dello scorpione nell’apologo “kafkiano” che racconta Welles in Mr Arkadin).
Colpisce pure, com’è ovvio, che in un insetto – come lo scarafaggio nel racconto che sta interpretando[7]
– s’immedesimi Fortini. Con «insetto» nella propria versione einaudiana
egli sceglie, come del resto i quattro traduttori italiani che lo hanno
preceduto, di rendere il termine tedesco «Ungeziefer»: lo stesso,
ricorda, che pochi anni dopo la stesura del racconto da parte di Kafka
verrà impiegato da una rivista di nazionalisti tedeschi per designare i bohémiens
cosmopoliti infestanti il quartiere di Schwabing, a Monaco; «poco più
tardi», aggiunge ancora Fortini, «quel termine fu caro ai nazisti, a
designare ebrei, zingari, slavi, sottouomini» (80). D’altra parte
l’equivalente ebraico di Ungeziefer, Arod, conterrebbe
una radice che rinvia, in accezione negativa, a «mescolanza»,
«confusione»: in tale accezione questo termine «gli ebrei avrebbero
impiegato spregiativamente per i non-ebrei in mezzo a loro frammisti.
Tanto il sogno della purezza, di ogni sorta, è micidiale» (79): quella
metafora etimologica, infatti, di lì a pochi anni si sarebbe atrocemente
ritorta contro di loro. La parola italiana insetto, annota
infine Fortini concludendo la sua pirotecnica scorribanda etimologica – e
anzi dice che a suggerirglielo era stato l’amico Severino Cesari, suo editor
al «manifesto»; un lampo d’intelligenza linguistica che chiunque
l’abbia conosciuto riconosce subito come suo, e che ci fa stringere una
volta di più il cuore, oggi, per la sua scomparsa precoce –, viene
dall’intensivo «in» e dal verbo «secare»: «animali segmentati. È calco di entóma, ché così li chiamò Aristotele. Ora, entóma poièin è, in Erodoto, “compiere sacrifici rituali” ossia “tagliare”; come fanno, nel finale di Il processo,
i due funzionari che scannano il signor K.» (80). Esseri tagliati,
frammentati, incisi: come sarà nel destino di Gregorio Samsa sul cui
tegumento d’insetto, tanto duro quanto fragile, s’incista la mela che
veterotestamentariamente gli ha gettato addosso il padre, anzi il Padre;
e che sarà la causa della sua morte. Ma, nel caso di Fortini – come a
voler rovesciare la sorte schiacciante cui il personaggio kafkiano non
aveva invece potuto o voluto sottrarsi –, l’essere è invece quello che
taglia, frammenta, incide. (Già nelle prima delle due Note su Kafka,
del ’70, Fortini aveva parlato della «natura entomologica, da insetto,
dell’opera kafkiana», «suggerita dalla sua costituzione, coperta
all’esterno da corazze chitinose, da articolazioni rigide e ungulate,
mentre all’interno è palpitazione senza scheletro, in un rapporto da
contenuto a recipiente».)[8]
La metamorfosi, dice Fortini, che in
Aristotele e in Dante è sempre «progresso», per il Gregor di Kafka si
rivela al contrario «retrocessione, castrazione, impotenza» (80). Ma
niente di meno che una metamorfosi, si capisce, è altresì il processo
che Fortini viene compiendo mentre scrive queste parole abbaglianti: la
traduzione di un testo. Tale è, in effetti, ogni sua interpretazione.
Ogni sua lettura. Leggere davvero un testo significa esporsi
alla metamorfosi che esso produce in noi mentre lo leggiamo. Ogni vera
lettura di un testo, ha detto una volta René Char commentando Rimbaud,
significa affrontare l’esperienza cruciale dell’essere attraversati da quel testo: esperienza che non ci può lasciare indenni, intatti, identici a prima[9].
Ma al tempo stesso, nell’essere attraversati da un testo, noi lo
attraversiamo. E, volenti o nolenti, lo modifichiamo. Una metamorfosi
che nei casi peggiori può ucciderlo, il testo: col ridurlo a mero
pretesto. Ma anche questo sacrificio rituale ci aiuta a restare in vita.
Anche a un altro scrittore ebreo, Primo
Levi, Giulio Einaudi aveva chiesto di tradurre Kafka nella sua collana
prediletta. A inaugurarla, in quello stesso 1983, fu proprio Il processo,
nella versione di Levi. E anche in questo caso quel lavoro non fu, per
lui, un lavoro come gli altri. A distanza di qualche settimana
dall’uscita del libro, il 5 giugno sulla «Stampa», più per fare
chiarezza dentro di sé che per altro, Levi pubblica un pezzo altrettanto
breve di quello che Fortini pubblicherà sul «Corriere» nemmeno un mese
dopo e, di quello, ancora più cruciale. Nella nota brevissima, e come si
vede reticente, posposta alla traduzione Levi aveva detto,
semplicemente: «da questa traduzione sono uscito come da una malattia»[10]. Ma nel pezzo uscito sul giornale (e da lui raccolto, col titolo Tradurre Kafka, nel suo penultimo libro, Racconti e saggi dell’86)[11], Levi esplicita i motivi per cui, si limitava a dire nella Nota del traduttore, non crede Kafka a sé «molto affine» (probabilmente contestando le affinità che aveva invece creduto d’intuire Einaudi, e non solo lui se è per questo)[12].
Se viceversa Fortini incontra Kafka in nome dell’affinità, neppure
troppo segreta, che lo lega a lui (basta scorrere i pezzi, più o meno
impegnati e più o meno occasionali, che gli dedica in un arco di tempo
così lungo: dalla postura profetica alla contrastata religiosità,
diversi sono gli aspetti “kafkiani” che, come dice Lupo nella prefazione
a Capoversi su Kafka, troviamo innestati nella personalità
umana, prima che letteraria, di Fortini), per Levi Kafka è,
letteralmente, un Alieno. Lo «ama e ammira», scrive in Tradurre Kafka, in modo «ambivalente, vicino allo spavento e al rifiuto». È attratto da lui», dice, «perché scrive in un modo che gli
è totalmente precluso». Se nello scrivere infatti Levi ha sempre «teso a
un trapasso dall’oscuro al chiaro, come […] potrebbe fare una
pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata»
(ancorché, aggiunge impietoso, «magari sterile»), «Kafka batte il
cammino opposto: dipana senza fine le allucinazioni che attinge da falde
incredibilmente profonde, e non le filtra mai. Il lettore le sente
pullulare di germi e spore: sono gravide di significati scottanti, ma
non è mai aiutato a rompere il velo o ad aggirarlo per andare a vedere
cosa esso nasconde. Kafka non tocca mai terra, non accondiscende mai a
darti il bandolo del filo di Arianna».
Espresso con una metafora igienico-sanitaria che, impiegata dal chimico ebreo per un pelo sfuggito alla disinfestazione di Auschwitz, non può non far venire i brividi (una scrittura infestata da germi e spore),
lo spirito con cui Levi legge Kafka non è insomma così distante da
quello con cui lo leggevano i comunisti francesi nel ’46. Dice
esplicitamente, Levi, che la pagina lancinante sulla quale si conclude Il processo lui, «reduce da Auschwitz» – sintomatico che, proprio qui, senta il bisogno di esplicitarlo –, «non l’avrebbe scritta mai». Ma le ultime righe di questo pezzo, pensando al terribile capitolo intitolato appunto La vergogna che siglerà tre anni dopo la sua opera ultima e testamentaria, I sommersi e i salvati, fanno venire un altro brivido. Levi commenta l’ultimissima, e «commentatissima», frase del Processo:
«… e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere». Perché si
vergogna, Josef K.? Si vergogna di non aver lottato, risponde appunto
Levi: non ha «ha resistito con energia sufficiente al tribunale delle
soffitte». Si vergogna di non essersi ribellato alle «meschine gelosie
di ufficio», ai «falsi amori», alle «timidezze malate», agli
«adempimenti statici e ossessivi». Si vergogna di non aver levato la
mano contro di sé: «di esistere quando ormai non avrebbe più dovuto
esistere: di non aver trovato la forza di sopprimersi di sua mano quanto
tutto era perduto». Ma prima di tutto l’uomo di Kafka «prova vergogna
perché esiste questo tribunale occulto e corrotto»: «Josef, col coltello
già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo».
Ancora più rivelatoria, di Levi, un’intervista rilasciata quello stesso anno a Federico de Melis, sul «manifesto»[13]. La metafora impiegata in questa occasione per spiegare cosa abbia significato, per lui, affrontare la metamorfosi del leggere davvero Kafka
è esattamente, simmetricamente opposta, a quella impiegata da Fortini.
Non ama Kafka, precisa qui Levi, lo ammira. E lo teme: «come una grande
macchina che ti viene addosso, come il profeta che ti dirà il giorno
della tua morte». Si chiede, come forse facciamo in molti, «se sia un
bene», per un giovane e magari non solo per un giovane, leggere Il processo.
E risponde, Levi, con una sincerità che invece abbiamo decisamente in
pochi, che no: «glielo risparmierei». Come si risparmia un condannato a
morte. Ma essendo stato costretto a farlo, per lui non è stato possibile
evitare la condanna che rappresenta Kafka. Leggere Il processo, dunque, è equivalso per lui a difendersene: «mi sono sentito aggredito da questo libro, e ho dovuto difendermi» (Un’aggressione di nome Franz Kafka, sarà il titolo dell’intervista).
Dunque Fortini si rappresenta come tarlo, o tarma, che s’introduce nel corpo di Kafka. Mentre per Levi è Kafka l’aggressore, il germe o la spora
che si è introdotta in lui. Un agente patogeno che si può tentare in
tutti i modi di filtrare, di depurare (le modalità di traduzione da lui
impiegate, nei confronti del Processo, erano andate in effetti in questa direzione), ma che Levi sa benissimo, alla lunga, prevarranno. La crudeltà del finale del Processo
è tale che, l’intervista si conclude con queste parole, «se avessi un
figlio giovane gliela risparmierei. Mi pare che comporti un disagio, una
sofferenza, che certo è la verità. Morremo, ognuno di noi morrà,
pressappoco così».
C’è un solo altro autore nei confronti
del quale Levi mostri una simile ambivalenza, ed è Paul Celan. In un
primo momento, in uno dei saggi raccolti nell’85 nel volume L’altrui mestiere, quello che s’intitola Dello scrivere oscuro
pubblicato una prima volta alla fine del ’76, esprimerà con recisione
quasi violenta il proprio rifiuto dell’oscurità, appunto, che dal suo
punto di vista accomuna due scrittori fra loro così diversi come Kafka e
Celan. «L’effabile è preferibile all’ineffabile, la parola umana al
mugolio animale». Niente meno che animale, definisce Levi la lingua di
Celan, al pari di quella di Georg Trakl. E aggiunge con crudeltà: «non è
un caso che i due poeti […] siano entrambi morti suicidi». È una lingua
“suicida”, quella del poeta in effetti suicidatosi nel 1970; un «un
pre-uccidersi», «un non-voler-essere», «una fuga dal mondo, a cui la
morte voluta è stata coronamento»[14]. Ma diversi anni dopo, nell’antologia La ricerca delle radici, finirà per confessare, Levi, di aver portato la poesia più celebre e lancinante di Celan, Todesfuge, «come un innesto»[15].
È un’altra metafora violenta, questa di Levi, che mi ha sempre colpito per come prefigura quella di Jean-Luc Nancy nell’Intruso[16].
L’altro, l’irriducibilmente diverso che entra in me (il cuore che gli è
stato trapiantato, nella metafora di Nancy), mette in crisi il mio
organismo. Lo può anche distruggere definitivamente. Ma è altresì
possibile che, al termine del processo, sia proprio l’elemento intruso a salvare l’organismo minacciato. Il salvato, dopo questa metamorfosi, sarà in ogni caso molto diverso da quello che rischiava di essere sommerso.
L’opera di uno scrittore può conficcarsi nella nostra anima come la
mela lanciata a Gregor Samsa. Può penetrare crudelmente in noi, può
intridersi nelle nostre fibre e circolare nelle nostre vene, sino a
danneggiarci irreparabilmente. Ma sta a noi, solo a noi, estrarre quel
corpo dal nostro, impugnarlo, guardarlo con occhi fermi. E, magari,
rivolgerlo contro il mondo che ce lo ha lanciato.
[1] Carmelo Colangelo, Una rotonda sul male. Kafka allo specchio dei filosofi, Napoli, Edizioni d’If, 2014, p. 21.
[2] Robert Musil, Cronaca letteraria [1914], in Id., Saggi e lettere, a cura di Bianca Cetti Marinoni, Torino, Einaudi, 1995, vol. I, p. 208.
[3] Franco Fortini, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose [1948], in Id., Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957, pp. 812-8; poi anche in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie
[1965]; nella recente riedizione “centenaria” di questo volume, uscita
dal Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo, è alle pp. 281-7; nel
“Meridiano” di Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, è alle pp. 329-37. In Capoversi su Kafka
si legge alle pp. 47-59 (da ora in avanti le citazioni da quest’ultima
pubblicazione saranno date direttamente a testo, col numero di pagina
relativo). Si sarebbero potute utilmente aggiungere in appendice, al
volume di Hacca, le Due note su Kafka datate 1970 e comprese nel volume postumo Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, introduzione di Romano Luperini, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 411-2.
[4] Nel primo dei testi, Kafka, questo ebreo di Praga,
del ’46, Fortini accosta la «calma» e la «giustezza» delle pagine di
Kafka – da lui sottolineate come dal Musil che non poteva verosimilmente
conoscere –, nonché la sua «altissima forza morale», al «leopardiano Elogio degli uccelli» o al «Cantico del gallo silvestre» (27). Nel saggio che dà il titolo al libro di Hacca, Capoversi su Kafka
(uscito sul «Politecnico» nell’ottobre del ’47), evidente la risposta –
implicita – ad «Action»: «così come è possibile bruciarlo, è anche
possibile spingere a calci Franz Kafka nel gioco della dialettica e
farlo collaborare al progresso umano. Ma anche i giornalisti meno
sensibili dovrebbero sentire il vergognoso scetticismo, la malafede, di
un simile procedere. D’altronde Kafka, o Leopardi, Dante o Dostoevskij
non sono né con noi, né contro di noi: sono evidentemente, con i migliori»
(43). Sul rapporto con Leopardi – mi pare tuttora sottovalutato, in
genere, dagli interpreti di Fortini – si veda almeno Luca Lenzini, Il paesaggio e la gioia. Osservazioni su Leopardi in Fortini, in Id., Il poeta di nome Fortini, Lecce, Piero Manni, 1999, pp. 49-72; e Riccardo Bonavita, La scuola della gioia. Le “occasioni” leopardiane di Fortini [2002], in Id., Leopardi. Descrizione di una battaglia,
a cura di Giuliana Benvenuti, introduzione di Marco A. Bazzocchi,
Torino, Aragno, 2012, pp. 179-208. A Fortini aveva dedicato, Riccardo,
la sua tesi di dottorato, che è stata di recente pubblicata, a sua volta
in occasione del centenario: L’anima e la storia. Struttura delle raccolte poetiche e rapporto con la storia in Franco Fortini, a cura di Thomas Mazzucco, prefazione di Luca Lenzini, premessa di Giuliana Benvenuti, Milano, Biblion, 2017
[5] Cfr. Gabriele Fichera, La verifica della gioia: Fortini traduce Kafka [2011], in Id., Le asine di Saul. Saggismo e invenzione da Manzoni a Pasolini, Leonforte (EN), Euno, 2016, pp. 191-209.
[6]
Nel citato saggio del ’48 dice esplicitamente, Fortini: «quel che ci
distingue dagli interpreti psicologici od esistenzialisti (sulla linea
di Heidegger) si è che quanto essi vedono, in Kafka, immagine eterna
della condizione umana, per noi è storicamente condizionato» (57).
[7] Molto nota è la lettura del racconto da parte di Vladimir Nabokov nelle Lezioni di letteratura
tenute al Wellesley College e alla Cornell Universiy fra il 1941 e il
’58, e pubblicate postume nell’80 (a cura di Fredson Bowers,
introduzione di John Updike, Milano, Garzanti, 1982, pp. 299-335), il
quale dalla descrizione da parte di Kafka desume che non di uno
scarafaggio si trattasse, in effetti, bensì di uno scarabeo sacro, un
coleottero insomma dotato di ali che, dunque, si sarebbe potuto salvare
volando via dalla sua stanza (si vedano i disegni a p. 308). Anche Levi
(segnala l’entomologo di complemento Belpoliti – cfr. il suo La strategia della farfalla,
Milano, Guanda, 2016 –, che condivide appunto con Levi, oltre che
notoriamente con Nabokov, tale interesse) sembra di questa opinione:
cfr. Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda, 2016, p. 408 (e tutta la “voce” relativa, «Scarabeo/scarafaggio», alle pp. 408-10).
[8] Franco Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 412.
[9] Cfr. René Char, Arthur Rimbaud, traduzione di Roberto Rossi, in Arthur Rimbaud, Illuminazioni, a cura di Cosimo Ortesta, Milano, SE, 1986, pp. 121-7 (ora in Id., Ricerca della base e della vetta [1965], a cura di Ilaria Gremizzi e Sandro Palazzo, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 111-7).
[10] Primo Levi, Nota al Processo di Kafka [1983], in Id., Opere complete,
a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, vol. II, p. 1532.
Decisamente anodino l’ulteriore, brevissimo pezzo su Kafka pubblicato da
Levi su «Il Tempo» il 5 luglio 1983, Una misteriosa sensibilità (ivi, p. 1541).
[11] Id., Tradurre Kafka [1983], in Id., Racconti e saggi [1986]; ora in Id., Opere complete cit., vol. II, pp. 1096-8.
[12] Si veda l’acuta “voce” «Franz Kafka» in Marco Belpoliti, Primo Levi, di fronte e di profilo, cit., pp. 442-6.
[13] Un’aggressione di nome Franz Kafka, «il manifesto», 5 maggio 1983: in Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987,
a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, pp. 188 sgg. In
un’altra intervista di quei giorni (di Laura Mancinelli, uscita col
titolo Come interpretare i labirinti di Kafka, in «Il secolo XIX», 7 maggio 1983), ora raccolta nella nuova edizione appena uscita del numero monografico su Levi di «Riga» (Primo Levi,
a cura di Mario Barenghi, Marco Belpoliti e Anna Stefi, Milano, marcos y
marcos, 2017, pp. 83 sgg.), si parla sempre traumaticamente di un
«impatto» con Kafka, «impatto tanto più traumatizzante quanto più grande
è la personalità dello scrittore da tradurre» (una nuova e assai
ampliata raccolta di interviste leviane, curate sempre da Belpoliti, è
annunciato quale terzo volume delle nuove Opere complete, la prossima primavera da Einaudi).
[14] Primo Levi, Dello scrivere oscuro [1976], in Id., L’altrui mestiere [1985]; ora in Id., Opere complete,
a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, vol. II, p. 842. Il
pezzo di Levi suscitò una polemica con Giorgio Manganelli, autore
simmetrico rovesciato rispetto a Levi, ricostruita in modo eccellente da
Domenico Scarpa: Oscuro/Chiaro. Giorgio Manganelli vs. Primo Levi [2006], in Id., Storie avventurose di libri necessari, Roma, Gaffi, 2010, pp. 335-79 e 459-66 (ma si veda già, di Scarpa, il saggio simmetrico rovesciato, Chiaro/Oscuro, compreso nel monografico di «Riga» già nella princeps del ’97 e ora alle pp. 238-55 dell’ultima edizione cit.).
[15] Primo Levi, La ricerca delle radici [1981], ivi, p. 211.
[16] Cfr. Jean-Luc Nancy, L’intruso [2000], a cura di Valeria Piazza, Napoli, Cronopio, 2000.
testo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=30456
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