09 gennaio 2018

F. FORTINI E P. LEVI LETTORI DI KAFKA



Lo scarafaggio, la tarma (e lo scorpione). Fortini (e Levi) di fronte a Kafka

di Andrea Cortellessa

alla memoria di Riccardo Bonavita, 1968-2005
Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. Con questa – che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare.


C’è molta speranza, ma nessuna per noi.
Oggi che l’icona di Kafka – gli occhi dolci e tristi sotto la bombetta, il cappotto a tubino stretto sul corpo filiforme («la magrezza, forma ingenua dell’intelligenza», suona un suo aforisma) – viene stampata in milioni di esemplari sulle t-shirt dei turisti in visita al parco a tema che è Praga, risulta pressoché incomprensibile – come proveniente da un altro pianeta – che qualche decennio fa, su una serissima rivista francese, ci si proponesse niente di meno che di «bruciarlo», Kafka. In quello stesso 1946, per dirne una assai nota, Einaudi non se la sentiva di pubblicare Se questo è un uomo. Era, quello, tempo di ferite da sanare e fervori ri-edificanti; e la rivista in questione era «Action», organo del partito comunista francese. Ne seguì un dibattito bruciante, è il caso di dire, che per reazione segnò per sempre un certo modo d’intendere “politicamente” la letteratura; un modo assai francese, si dirà, ma che si diffonderà dappertutto (e, per quel che vale, è rimasto per esempio il mio). Assai giustamente Carmelo Colangelo, in un libro molto bello (Una rotonda sul male, Edizioni d’If 2014) che qualche anno fa disegnava le immagini di Kafka «allo specchio dei filosofi», ha parlato di un’«autointerpretazione che il secolo ventesimo ha via via proposto di se stesso tramite il commento a Kafka»[1]. Davvero e per eccellenza i suoi testi, come amava ripetere in linea generale Edoardo Sanguineti, funzionano insomma come test.
A fronte dell’universo orrendo che disegna con crudele esattezza, diceva «Action», Kafka non muove un dito per ribellarsi, cioè per incitare alla ribellione; i suoi personaggi anzi – come il contadino di fronte alla Porta della Legge, nella parabola del Processo – sono l’emblema di un’umanità ipnoticamente affascinata dai suoi persecutori e che, volente o nolente, finisce per collaborare con loro. Le accuse a Kafka, morto nel 1924, ricordano da vicino quelle che più avanti verranno rivolte agli ebrei vittime dei nazisti: pecore inermi condotte al macello senza levare un fiato, e che talvolta con quegli sterminatori finirono appunto, neppure troppo inconsapevoli, per collaborare (proprio come Josef K., nella scena finale dello stesso Processo). In tempi non sospetti del resto, recensendo a caldo nel 1914 uno dei piccoli libri da pubblicati in vita da Kafka, Contemplazione, Robert Musil scriveva che quelle piccole prose avevano «una nullità scelta umilmente, una gentile soavità quale può avere un suicida nelle ore tra la risoluzione e l’atto»[2].
Come ha ricordato in un suo scritto di gioventù Michele Sisto, un filosofo come Günther Anders di lì a pochi anni riprenderà l’analisi di grana piuttosto grossa svolta dai comunisti francesi per dire che sì, nulla fa il personaggio di Kafka (non Kafka!) per contrapporsi al male: ma proprio quella passività, rovesciata, è l’immagine più esatta dell’atteggiamento che può essere il nostro, solo che noi lo vogliamo (è il modo, per inciso, con cui nel suo film tratto nel ’62 dal Processo, e girato a Roma, Orson Welles rovescia quel finale; non diversamente si comporterà Quentin Tarantino, nel 2009, nel film forse più kafkiano che mai sia stato realizzato, il magnifico Inglourious Basterds). A patto cioè che lo si legga fino in fondo, Kafka, e senza sconti. Non lo si deve dunque bruciare Kafka, concludeva Anders: bensì «comprenderlo a morte». Non siamo troppo distanti, insomma, dalla classica (e classicamente discutibile) interpretazione di Leopardi da parte di De Sanctis («questo uomo odia la vita e te la fa amare, dice che l’amore e la virtù sono illusioni, e te ne accende nell’anima un desiderio vivissimo»).
È sintomatico che immagini violente, dall’urgenza perentoria e ultimativa, ricorrano così spesso in chi si ponga a riflettere su cosa vuol dire leggerlo davvero, Kafka. Due volte lo paragona a Leopardi, Kafka, Franco Fortini nel lungo e carsico intrattenimento con lui avuto nell’arco di quasi mezzo secolo – giusto da quell’“incandescente” ’46 e da quel dibattito da cui tacitamente prende le mosse, cioè, sino al ’90 : otto testi più o meno d’occasione (e uno solo raccolto in volume dall’autore)[3] ma tutti per un motivo o per l’altro notevolissimi, e che assai opportunamente Giuseppe Lupo ha raccolto in un piccolo e fiammeggiante volumetto dal titolo Capoversi su Kafka, appena uscito per le marchigiane edizioni Hacca (pp. 91, € 12), come postrema – e forse massima – fra le occasioni bibliografiche di questa imprevedibilmente nutrita annata centenaria[4].
Il pezzo più irresistibile fra questi otto è la breve e densissima nota (alle pp. 75-81) che Fortini fece uscire il 29 giugno 1983 sul «Corriere della Sera», mentre lavorava alla propria versione della Colonia penale e altri racconti (solo tre anni dopo pubblicata nella serie einaudiana degli «Scrittori tradotti da scrittori»)[5]. Sempre eccezionale l’ars rhetorica del Fortini critico. Ma è significativo che le pagine più acute, su Kafka, siano quelle da lui scritte in servizio di una propria traduzione: il compito del traduttore infatti, per dirla con Benjamin, era in tutti i sensi allegoria, per Fortini, non solo di quello dell’interprete (in tutti i sensi), ma più in generale di chiunque voglia appunto leggere davvero un testo (e allora è giusto che la “sua” Siena, dove insegnò al ’71 all’86, lo abbia voluto ricordare, il mese scorso, con un convegno internazionale dedicato giusto alla traduzione).
A colpirmi in particolare è la frase con cui Fortini attacca la sua straordinaria lettura della Metamorfosi, condotta sul filo – un filo assai rischioso – dell’etimologia inter- e intra-linguistica (un metodo non così distante, insomma, da quello dei saggi sulla letteratura, o con la letteratura, di Martin Heidegger – personaggio che, in generale, non credo Fortini troppo apprezzasse)[6]: «cerco di trapanare Kafka come fossi un tarlo o una tarma» (76). Il testo come una tavola (la Tavola della Legge della letteratura), l’interprete come un insetto che quella superficie così dura intacca, operoso e paziente: sino a perforarla, a percorrerla, a inabissarsi nella materia viva sottostante. E tra quelle fibre l’insetto scava e ancora scava, incurante del suo perdersi, forse del suo perderla. Sino magari a giungere a sgretolarla, a ridurla in polvere; e così, in quell’apocalisse minima, annientare anche se stesso. Una crudeltà necessaria, forse; ma che per certo appartiene al “carattere” di un simile interprete (come quella dello scorpione nell’apologo “kafkiano” che racconta Welles in Mr Arkadin).
Colpisce pure, com’è ovvio, che in un insetto – come lo scarafaggio nel racconto che sta interpretando[7] – s’immedesimi Fortini. Con «insetto» nella propria versione einaudiana egli sceglie, come del resto i quattro traduttori italiani che lo hanno preceduto, di rendere il termine tedesco «Ungeziefer»: lo stesso, ricorda, che pochi anni dopo la stesura del racconto da parte di Kafka verrà impiegato da una rivista di nazionalisti tedeschi per designare i bohémiens cosmopoliti infestanti il quartiere di Schwabing, a Monaco; «poco più tardi», aggiunge ancora Fortini, «quel termine fu caro ai nazisti, a designare ebrei, zingari, slavi, sottouomini» (80). D’altra parte l’equivalente ebraico di Ungeziefer, Arod, conterrebbe una radice che rinvia, in accezione negativa, a «mescolanza», «confusione»: in tale accezione questo termine «gli ebrei avrebbero impiegato spregiativamente per i non-ebrei in mezzo a loro frammisti. Tanto il sogno della purezza, di ogni sorta, è micidiale» (79): quella metafora etimologica, infatti, di lì a pochi anni si sarebbe atrocemente ritorta contro di loro. La parola italiana insetto, annota infine Fortini concludendo la sua pirotecnica scorribanda etimologica – e anzi dice che a suggerirglielo era stato l’amico Severino Cesari, suo editor al «manifesto»; un lampo d’intelligenza linguistica che chiunque l’abbia conosciuto riconosce subito come suo, e che ci fa stringere una volta di più il cuore, oggi, per la sua scomparsa precoce –, viene dall’intensivo «in» e dal verbo «secare»: «animali segmentati. È calco di entóma, ché così li chiamò Aristotele. Ora, entóma poièin è, in Erodoto, “compiere sacrifici rituali” ossia “tagliare”; come fanno, nel finale di Il processo, i due funzionari che scannano il signor K.» (80). Esseri tagliati, frammentati, incisi: come sarà nel destino di Gregorio Samsa sul cui tegumento d’insetto, tanto duro quanto fragile, s’incista la mela che veterotestamentariamente gli ha gettato addosso il padre, anzi il Padre; e che sarà la causa della sua morte. Ma, nel caso di Fortini – come a voler rovesciare la sorte schiacciante cui il personaggio kafkiano non aveva invece potuto o voluto sottrarsi –, l’essere è invece quello che taglia, frammenta, incide. (Già nelle prima delle due Note su Kafka, del ’70, Fortini aveva parlato della «natura entomologica, da insetto, dell’opera kafkiana», «suggerita dalla sua costituzione, coperta all’esterno da corazze chitinose, da articolazioni rigide e ungulate, mentre all’interno è palpitazione senza scheletro, in un rapporto da contenuto a recipiente».)[8]
La metamorfosi, dice Fortini, che in Aristotele e in Dante è sempre «progresso», per il Gregor di Kafka si rivela al contrario «retrocessione, castrazione, impotenza» (80). Ma niente di meno che una metamorfosi, si capisce, è altresì il processo che Fortini viene compiendo mentre scrive queste parole abbaglianti: la traduzione di un testo. Tale è, in effetti, ogni sua interpretazione. Ogni sua lettura. Leggere davvero un testo significa esporsi alla metamorfosi che esso produce in noi mentre lo leggiamo. Ogni vera lettura di un testo, ha detto una volta René Char commentando Rimbaud, significa affrontare l’esperienza cruciale dell’essere attraversati da quel testo: esperienza che non ci può lasciare indenni, intatti, identici a prima[9]. Ma al tempo stesso, nell’essere attraversati da un testo, noi lo attraversiamo. E, volenti o nolenti, lo modifichiamo. Una metamorfosi che nei casi peggiori può ucciderlo, il testo: col ridurlo a mero pretesto. Ma anche questo sacrificio rituale ci aiuta a restare in vita.
Anche a un altro scrittore ebreo, Primo Levi, Giulio Einaudi aveva chiesto di tradurre Kafka nella sua collana prediletta. A inaugurarla, in quello stesso 1983, fu proprio Il processo, nella versione di Levi. E anche in questo caso quel lavoro non fu, per lui, un lavoro come gli altri. A distanza di qualche settimana dall’uscita del libro, il 5 giugno sulla «Stampa», più per fare chiarezza dentro di sé che per altro, Levi pubblica un pezzo altrettanto breve di quello che Fortini pubblicherà sul «Corriere» nemmeno un mese dopo e, di quello, ancora più cruciale. Nella nota brevissima, e come si vede reticente, posposta alla traduzione Levi aveva detto, semplicemente: «da questa traduzione sono uscito come da una malattia»[10]. Ma nel pezzo uscito sul giornale (e da lui raccolto, col titolo Tradurre Kafka, nel suo penultimo libro, Racconti e saggi dell’86)[11], Levi esplicita i motivi per cui, si limitava a dire nella Nota del traduttore, non crede Kafka a sé «molto affine» (probabilmente contestando le affinità che aveva invece creduto d’intuire Einaudi, e non solo lui se è per questo)[12]. Se viceversa Fortini incontra Kafka in nome dell’affinità, neppure troppo segreta, che lo lega a lui (basta scorrere i pezzi, più o meno impegnati e più o meno occasionali, che gli dedica in un arco di tempo così lungo: dalla postura profetica alla contrastata religiosità, diversi sono gli aspetti “kafkiani” che, come dice Lupo nella prefazione a Capoversi su Kafka, troviamo innestati nella personalità umana, prima che letteraria, di Fortini), per Levi Kafka è, letteralmente, un Alieno. Lo «ama e ammira», scrive in Tradurre Kafka, in modo «ambivalente, vicino allo spavento e al rifiuto». È attratto da lui», dice, «perché scrive in un modo che gli è totalmente precluso». Se nello scrivere infatti Levi ha sempre «teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come […] potrebbe fare una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata» (ancorché, aggiunge impietoso, «magari sterile»), «Kafka batte il cammino opposto: dipana senza fine le allucinazioni che attinge da falde incredibilmente profonde, e non le filtra mai. Il lettore le sente pullulare di germi e spore: sono gravide di significati scottanti, ma non è mai aiutato a rompere il velo o ad aggirarlo per andare a vedere cosa esso nasconde. Kafka non tocca mai terra, non accondiscende mai a darti il bandolo del filo di Arianna».
Espresso con una metafora igienico-sanitaria che, impiegata dal chimico ebreo per un pelo sfuggito alla disinfestazione di Auschwitz, non può non far venire i brividi (una scrittura infestata da germi e spore), lo spirito con cui Levi legge Kafka non è insomma così distante da quello con cui lo leggevano i comunisti francesi nel ’46. Dice esplicitamente, Levi, che la pagina lancinante sulla quale si conclude Il processo lui, «reduce da Auschwitz» – sintomatico che, proprio qui, senta il bisogno di esplicitarlo –, «non l’avrebbe scritta mai». Ma le ultime righe di questo pezzo, pensando al terribile capitolo intitolato appunto La vergogna che siglerà tre anni dopo la sua opera ultima e testamentaria, I sommersi e i salvati, fanno venire un altro brivido. Levi commenta l’ultimissima, e «commentatissima», frase del Processo: «… e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere». Perché si vergogna, Josef K.? Si vergogna di non aver lottato, risponde appunto Levi: non ha «ha resistito con energia sufficiente al tribunale delle soffitte». Si vergogna di non essersi ribellato alle «meschine gelosie di ufficio», ai «falsi amori», alle «timidezze malate», agli «adempimenti statici e ossessivi». Si vergogna di non aver levato la mano contro di sé: «di esistere quando ormai non avrebbe più dovuto esistere: di non aver trovato la forza di sopprimersi di sua mano quanto tutto era perduto». Ma prima di tutto l’uomo di Kafka «prova vergogna perché esiste questo tribunale occulto e corrotto»: «Josef, col coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo».
Ancora più rivelatoria, di Levi, un’intervista rilasciata quello stesso anno a Federico de Melis, sul «manifesto»[13]. La metafora impiegata in questa occasione per spiegare cosa abbia significato, per lui, affrontare la metamorfosi del leggere davvero Kafka è esattamente, simmetricamente opposta, a quella impiegata da Fortini. Non ama Kafka, precisa qui Levi, lo ammira. E lo teme: «come una grande macchina che ti viene addosso, come il profeta che ti dirà il giorno della tua morte». Si chiede, come forse facciamo in molti, «se sia un bene», per un giovane e magari non solo per un giovane, leggere Il processo. E risponde, Levi, con una sincerità che invece abbiamo decisamente in pochi, che no: «glielo risparmierei». Come si risparmia un condannato a morte. Ma essendo stato costretto a farlo, per lui non è stato possibile evitare la condanna che rappresenta Kafka. Leggere Il processo, dunque, è equivalso per lui a difendersene: «mi sono sentito aggredito da questo libro, e ho dovuto difendermi» (Un’aggressione di nome Franz Kafka, sarà il titolo dell’intervista).
Dunque Fortini si rappresenta come tarlo, o tarma, che s’introduce nel corpo di Kafka. Mentre per Levi è Kafka l’aggressore, il germe o la spora che si è introdotta in lui. Un agente patogeno che si può tentare in tutti i modi di filtrare, di depurare (le modalità di traduzione da lui impiegate, nei confronti del Processo, erano andate in effetti in questa direzione), ma che Levi sa benissimo, alla lunga, prevarranno. La crudeltà del finale del Processo è tale che, l’intervista si conclude con queste parole, «se avessi un figlio giovane gliela risparmierei. Mi pare che comporti un disagio, una sofferenza, che certo è la verità. Morremo, ognuno di noi morrà, pressappoco così».
C’è un solo altro autore nei confronti del quale Levi mostri una simile ambivalenza, ed è Paul Celan. In un primo momento, in uno dei saggi raccolti nell’85 nel volume L’altrui mestiere, quello che s’intitola Dello scrivere oscuro pubblicato una prima volta alla fine del ’76, esprimerà con recisione quasi violenta il proprio rifiuto dell’oscurità, appunto, che dal suo punto di vista accomuna due scrittori fra loro così diversi come Kafka e Celan. «L’effabile è preferibile all’ineffabile, la parola umana al mugolio animale». Niente meno che animale, definisce Levi la lingua di Celan, al pari di quella di Georg Trakl. E aggiunge con crudeltà: «non è un caso che i due poeti […] siano entrambi morti suicidi». È una lingua “suicida”, quella del poeta in effetti suicidatosi nel 1970; un «un pre-uccidersi», «un non-voler-essere», «una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento»[14]. Ma diversi anni dopo, nell’antologia La ricerca delle radici, finirà per confessare, Levi, di aver portato la poesia più celebre e lancinante di Celan, Todesfuge, «come un innesto»[15].
È un’altra metafora violenta, questa di Levi, che mi ha sempre colpito per come prefigura quella di Jean-Luc Nancy nell’Intruso[16]. L’altro, l’irriducibilmente diverso che entra in me (il cuore che gli è stato trapiantato, nella metafora di Nancy), mette in crisi il mio organismo. Lo può anche distruggere definitivamente. Ma è altresì possibile che, al termine del processo, sia proprio l’elemento intruso a salvare l’organismo minacciato. Il salvato, dopo questa metamorfosi, sarà in ogni caso molto diverso da quello che rischiava di essere sommerso. L’opera di uno scrittore può conficcarsi nella nostra anima come la mela lanciata a Gregor Samsa. Può penetrare crudelmente in noi, può intridersi nelle nostre fibre e circolare nelle nostre vene, sino a danneggiarci irreparabilmente. Ma sta a noi, solo a noi, estrarre quel corpo dal nostro, impugnarlo, guardarlo con occhi fermi. E, magari, rivolgerlo contro il mondo che ce lo ha lanciato.

[1] Carmelo Colangelo, Una rotonda sul male. Kafka allo specchio dei filosofi, Napoli, Edizioni d’If, 2014, p. 21.
[2] Robert Musil, Cronaca letteraria [1914], in Id., Saggi e lettere, a cura di Bianca Cetti Marinoni, Torino, Einaudi, 1995, vol. I, p. 208.
[3] Franco Fortini, Gli uomini di Kafka e la critica delle cose [1948], in Id., Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957, pp. 812-8; poi anche in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie [1965]; nella recente riedizione “centenaria” di questo volume, uscita dal Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo, è alle pp. 281-7; nel “Meridiano” di Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, è alle pp. 329-37. In Capoversi su Kafka si legge alle pp. 47-59 (da ora in avanti le citazioni da quest’ultima pubblicazione saranno date direttamente a testo, col numero di pagina relativo). Si sarebbero potute utilmente aggiungere in appendice, al volume di Hacca, le Due note su Kafka datate 1970 e comprese nel volume postumo Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, introduzione di Romano Luperini, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 411-2.
[4] Nel primo dei testi, Kafka, questo ebreo di Praga, del ’46, Fortini accosta la «calma» e la «giustezza» delle pagine di Kafka – da lui sottolineate come dal Musil che non poteva verosimilmente conoscere –, nonché la sua «altissima forza morale», al «leopardiano Elogio degli uccelli» o al «Cantico del gallo silvestre» (27). Nel saggio che dà il titolo al libro di Hacca, Capoversi su Kafka (uscito sul «Politecnico» nell’ottobre del ’47), evidente la risposta – implicita – ad «Action»: «così come è possibile bruciarlo, è anche possibile spingere a calci Franz Kafka nel gioco della dialettica e farlo collaborare al progresso umano. Ma anche i giornalisti meno sensibili dovrebbero sentire il vergognoso scetticismo, la malafede, di un simile procedere. D’altronde Kafka, o Leopardi, Dante o Dostoevskij non sono né con noi, né contro di noi: sono evidentemente, con i migliori» (43). Sul rapporto con Leopardi – mi pare tuttora sottovalutato, in genere, dagli interpreti di Fortini – si veda almeno Luca Lenzini, Il paesaggio e la gioia. Osservazioni su Leopardi in Fortini, in Id., Il poeta di nome Fortini, Lecce, Piero Manni, 1999, pp. 49-72; e Riccardo Bonavita, La scuola della gioia. Le “occasioni” leopardiane di Fortini [2002], in Id., Leopardi. Descrizione di una battaglia, a cura di Giuliana Benvenuti, introduzione di Marco A. Bazzocchi, Torino, Aragno, 2012, pp. 179-208. A Fortini aveva dedicato, Riccardo, la sua tesi di dottorato, che è stata di recente pubblicata, a sua volta in occasione del centenario: L’anima e la storia. Struttura delle raccolte poetiche e rapporto con la storia in Franco Fortini, a cura di Thomas Mazzucco, prefazione di Luca Lenzini, premessa di Giuliana Benvenuti, Milano, Biblion, 2017
[5] Cfr. Gabriele Fichera, La verifica della gioia: Fortini traduce Kafka [2011], in Id., Le asine di Saul. Saggismo e invenzione da Manzoni a Pasolini, Leonforte (EN), Euno, 2016, pp. 191-209.
[6] Nel citato saggio del ’48 dice esplicitamente, Fortini: «quel che ci distingue dagli interpreti psicologici od esistenzialisti (sulla linea di Heidegger) si è che quanto essi vedono, in Kafka, immagine eterna della condizione umana, per noi è storicamente condizionato» (57).
[7] Molto nota è la lettura del racconto da parte di Vladimir Nabokov nelle Lezioni di letteratura tenute al Wellesley College e alla Cornell Universiy fra il 1941 e il ’58, e pubblicate postume nell’80 (a cura di Fredson Bowers, introduzione di John Updike, Milano, Garzanti, 1982, pp. 299-335), il quale dalla descrizione da parte di Kafka desume che non di uno scarafaggio si trattasse, in effetti, bensì di uno scarabeo sacro, un coleottero insomma dotato di ali che, dunque, si sarebbe potuto salvare volando via dalla sua stanza (si vedano i disegni a p. 308). Anche Levi (segnala l’entomologo di complemento Belpoliti – cfr. il suo La strategia della farfalla, Milano, Guanda, 2016 –, che condivide appunto con Levi, oltre che notoriamente con Nabokov, tale interesse) sembra di questa opinione: cfr. Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda, 2016, p. 408 (e tutta la “voce” relativa, «Scarabeo/scarafaggio», alle pp. 408-10).
[8] Franco Fortini, Un giorno o l’altro, cit., p. 412.
[9] Cfr. René Char, Arthur Rimbaud, traduzione di Roberto Rossi, in Arthur Rimbaud, Illuminazioni, a cura di Cosimo Ortesta, Milano, SE, 1986, pp. 121-7 (ora in Id., Ricerca della base e della vetta [1965], a cura di Ilaria Gremizzi e Sandro Palazzo, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 111-7).
[10] Primo Levi, Nota al Processo di Kafka [1983], in Id., Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, vol. II, p. 1532. Decisamente anodino l’ulteriore, brevissimo pezzo su Kafka pubblicato da Levi su «Il Tempo» il 5 luglio 1983, Una misteriosa sensibilità (ivi, p. 1541).
[11] Id., Tradurre Kafka [1983], in Id., Racconti e saggi [1986]; ora in Id., Opere complete cit., vol. II, pp. 1096-8.
[12] Si veda l’acuta “voce” «Franz Kafka» in Marco Belpoliti, Primo Levi, di fronte e di profilo, cit., pp. 442-6.
[13] Un’aggressione di nome Franz Kafka, «il manifesto», 5 maggio 1983: in Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, pp. 188 sgg. In un’altra intervista di quei giorni (di Laura Mancinelli, uscita col titolo Come interpretare i labirinti di Kafka, in «Il secolo XIX», 7 maggio 1983), ora raccolta nella nuova edizione appena uscita del numero monografico su Levi di «Riga» (Primo Levi, a cura di Mario Barenghi, Marco Belpoliti e Anna Stefi, Milano, marcos y marcos, 2017, pp. 83 sgg.), si parla sempre traumaticamente di un «impatto» con Kafka, «impatto tanto più traumatizzante quanto più grande è la personalità dello scrittore da tradurre» (una nuova e assai ampliata raccolta di interviste leviane, curate sempre da Belpoliti, è annunciato quale terzo volume delle nuove Opere complete, la prossima primavera da Einaudi).
[14] Primo Levi, Dello scrivere oscuro [1976], in Id., L’altrui mestiere [1985]; ora in Id., Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, vol. II, p. 842. Il pezzo di Levi suscitò una polemica con Giorgio Manganelli, autore simmetrico rovesciato rispetto a Levi, ricostruita in modo eccellente da Domenico Scarpa: Oscuro/Chiaro. Giorgio Manganelli vs. Primo Levi [2006], in Id., Storie avventurose di libri necessari, Roma, Gaffi, 2010, pp. 335-79 e 459-66 (ma si veda già, di Scarpa, il saggio simmetrico rovesciato, Chiaro/Oscuro, compreso nel monografico di «Riga» già nella princeps del ’97 e ora alle pp. 238-55 dell’ultima edizione cit.).
[15] Primo Levi, La ricerca delle radici [1981], ivi, p. 211.
[16] Cfr. Jean-Luc Nancy, L’intruso [2000], a cura di Valeria Piazza, Napoli, Cronopio, 2000.

testo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=30456

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