06 gennaio 2018

L' ARTE RIBELLE DEL 900


«Arte ribelle. 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto», la rassegna a cura di Marco Meneguzzo presso la Galleria del Credito Valtellinese. Un affresco dei linguaggi alternativi che cercavano di rifondare la società insieme al pubblico, diventato la «collettività».

Arianna Di Genova

La sgargiante grammatica della contestazione

Quando ancora i selfie non esistevano e l’unica possibilità di lasciare una traccia di sé era entrare in una cabina per le fotografie istantanee, l’artista Franco Vaccari pensò bene di mettere quell’architettura dell’effimero a disposizione del pubblico della Biennale per dar vita a una serie di autoscatti (da attaccare poi alla parete), coinvolgendo chiunque nella «rappresentazione» e nella finzione che è insita in ogni opera. Era il 1972 e già da diversi anni tutto era cambiato. La mutazione principale aveva scosso le fondamenta dei linguaggi per perseguire una «utopia dello scopo» che, in realtà, era in atto fin dagli esordi del Novecento.

Arte ribelle. 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto (prorogata fino al 20 gennaio 2018; la rassegna si sdoppia anche a Fano, alla Galleria Carifano in Palazzo Corbelli, con una tappa dove viene esposta la collezione di Cesare Marraccini) è il progetto ideato da Marco Meneguzzo che i responsabili delle Gallerie del Credito Valtellinese di Milano – Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra – hanno accolto per creare una narrazione composita del ’68 e delle sue propaggini. 
È una mostra, quella milanese rispetto alla romana presso la Galleria nazionale di arte moderna, che racconta l’altro volto del decennio dei movimenti, senza voler «sciogliere la matassa dei linguaggi», ma operando una scelta di campo. 
E la prima – e più evidente – concerne sicuramente i fruitori dell’arte, i cosiddetti «visitatori». Così Meneguzzo, seguendo le indicazioni degli autori più politicizzati, si orienta verso la collettività, nuovo soggetto che prende prepotentemente la scena, mandando in soffitta il più generico «pubblico». Si va dalla strada alle fanzine, dalle manifestazioni allestite creativamente dagli artisti ai quadri e ai collage, guardando al Sessantotto come a una «categoria dello spirito», con confini geopolitici molto larghi che finiscono per superare quelli meramente temporali.

Naturalmente, la rivoluzione è avvenuta assai prima delle rivolte di piazza e all’università. L’«alterità» di molti protagonisti di quell’epoca era già attiva e innescata. «Non ho adeguato il mio linguaggio. Direi che la furia di quegli anni, io la sentivo anche nel mio lavoro», dice Emilio Isgrò.
Nel 1968, la «grammatica della contestazione» si semplifica e privilegia alcuni stilemi, scalzando gli altri. Uno fra tutti, l’uso della fotografia fuori contesto, ritagliata dalla cronaca giornalistica e ritrattata ad hoc. Fernando De Filippi nel ’62 già faceva dei lavori usando le prime pagine dell’Unità.
Amatissime anche le strisce dei fumetti, un tempo considerati fenomeni appartenenti alle subculture, ora «spazi» artistici per la divulgazione. Le icone stesse delle lotte operaie e comuniste – falce e martello, bandiere, striscioni, Lenin – divengono simboli che sono riproposti in pitture (Franco Angeli) così come in collage arditissimi, mentre tra i filoni che prendono il volo c’è quello psichedelico, favorito dalle pratiche dell’editoria alternativa, da ciò che arrivava dall’America, da un immaginario ipercontaminato, che guardava all’oriente e agli stati di alterazione permanente, agli slogan politici, alla guerra del Vietnam e all’illustrazione per ragazzi. Matteo Guarnaccia, intervistato da Meneguzzo nel bel catalogo che accompagna l’esposizione, racconta come l’arte si coniugasse con il piacere: si comprava ai tavolini dei bar, seguendo solo il proprio desiderio.

Visitando la mostra alle Gallerie del Credito Valtellinese, è chiarissimo che dal 1968 al 1978 la rivoluzione estetica ha operato soprattutto attraverso una serie di cortocircuiti esplosivi e interdisciplinari, aprendo nuovi spazi alla comunicazione e all’uso della parola (che andava oltre il concetto di autorialità).
C’era chi, come Nanni Balestrini, proveniva da esperienze letterarie – Gruppo 63 e poesia visiva. Per lui era importante «rappresentare i temi in modo leggero, disincantato, senza la cupezza dei Realismi, della propaganda», ma con una gioia per l’immagine che non necessariamente «rompesse» con la pittura. Per Pablo Echaurren fu la lettura di Marx ed Engels a catapultarlo verso «la creatività diffusa, colllettiva, connettiva, non separata dalla vita reale».

La rotta di collisione dell’Arte ribelle investe un certo tipo di società, permettendo – anche attraverso pratiche di occupazione e condivisione degli strumenti espressivi – la riappropriazione della città. Titolo quest’ultimo del film sperimentale (visibile in mostra) di Ugo La Pietra, che «cercava di togliere di dosso tutto ciò che si era malamente accumulato».

Il manifesto – 28 novembre 2017

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