«Arte ribelle.
1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto», la rassegna a cura di
Marco Meneguzzo presso la Galleria del Credito Valtellinese. Un
affresco dei linguaggi alternativi che cercavano di rifondare la
società insieme al pubblico, diventato la «collettività».
Arianna Di Genova
La sgargiante
grammatica della contestazione
Quando ancora i selfie
non esistevano e l’unica possibilità di lasciare una traccia di sé
era entrare in una cabina per le fotografie istantanee, l’artista
Franco Vaccari pensò bene di mettere quell’architettura
dell’effimero a disposizione del pubblico della Biennale per dar
vita a una serie di autoscatti (da attaccare poi alla parete),
coinvolgendo chiunque nella «rappresentazione» e nella finzione che
è insita in ogni opera. Era il 1972 e già da diversi anni tutto era
cambiato. La mutazione principale aveva scosso le fondamenta dei
linguaggi per perseguire una «utopia dello scopo» che, in realtà,
era in atto fin dagli esordi del Novecento.
Arte ribelle. 1968-1978.
Artisti e gruppi dal Sessantotto (prorogata fino al 20 gennaio
2018; la rassegna si sdoppia anche a Fano, alla Galleria Carifano in
Palazzo Corbelli, con una tappa dove viene esposta la collezione di
Cesare Marraccini) è il progetto ideato da Marco Meneguzzo che i
responsabili delle Gallerie del Credito Valtellinese di Milano –
Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra – hanno accolto per creare una
narrazione composita del ’68 e delle sue propaggini.
È una mostra,
quella milanese rispetto alla romana presso la Galleria nazionale di
arte moderna, che racconta l’altro volto del decennio dei
movimenti, senza voler «sciogliere la matassa dei linguaggi», ma
operando una scelta di campo.
E la prima – e più evidente –
concerne sicuramente i fruitori dell’arte, i cosiddetti
«visitatori». Così Meneguzzo, seguendo le indicazioni degli autori
più politicizzati, si orienta verso la collettività, nuovo soggetto
che prende prepotentemente la scena, mandando in soffitta il più
generico «pubblico». Si va dalla strada alle fanzine, dalle
manifestazioni allestite creativamente dagli artisti ai quadri e ai
collage, guardando al Sessantotto come a una «categoria dello
spirito», con confini geopolitici molto larghi che finiscono per
superare quelli meramente temporali.
Naturalmente, la
rivoluzione è avvenuta assai prima delle rivolte di piazza e
all’università. L’«alterità» di molti protagonisti di
quell’epoca era già attiva e innescata. «Non ho adeguato il mio
linguaggio. Direi che la furia di quegli anni, io la sentivo anche
nel mio lavoro», dice Emilio Isgrò.
Nel 1968, la «grammatica della contestazione» si semplifica e privilegia alcuni stilemi, scalzando gli altri. Uno fra tutti, l’uso della fotografia fuori contesto, ritagliata dalla cronaca giornalistica e ritrattata ad hoc. Fernando De Filippi nel ’62 già faceva dei lavori usando le prime pagine dell’Unità.
Nel 1968, la «grammatica della contestazione» si semplifica e privilegia alcuni stilemi, scalzando gli altri. Uno fra tutti, l’uso della fotografia fuori contesto, ritagliata dalla cronaca giornalistica e ritrattata ad hoc. Fernando De Filippi nel ’62 già faceva dei lavori usando le prime pagine dell’Unità.
Amatissime anche le
strisce dei fumetti, un tempo considerati fenomeni appartenenti alle
subculture, ora «spazi» artistici per la divulgazione. Le icone
stesse delle lotte operaie e comuniste – falce e martello,
bandiere, striscioni, Lenin – divengono simboli che sono riproposti
in pitture (Franco Angeli) così come in collage arditissimi, mentre
tra i filoni che prendono il volo c’è quello psichedelico,
favorito dalle pratiche dell’editoria alternativa, da ciò che
arrivava dall’America, da un immaginario ipercontaminato, che
guardava all’oriente e agli stati di alterazione permanente, agli
slogan politici, alla guerra del Vietnam e all’illustrazione per
ragazzi. Matteo Guarnaccia, intervistato da Meneguzzo nel bel
catalogo che accompagna l’esposizione, racconta come l’arte si
coniugasse con il piacere: si comprava ai tavolini dei bar, seguendo
solo il proprio desiderio.
Visitando la mostra alle
Gallerie del Credito Valtellinese, è chiarissimo che dal 1968 al
1978 la rivoluzione estetica ha operato soprattutto attraverso una
serie di cortocircuiti esplosivi e interdisciplinari, aprendo nuovi
spazi alla comunicazione e all’uso della parola (che andava oltre
il concetto di autorialità).
C’era chi, come
Nanni Balestrini, proveniva da esperienze letterarie – Gruppo 63 e
poesia visiva. Per lui era importante «rappresentare i temi in modo
leggero, disincantato, senza la cupezza dei Realismi, della
propaganda», ma con una gioia per l’immagine che non
necessariamente «rompesse» con la pittura. Per Pablo Echaurren fu
la lettura di Marx ed Engels a catapultarlo verso «la creatività
diffusa, colllettiva, connettiva, non separata dalla vita reale».
La rotta di collisione
dell’Arte ribelle investe un certo tipo di società,
permettendo – anche attraverso pratiche di occupazione e
condivisione degli strumenti espressivi – la riappropriazione della
città. Titolo quest’ultimo del film sperimentale (visibile in
mostra) di Ugo La Pietra, che «cercava di togliere di dosso tutto
ciò che si era malamente accumulato».
Il manifesto – 28
novembre 2017
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