Da Ippocrate a Ovidio,
dalla melancholia all’atra bilis, il mal di vivere in Grecia e a
Roma: tanto sentito che i Romani fecero della depressione una divinità
(Murcia) che aveva il potere di indebolire gli animi. Un saggio di
Donatella Puliga tra semantica, antropologia e
psicologia.
Giuseppe Pucci
Perché i Romani
misero la depressione sugli altari
«Non c’è nulla di
nuovo sotto il sole», dice il biblico Qohelet. Questo vale anche per
quello che nell’epoca moderna – specialmente dopo il fortunato
libro di Giuseppe Berto – siamo avvezzi a chiamare ‘il male
oscuro’. Lo dimostra, in un intrigante saggio intitolato La
depressione è una dea. I Romani e il male oscuro (il Mulino
«Antropologia del mondo antico», pp. 248, € 20,00), Donatella
Puliga, classicista dell’Università di Siena.
L’indagine si focalizza sulle manifestazioni del mal di vivere nell’antichità greca e, soprattutto, romana, ma la depressione è antica quanto l’uomo. Si sarebbe potuto citare a questo proposito il Papiro di Berlino 3024, in cui già sullo scorcio del terzo millennio prima della nostra èra un anonimo egiziano distillò in 156 impressionanti righe la sua cupa voglia di farla finita con una vita che gli appariva insopportabile.
I greci, sulla scorta della dottrina di Ippocrate, collegarono la depressione a un eccesso di bile nera (melancholé) nell’organismo. Lo stato di avvilimento e scoramento che tale ‘umor nero’ causava era definito col termine melancholia, dal quale deriva la nostra ‘malinconia’, quella ‘ninfa gentile’ – così la chiamava Pindemonte – nelle cui braccia i romantici si gettarono con morbido compiacimento.
Una scelta rilevante
I romani, nel chiamare la bile nera atra bilis, fecero una scelta semantica rilevante: a differenza dell’anodino aggettivo niger, che attiene alla sola sfera cromatica, ater ha una connotazione negativa sul piano assiomatico, indica un’oscurità che è anche interiore. A questa virata lessicale si collega un ampliamento dello spettro sintomatico della depressione, che a Roma include l’ira, e il furor, ovvero tutto ciò che mette l’individuo in uno stato di patologica instabilità, che non lo fa più essere padrone di se stesso. Non sfuggiva peraltro agli antichi che a essere melancolici erano sovente i poeti e gli artisti. Un trattato della scuola aristotelica mette chiaramente in relazione melancolia e creatività, osservando che chi soffre di questo disturbo è soggetto a essere ‘posseduto’ da un agente esterno: la follia, ma anche l’ispirazione artistica, che spesso sono le due facce di una stessa medaglia. Un’idea, questa, che avrà lunga fortuna in età moderna, da Marsilio Ficino a Baudelaire, da Dürer a Van Gogh a Munch e oltre.
Acuminate pagine Puliga dedica al mal di vivere in alcuni grandi della letteratura latina: Lucrezio, Cicerone, Orazio, Seneca, e specialmente Ovidio, il poeta che più e meglio di ogni altro seppe notomizzare, senza reticenze, anzi quasi con clinica precisione, la depressione in cui piombò negli anni del forzato esilio sulle lontane coste del Mar Nero. Egli si rendeva lucidamente conto del fatto che il suo malessere era psicofisico («la mia mente non sta meglio del mio corpo, l’una e l’altro sono malati e io sopporto una doppia infermità». L’angoscia (anxietas animi) che mai lo abbandonava (quae mihi sempre adest) e la ‘noia’ (taedium), ovvero il disgusto per la vita, lo portavano a coltivare il desiderio di morte (amor mortis), anzi a vedersi già come un morto che cammina. Nondimeno riuscì a dare una veste letteraria sofisticatissima (il capitolo che il saggio gli dedica si intitola, molto appropriatamente, l’arte di essere depresso) a questa sua fondamentalmente sincera autoanalisi, trovando proprio nella scrittura l’unico possibile sostegno terapeutico: «Se vivo, e resisto … devo ringraziare te, o musa. Tu mi dai sollievo … tu vieni a me come una medicina».
Il contributo più originale del libro sta però nell’individuazione di una differenza semantica tra gli antichi e noi, che rivela una interessante differenza antropologica (Puliga è membro attivissimo del Centro Antropologia e Mondo Antico di Siena): noi associamo la depressione all’essere schiacciati verso il basso, come gravati da un peso (è questo il significato del verbo de-primere), mentre i romani la collegavano all’idea del ‘marcire’, dell’andare in putrefazione. Anche l’animus, la sede immateriale delle facoltà psichiche, poteva secondo i romani decomporsi al pari della materia organica. Ma la categoria del marcio era più ampia per loro che per noi: marcidus/murcidus comprendeva tutto ciò che è fiacco, languido, vacillante, torpido, obnubilato. La depressione era perciò vista come uno stato di spossatezza, di abbattimento, di progressivo venir meno delle forze vitali.
Triangolo di
Lévi-Strauss
Molto opportunamente
Puliga confronta la pregnante metafora del marcio a Roma con il noto
‘triangolo culinario’ di Lévi-Strauss – ai vertici del quale
stanno il crudo, il cotto e il putrido –, osservando che se in
quello schema il cotto è la trasformazione culturale del crudo e il
putrido è la trasformazione naturale tanto del crudo che del cotto,
a Roma la condizione di putrescenza non era estranea alla sfera
culturale, dal momento che connotava «la deriva delle emozioni e
dell’interiorità verso la dimensione della ‘morte nella vita’».
La polisemia del marcere latino era ipostatizzata nella figura di
Murcia, uno degli innumerevoli ‘piccoli dèi’ che
nell’immaginario dei romani presiedevano ai molteplici aspetti
dell’esistenza umana e sui quali Sant’Agostino – che ce li
elenca – esercitò il suo sarcasmo. Murcia aveva il potere di
infiacchire gli animi, rendendo l’individuo non reattivo, privo di
iniziativa, di entusiasmo. Possiamo perciò dire – echeggiando il
titolo del libro – che i romani misero la depressione sugli altari.
Apparentato alla sfera del marcio era – spiega Puliga – un altro termine che i romani utilizzavano per definire il male oscuro: veternus. Collegato etimologicamente a vetus (vecchio), indica la degenerazione conseguente alla senescenza (il cui esito finale è appunto la putrescenza) e la fenomenologia psichica che l’accompagna (letargia, indolenza, apatia: qualcosa di simile all’akrasía dei greci), rendendo in qualche modo vecchi prima del tempo.
È noto che in inglese e in altre lingue moderne, per alludere alla depressione si usa l’espressione idiomatica ‘cane nero’ (sorprenderà apprendere che l’applicava a se stesso anche Churchill, che conosciamo per uomo tutt’altro che abulico). Non tutti sanno però che l’attribuzione della metafora a Orazio, che si legge anche in autorevoli dizionari, è frutto di un curioso equivoco. Orazio – chiarisce Puliga – parla di una ‘compagna nera’ (comes atra) che perennemente affianca il malinconico, non di una cagna (canis) nera!
Schiavi melanconici
Benché a Roma gli schiavi fossero considerati alla stregua di cose (res), erano pur sempre esseri umani, e dunque accadeva anche a loro di cadere nella depressione (certo la loro condizione gliene dava più di un motivo). Scopriamo però con Puliga che un serio dibattito divise i giuristi romani sulla possibilità di chiedere indietro al venditore il prezzo pagato per un servus melancholicus. Le cose potevano avere un’anima sofferente?
L’ultimo capitolo del libro (Murcia in convento) indaga quella particolare forma di depressione che rappresentava il lato oscuro della vita monastica: quell’inerzia eccessiva a cui portava la vita contemplativa diventerà il vizio capitale dell’accidia.
Molti sono i fili con cui l’autrice ha tessuto la sua tela: se l’ordito è rappresentato dalla civiltà classica e dall’antropologia, la trama è data dalla psicologia, dalla psichiatria e anche dalla fisiologia. In tutti questi campi Donatella Puliga si muove con sicurezza e scioltezza: la sprezzatura della scrittura lascia comunque trasparire l’ingente lavoro di ricerca multidisciplinare di cui il saggio è apprezzabile frutto.
Il Manifesto/Alias – 21
gennaio 2018
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