21 gennaio 2018

ADORNO SU KAFKA


T. W. Adorno


Una prosa limpida e sicura di sé non può non essere passata dal contatto con la follia. Theodor Wiesengrund Adorno, nel suo stupendo saggio su Kafka, “Appunti su Kafka”, pubblicato in “Prismi” (tr. italiana presso Einaudi 1972, pp. 249-282), pensa che la follia sia l’anonimato, la collettivizzazione, la mancanza di soggettività autonoma. E in effetti l’opera di Kafka brulica di fantasmi, di sosia, di duplicazioni, di persone che si ripetono e si rimandano reciprocamente. Questa follia Kafka la frequenta, non può rimanerne immune. È un fondo che ogni persona sensibile, per quanto voglia rimanere isolata e non contaminata, porta dentro di sé. Ma il linguaggio di Kafka, duro nella sua ostinazione a voler schivare ogni sentimentalità, impegnato soltanto a voler descrivere l’orrore della collettivizzazione e della ripetizione come se fosse normale, sormonta questa follia onnipresente e s’impianta in una sicurezza di sé che non ha nulla di folle: “Nella sua prosa non vi è nulla di demente - come in quella di un narratore da cui egli apprese una lezione decisiva, Robert Walser - ogni proposizione è stata plasmata da uno spirito che ha il pieno controllo di sé, ma che prima ha dovuto strappare ogni proposizione alla zona della pazzia in cui, nell’epoca dell’accecamento universale, che il “buon senso” non fa altro che ribadire, ogni conoscenza deve arrischiarsi per poter diventare tale” (p. 260). L’opera di Kafka, che distrugge le false pretese dell’io di porsi come un individuo, non vuole neppure duplicare se stessa, non vuole essere imitata; questa è la radice secondo Adorno della disposizione data dallo scrittore di bruciare tutti i suoi manoscritti. Nella zona ardua in cui si muove Kafka non vi è spazio per il ronzio della modernità, per una specie di traffico turistico spirituale. Ma è velleitario e spudorato pensare di superarlo senza esserci stato: “Nella zona dov’egli si è recato non deve prosperare il traffico turistico; ma chi si comportasse nello stesso modo senza esserci stato cadrebbe nella pura e semplice spudoratezza” (p. 260). Tanto è stretto il contatto fra la limpidezza del linguaggio e l’esperienza della follia.

Marco Ninci

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