Jurij Lotman e la cultura russa
Dopo aver danzato con Vronskij un
cotillon durante il quale nulla di memorabile è stato detto, Kitty
aspettava la mazurca con la segreta certezza di ascoltare le parole che
avrebbero legato la sua vita a quella del brillante ufficiale della
Guardia. Perché Kitty era così sicura che la dichiarazione di Vronskij
sarebbe avvenuta proprio con la musica della mazurca e non con quella
del cotillon? E perché riconosce l’incedere della catastrofe nel momento
stesso in cui l’ufficiale rivolge a sorpresa l’invito per la mazurca ad
Anna Karenina? Altre storie, altre domande. Era proprio necessario che
Onegin e Lenskij si sfidassero a duello? E l’autore delle loro
traversie, Puškin, non avrebbe potuto evitare di esporsi alla pallottola
di D’Anthès? Interrogativi come questi rendono tangibile la natura
dinamica, mutevole, storica di ciò che Jurij Lotman ha chiamato
“semiosfera”: un ambiente fatto di codici culturali di cui ci serviamo
con la stessa naturalezza con cui parliamo la lingua materna. Poiché i
testi artistici – poemi, romanzi, dipinti – sono sempre articolazioni e
varianti di una forma di vita, chi trascurasse la grammatica di
quest’ultima, si voterebbe a un fraintendimento sistematico di quei
testi. La speranza e la successiva delusione di Kitty nel romanzo di
Tolstoj, in apparenza così ovvie, rivelano una maggiore complessità di
motivi psicologici a chi abbia acquisito qualche familiarità con la
trama semiotica di quel topos della cultura ottocentesca che è il ballo.
La ricerca filologica, avendo per
oggetto e campo di battaglia la semiosfera in cui viviamo, è tutto
tranne che un esercizio di erudizione. Somiglia piuttosto a una attività
di pronto soccorso per limitare i danni delle tante Cernobyl’ culturali
(l’immagine è di Lotman), che desertificano i nostri modi di pensare e
amare, di godere e patire. Per Lotman, fondatore della scuola semiotica
di Tartu negli anni Sessanta, la filologia non condiscende talvolta, e a
denti stretti, a “divulgare” i suoi preziosi tesori, ma, avendo per
unico tema lo spirito del tempo e i fili che lo vincolano a precedenti
forme di vita, è costitutivamente divulgativa. Detto altrimenti, non può
che svolgere un lavoro di chiarificazione sistematica su quel che i
viventi della nostra specie fanno e dicono e credono. Per esempio, sul
significato di un finto neo che le dame del tempo andato si applicavano
sul labbro. Non c’è nulla di stonato dunque nel fatto che tra il 1986 e
il 1991 la televisione dell’Unione sovietica abbia trasmesso cinque
cicli di lezioni in cui Lotman espone con straordinaria semplicità
alcuni capisaldi delle sue ricerche pluridecennali. Nascono così le Conversazioni sulla cultura russa,
pubblicate in Russia nel 2005 e ora proposte da Bompiani nella
traduzione di Valentina Parisi, a cura di Silvia Burini (pp. 437, euro
20).
Già nella prima conversazione televisiva aleggia la domanda che farà da leitmotiv
dell’intero ciclo: di che cosa parliamo quando parliamo di cultura? Le
risposte mai univoche a questo interrogativo di fondo puntano però, nel
loro insieme, a riscattare il termine da indebite ipoteche psicologiche
(che riducono la cultura a una faccenda personale), nonché dalla sua
esclusiva identificazione con l’ambito artistico. Come per Wittgenstein è
una pura e semplice superstizione l’idea di un “linguaggio privato”,
così per Lotman non si dà una cultura che non sia radicata nella sfera
pubblica, nei modi di comportarsi collettivi, nella dimensione
sovrapersonale (nulla è più storico, e intessuto da voci anonime, di una
appassionata lettera d’amore). Un fenomeno culturale, mai coincidendo
per intero con l’opera di qualche genio artistico, fa la sua comparsa
ovunque vi siano segni mediante i quali comprendersi o, al limite,
fraintendersi. Gli innumerevoli sistemi di segni che formano una cultura
(dalla moda alle cerimonie religiose, dai rituali mondani al teatro)
costituiscono un mosaico variegato, i cui tasselli differiscono e
convivono, anzi convivono proprio perché differiscono.
Come accade quando si studia il
funzionamento di una lingua, anche una specifica cultura – quella russa,
nel nostro caso – può essere esaminata in due modi diversi: o
fotografandone fisionomia in un singolo momento storico, o filmandone
sviluppo e metamorfosi nel corso del tempo. Analisi sincronica o
diacronica, per tenersi al gergo di Saussure.
Sono numerose le lezioni di Lotman che
offrono un dagherrotipo della cultura quotidiana negli anni Dieci e
Venti dell’Ottocento, di essa isolando gli aspetti che consentono una
comprensione perspicace dei grandi testi elaborati durante la cosiddetta
“età dell’oro” delle lettere russe: l’universo femminile, il ballo, il
viaggio, la corrispondenza epistolare, ma anche gli usi e i costumi
delle consorterie letterarie e il codice comportamentale cui si
attenevano i membri delle società segrete (i futuri decabristi).
Impossibile venire a capo dei grandi romanzi del primo Ottocento – si
pensi all’Evgenij Onegin puskiniano o a Un eroe del nostro tempo
di Lermontov – senza conoscere le regole del duello russo, che a loro
volta diventano intellegibili soltanto alla luce dei due sentimenti
basilari sui quali è imperniata l’intera cultura del periodo: la
vergogna e l’onore. Il grande merito della scuola di Tartu, che pure
aveva assimilato fino in fondo la lezione del formalismo russo, è quello
di aver infranto il tabù formalista secondo il quale mai si poteva
varcare i confini del testo. Nel violare questo divieto, Lotman e i suoi
collaboratori hanno spalancato nuovi orizzonti, reintroducendo un
riferimento alla mutevole realtà storica. Poiché il testo artistico è a
sua volta un modello di realtà, esso contribuisce a spiegare quella vita
quotidiana da cui, per tanti versi, è spiegato. Secondo Lotman, si ha a
che fare con un circolo virtuoso: la realtà è, in certa misura, figlia
dei suoi figli chiamati poemi e romanzi.
Qualche parola, infine, sul Lotman
filmico o diacronico. A suo giudizio, la cultura intrattiene un rapporto
privilegiato con la capacità di ricordare, presentandosi anzi come
«l’insieme dell’informazione non genetica, la memoria non ereditaria
dell’umanità» (S. Burini). I ricordi collettivi, cioè pubblici, si
depositano tanto nelle opere d’arte, quanto nei modi di agire e nei
valori morali. Considerata dall’angolo visuale diacronico, l’“età
dell’oro” del principio dell’Ottocento è il punto d’arrivo di un
processo cominciato un secolo prima a opera di Pietro il Grande,
propulsore di una drastica modernizzazione del paese e fautore, suo
malgrado, della pervasiva e inestirpabile burocratizzazione dello Stato
russo. Molte lezioni lotmaniane sono dunque incentrate sul peculiare
illuminismo dell’aristocrazia russa – l’unico ceto diventato davvero
europeo – nel periodo compreso tra l’inizio del Settecento e il 1825,
l’anno cruciale che, con la disfatta del movimento decabrista, sancisce
il tramonto di un’intera epoca, aprendo la strada a una intelligencija ormai schiettamente borghese.
Le lezioni di Lotman sulla memoria
storica sono anche lezioni di etica. Accostarsi a una cultura lontana
dalla nostra vuol dire mettere in risalto il distacco nei confronti
della propria vita che caratterizza in generale l’Homo sapiens:
quel distacco che permette di osservare se stessi come dall’esterno. Al
calare del sipario sull’epoca sovietica, nel momento di maggiore
appannamento e disgregazione della semiosfera in cui si abita giorno
dopo giorno, Lotman ha insegnato questo fondamentale, e salvifico,
esercizio di straniamento.
Articolo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/p=30748
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