Chagall, Il violinista
Pochi sanno che tra la
fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo s'è
verificato un fenomeno di alto interesse storico e culturale:
l'incontro apparentemente incongruo di due tradizioni lontane tra loro,
quella anarchica e quella ebraica. Eppure quell'incontro c'è stato,
dando luogo a un vero e proprio movimento ebraico-libertario, con
decine di migliaia di militanti sparsi lungo la diaspora yiddish, tra
la Russia e le Americhe. Nel 2000 a Venezia un Convegno
internazionale, organizzato dal Centro Studi Libertari/ Archivio «G.
Pinelli» di Milano, in collaborazione con il Centre International de
Recherches sur l’Anarchisme (CIRA) di Lausanne ne ha ricostruito
storie e percorsi. Materiali raccolti in un volume di Eleuthera di
cui proponiamo il saggio introduttivo.
Amedeo Bertolo
Anarchia ed ebraismo
Tra la fine del
diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo s’è
verificato un fenomeno di alto interesse storico e politico:
l’incontro incongruo di due tradizioni culturali apparentemente
estranee, quella anarchica e quella ebraica.
È un incontro poco noto
e ancor meno studiato. Eppure c’è stato, soprattutto (ma non solo)
in un contesto socio-storico abbastanza definito: dapprima nella
«Zona» di residenza coatta (cioè quella parte, polacca, ucraina,
baltica, ecc. dell’allora impero zarista) che è stata culla della
cultura yiddish, vale a dire dell’ebraismo est-europeo. Poi, in
modo via via crescente e quasi esplosivo, il processo di reciproca
attrazione fra cultura ebraica e utopia anarchica si manifesta nella
massiccia emigrazione yiddish verso l’Europa occidentale e le
Americhe.
È soprattutto in
Inghilterra, negli Stati Uniti e in Argentina che il nascente
movimento operaio ebraico, a cavallo dei due secoli, viene
organizzato in modo quantitativamente significativo secondo
linee qualitative di
ispirazione (o quanto meno fascinazione) anarchica. Decine di
migliaia sono i membri delle organizzazioni sindacali e culturali
libertarie, in Nord e in Sud America, e decine di migliaia sono i
lettori di giornali anarchici yiddish. Tanti. Troppi per non essere
qualificati come fenomeno storico, come «incontro storico». Perché
questo sia avvenuto è tutto da indagare e discutere, e
quest’antologia è un forte contributo a questo lavoro, il primo di
tale ampiezza, a quanto ci risulti.
Cantava Léo Ferré, in
Les Anarchistes: «Y’en a pas un sur cent et pourtant ils existent.
/ La plupart Espagnoles, allez savoir pourquoi». Chissà perché.
Anche per il caso spagnolo, di forte incontro tra un popolo e l’idea
anarchica (un incontro, uno dei pochi, di superamento di quell’«uno
per cento»), ci sono stati vari tentativi di spiegazione,
soprattutto di storici di formazione marxista che non riuscivano a
digerire quella eccezione alle loro impostazioni
storico-dialettico-materialiste.
Così, ad esempio, è
stata addotta a spiegazione l’iberica tradizione
religioso-messianico-apocalittica. Ma questo può forse valere per i
contadini anarchici dell’Andalusia, non certo per gli
anarco-sindacalisti catalani. Oppure la tradizione comunalista e
federalista, repressa e risorgente. Oppure...
Così, anche per
l’anarchismo ebraico ci sono stati e ci sono tentativi di
ricondurre lo «strano incontro» a una tradizione
messianico-apocalittica (prevalentemente chassidica, ma in realtà
ricorrente). Oppure, interpretazione compatibile ma non
necessariamente congruente con la precedente, l’incontro viene
spiegato con l’impatto tardo-illuministico (cioè della Haskalah,
la versione ebraica dell’illuminismo) su una cultura fortemente
messianica. Per cui, il «popolo del verbo», il popolo della parola,
scopre che la «parola» non è di dio, ma dell’uomo: un anarchismo
come accelerato disincanto e reincanto del mondo...
La rivoluzione salvifica
(secondo altre «parole», secondo un altro «libro») come nuovo
messianismo? Ma, allora, come si spiega il fatto che l’anarchismo
yiddish (quello più prossimo alla cultura messianica) si sviluppa
secondo linee decisamente laiche (o dichiaratamente ateistiche) e
positivistiche, poco o nulla millenaristiche? E come si spiega il
fatto che, se c’è stato un anarchismo ebraico «religioso»,
«mistico» e comunque più tardo-romantico che neo-razionalistico,
lo si trovi non nel movimento yiddish ma fra libertari mitteleuropei
«assimilati», (ad esempio Landauer, Scholem, Buber...)?
Scrive Löwy, in
proposito: «A partire dalla fine del XIX secolo, nella cultura
ebraica della Mitteleuropa si vede apparire una corrente romantica...
che si sentirà attratta più dall’utopia libertaria che dalla
socialdemocrazia». E aggiunge che «una complessa trama di legami
unisce romanticismo, rinascimento religioso ebraico, messianismo,
rivolta culturale antiborghese e antistatalismo, utopia
rivoluzionaria, socialismo, anarchismo».
Dunque, un intreccio
complicato di fattori socio-culturali è più verosimile, come
spiegazione dell’«incontro», che non una causa. Se no, come
spiegare altri – e non marginali – aspetti dell’«incontro»
come, ad esempio, l’emergere negli Stati Uniti di intellettuali
libertari – di seconda generazione yiddish – come Paul Goodman,
Julian Beck, Noam Chomsky, Murray Bookchin, Paul Avrich... di alta
levatura e originale contributo di pensiero, in quantità e qualità
superiori alle aspettative «statistiche»? Si tratta di figli di
emigrati ebrei est-europei, certo, ma «emergono» quando ormai il
movimento anarchico yiddish è sulla via del tramonto (Goodman) o è
già tramontato definitivamente.
E, soprattutto, sono di
formazione culturale tutt’altro che messianica e più americana,
senza dubbio, che est-europea. Tra l’altro, è stata proprio questa
«esuberanza» quali-quantitativa di intellettuali libertari di
origine ma non, perlomeno apparentemente, di cultura ebraica che ha
stimolato il Centro Studi Libertari di Milano a iniziare una
riflessione e poi a organizzare quel Convegno internazionale di studi
da cui è nata quest’antologia.
Un’altra spiegazione è
stata data all’incontro tra l’anarchico e l’ebreo: la
dimensione comunitaria e insieme individualistica della cultura e
della vita ebraica (una coppia di contraddizione solo apparente,
tipica anche dell’anarchismo).
Soprattutto viene
sottolineata la natura comunitaria degli shtetl e dei ghetti.
Scriveva Arnold Mandel, a proposito dell’ambiente anarchico
francese: «Il mondo a parte degli anarchici, questo “nostro
mondo”, mi faceva pensare, per certi tratti similari, a un milieu
ebraico arcaico... In questo ambiente ho trovato virtù che erano
presenti nella vita del ghetto». Ma «l’origine etnica e religiosa
era priva di importanza».
Paradossalmente, quello
che inizialmente attrae gli ebrei verso il movimento anarchico, cioè
quella indifferenza alle origini etniche, quel cosmopolitismo (più
ancora che internazionalismo: «nostra patria è il mondo intero»,
come dice una canzone anarchica italiana) diventerà, a un certo
punto della strana storia dell’incontro, un elemento di disaffinità
se non di inconciliabilità. È quando la «diversità» culturale
ebraica comincia ad affermarsi anche in ambito libertario, ma
soprattutto quando questa riflette in modo sempre più accentuato le
più generali istanze nazionalistiche del movimento sionista, che
anche nell’anarchismo yiddish dell’emigrazione si aprono fratture
teoriche e pratiche di grande rilievo. Che raggiungono il loro apice
con la fondazione dello Stato di Israele.
Nel frattempo... Nel
frattempo, cioè tra la fine dell’Ottocento e la metà del
Novecento, avvengono molte cose che, in modi diversi ma talora
concomitanti e sinergetici, segnano l’evolversi e poi di fatto il
chiudersi dell’«incontro» di cui stiamo parlando. C’è,
nell’Europa occidentale, un rigurgito di antisemitismo (caso
esemplare l’affare Dreyfus) che frustra le ipotesi
assimilazionistiche. C’è, nell’Europa orientale un macabro e
apparentemente inarrestabile ripetersi di pogrom. C’è la
Rivoluzione russa. C’è, infine e del tutto ovviamente l’immane
pogrom della Shoah.
Nell’emigrazione
yiddish, oltre e talora insieme al sionismo, vanno facendosi
egemoniche le organizzazioni politiche e sindacali socialdemocratiche
e comuniste. In Israele i kibbutz, costituiti secondo principi
sostanzialmente anarchici, prosperano ma disconoscono le loro radici
libertarie... C’è, infine, l’integrazione culturale,
linguistica, economica, sociale, politica dei figli di quei (non più)
miserabili immigrati dell’Europa dell’Est, quella carne da
sweat-shop che tanto ha contribuito alle organizzazioni e
alle lotte libertarie. Quegli «emarginati» che sognavano una
triplice emancipazione: in quanto proletari, in quanto stranieri, in
quanto ebrei. Salvo eccezioni, anche notevoli, lo strano e magico
incontro tra l’anarchico e l’ebreo è finito o s’è
banalizzato.
(Da: Amedeo Bertolo
(cur.), L'ANARCHICO E L'EBREO storia di un incontro, Eleuthera,
Milano, p. 7-10)
Oltre
che in libreria il volume può essere acquistato presso la casa
editrice al seguente indirizzo: www.eleuthera.it
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