06 gennaio 2018

ANARCHICI ED EBREI

Chagall, Il violinista

Pochi sanno che tra la fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo s'è verificato un fenomeno di alto interesse storico e culturale: l'incontro apparentemente incongruo di due tradizioni lontane tra loro, quella anarchica e quella ebraica. Eppure quell'incontro c'è stato, dando luogo a un vero e proprio movimento ebraico-libertario, con decine di migliaia di militanti sparsi lungo la diaspora yiddish, tra la Russia e le Americhe. Nel 2000 a Venezia un Convegno internazionale, organizzato dal Centro Studi Libertari/ Archivio «G. Pinelli» di Milano, in collaborazione con il Centre International de Recherches sur l’Anarchisme (CIRA) di Lausanne ne ha ricostruito storie e percorsi. Materiali raccolti in un volume di Eleuthera di cui proponiamo il saggio introduttivo.

Amedeo Bertolo

Anarchia ed ebraismo

Tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo s’è verificato un fenomeno di alto interesse storico e politico: l’incontro incongruo di due tradizioni culturali apparentemente estranee, quella anarchica e quella ebraica.

È un incontro poco noto e ancor meno studiato. Eppure c’è stato, soprattutto (ma non solo) in un contesto socio-storico abbastanza definito: dapprima nella «Zona» di residenza coatta (cioè quella parte, polacca, ucraina, baltica, ecc. dell’allora impero zarista) che è stata culla della cultura yiddish, vale a dire dell’ebraismo est-europeo. Poi, in modo via via crescente e quasi esplosivo, il processo di reciproca attrazione fra cultura ebraica e utopia anarchica si manifesta nella massiccia emigrazione yiddish verso l’Europa occidentale e le Americhe.

È soprattutto in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Argentina che il nascente movimento operaio ebraico, a cavallo dei due secoli, viene organizzato in modo quantitativamente significativo secondo
linee qualitative di ispirazione (o quanto meno fascinazione) anarchica. Decine di migliaia sono i membri delle organizzazioni sindacali e culturali libertarie, in Nord e in Sud America, e decine di migliaia sono i lettori di giornali anarchici yiddish. Tanti. Troppi per non essere qualificati come fenomeno storico, come «incontro storico». Perché questo sia avvenuto è tutto da indagare e discutere, e quest’antologia è un forte contributo a questo lavoro, il primo di tale ampiezza, a quanto ci risulti.

Cantava Léo Ferré, in Les Anarchistes: «Y’en a pas un sur cent et pourtant ils existent. / La plupart Espagnoles, allez savoir pourquoi». Chissà perché. Anche per il caso spagnolo, di forte incontro tra un popolo e l’idea anarchica (un incontro, uno dei pochi, di superamento di quell’«uno per cento»), ci sono stati vari tentativi di spiegazione, soprattutto di storici di formazione marxista che non riuscivano a digerire quella eccezione alle loro impostazioni storico-dialettico-materialiste.

Così, ad esempio, è stata addotta a spiegazione l’iberica tradizione religioso-messianico-apocalittica. Ma questo può forse valere per i contadini anarchici dell’Andalusia, non certo per gli anarco-sindacalisti catalani. Oppure la tradizione comunalista e federalista, repressa e risorgente. Oppure...

Così, anche per l’anarchismo ebraico ci sono stati e ci sono tentativi di ricondurre lo «strano incontro» a una tradizione messianico-apocalittica (prevalentemente chassidica, ma in realtà ricorrente). Oppure, interpretazione compatibile ma non necessariamente congruente con la precedente, l’incontro viene spiegato con l’impatto tardo-illuministico (cioè della Haskalah, la versione ebraica dell’illuminismo) su una cultura fortemente messianica. Per cui, il «popolo del verbo», il popolo della parola, scopre che la «parola» non è di dio, ma dell’uomo: un anarchismo come accelerato disincanto e reincanto del mondo...

La rivoluzione salvifica (secondo altre «parole», secondo un altro «libro») come nuovo messianismo? Ma, allora, come si spiega il fatto che l’anarchismo yiddish (quello più prossimo alla cultura messianica) si sviluppa secondo linee decisamente laiche (o dichiaratamente ateistiche) e positivistiche, poco o nulla millenaristiche? E come si spiega il fatto che, se c’è stato un anarchismo ebraico «religioso», «mistico» e comunque più tardo-romantico che neo-razionalistico, lo si trovi non nel movimento yiddish ma fra libertari mitteleuropei «assimilati», (ad esempio Landauer, Scholem, Buber...)?

Scrive Löwy, in proposito: «A partire dalla fine del XIX secolo, nella cultura ebraica della Mitteleuropa si vede apparire una corrente romantica... che si sentirà attratta più dall’utopia libertaria che dalla socialdemocrazia». E aggiunge che «una complessa trama di legami unisce romanticismo, rinascimento religioso ebraico, messianismo, rivolta culturale antiborghese e antistatalismo, utopia rivoluzionaria, socialismo, anarchismo».

Dunque, un intreccio complicato di fattori socio-culturali è più verosimile, come spiegazione dell’«incontro», che non una causa. Se no, come spiegare altri – e non marginali – aspetti dell’«incontro» come, ad esempio, l’emergere negli Stati Uniti di intellettuali libertari – di seconda generazione yiddish – come Paul Goodman, Julian Beck, Noam Chomsky, Murray Bookchin, Paul Avrich... di alta levatura e originale contributo di pensiero, in quantità e qualità superiori alle aspettative «statistiche»? Si tratta di figli di emigrati ebrei est-europei, certo, ma «emergono» quando ormai il movimento anarchico yiddish è sulla via del tramonto (Goodman) o è già tramontato definitivamente.

E, soprattutto, sono di formazione culturale tutt’altro che messianica e più americana, senza dubbio, che est-europea. Tra l’altro, è stata proprio questa «esuberanza» quali-quantitativa di intellettuali libertari di origine ma non, perlomeno apparentemente, di cultura ebraica che ha stimolato il Centro Studi Libertari di Milano a iniziare una riflessione e poi a organizzare quel Convegno internazionale di studi da cui è nata quest’antologia.

Un’altra spiegazione è stata data all’incontro tra l’anarchico e l’ebreo: la dimensione comunitaria e insieme individualistica della cultura e della vita ebraica (una coppia di contraddizione solo apparente, tipica anche dell’anarchismo).

Soprattutto viene sottolineata la natura comunitaria degli shtetl e dei ghetti. Scriveva Arnold Mandel, a proposito dell’ambiente anarchico francese: «Il mondo a parte degli anarchici, questo “nostro mondo”, mi faceva pensare, per certi tratti similari, a un milieu ebraico arcaico... In questo ambiente ho trovato virtù che erano presenti nella vita del ghetto». Ma «l’origine etnica e religiosa era priva di importanza».

Paradossalmente, quello che inizialmente attrae gli ebrei verso il movimento anarchico, cioè quella indifferenza alle origini etniche, quel cosmopolitismo (più ancora che internazionalismo: «nostra patria è il mondo intero», come dice una canzone anarchica italiana) diventerà, a un certo punto della strana storia dell’incontro, un elemento di disaffinità se non di inconciliabilità. È quando la «diversità» culturale ebraica comincia ad affermarsi anche in ambito libertario, ma soprattutto quando questa riflette in modo sempre più accentuato le più generali istanze nazionalistiche del movimento sionista, che anche nell’anarchismo yiddish dell’emigrazione si aprono fratture teoriche e pratiche di grande rilievo. Che raggiungono il loro apice con la fondazione dello Stato di Israele.

Nel frattempo... Nel frattempo, cioè tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, avvengono molte cose che, in modi diversi ma talora concomitanti e sinergetici, segnano l’evolversi e poi di fatto il chiudersi dell’«incontro» di cui stiamo parlando. C’è, nell’Europa occidentale, un rigurgito di antisemitismo (caso esemplare l’affare Dreyfus) che frustra le ipotesi assimilazionistiche. C’è, nell’Europa orientale un macabro e apparentemente inarrestabile ripetersi di pogrom. C’è la Rivoluzione russa. C’è, infine e del tutto ovviamente l’immane pogrom della Shoah.

Nell’emigrazione yiddish, oltre e talora insieme al sionismo, vanno facendosi egemoniche le organizzazioni politiche e sindacali socialdemocratiche e comuniste. In Israele i kibbutz, costituiti secondo principi sostanzialmente anarchici, prosperano ma disconoscono le loro radici libertarie... C’è, infine, l’integrazione culturale, linguistica, economica, sociale, politica dei figli di quei (non più) miserabili immigrati dell’Europa dell’Est, quella carne da sweat-shop che tanto ha contribuito alle organizzazioni e alle lotte libertarie. Quegli «emarginati» che sognavano una triplice emancipazione: in quanto proletari, in quanto stranieri, in quanto ebrei. Salvo eccezioni, anche notevoli, lo strano e magico incontro tra l’anarchico e l’ebreo è finito o s’è banalizzato.

(Da: Amedeo Bertolo (cur.), L'ANARCHICO E L'EBREO storia di un incontro, Eleuthera, Milano, p. 7-10)


Oltre che in libreria il volume può essere acquistato presso la casa editrice al seguente indirizzo: www.eleuthera.it

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