Oriente e Occidente
per noi oggi rappresentano realtà profondamente diverse, eppure entrambe
si rifanno ad una Tradizione primordiale comune che ha lasciato segni
profondi.Il post è
tratto da “Il Buddha delle ciminiere”, un affascinante blog
dedicato alle filosofie orientali che invitiamo tutti gli amici a visitare. Ne vale davvero la pena. Ton Ko è il nome
iniziatico di un Maestro nel senso tradizionale e vero
della parola.
Ton Ko
Siddhartha e Odisseo
È noto che Siddhārtha
Śākyamuni, figlio del re Śuddhodana, prima di abbandonare il
palazzo paterno per dedicarsi alla ricerca della liberazione dalla
sofferenza divenendo il Buddha, sposò una bellissima donna, la
principessa Gopā, conosciuta anche con il nome di Yaśodharā. Per
poterla sposare Siddhārtha dovette cimentarsi, su richiesta del
padre della giovane, lo Śākya Daṇḍapāṇi, in una lunga serie
di prove di ogni tipo contro altri cinquecento pretendenti alla mano
di Gopā, tutti appartenenti, come lui, al clan degli Śākya, una
stirpe di guerrieri. Superò tutte le prove: la conoscenza delle
lingue, della scrittura, dei testi sacri, della matematica e della
cosmologia, l’abilità nella lotta, nel nuoto, nella spada, nel
cavalcare elefanti e cavalli, nel salto ecc.
Tutto questo si trova
nelle tradizionali “vite” del Buddha, e lo stesso Bertolucci vi
fece cenno in una scena del suo film Piccolo Buddha del
1993. In particolare le competizioni sono raccontate nel XII
capitolo del Lalitavistara, il Sūtra buddhista che è in corso
di traduzione in italiano, a cura di chi scrive, a partire da una
versione francese del XIX secolo.
Anticipiamo qui un breve
estratto del capitolo suddetto, dove è descritta dettagliatamente
una delle prove di abilità a cui il giovane Bodhisattva si
sottopose, uscendone trionfatore, il tiro con l’arco. E ne
proponiamo la lettura facendo seguire il testo indiano da un altro
passo, indimenticabile, che si trova nei capitoli XXI e XXII di
un’opera fondamentale quanto il Lalitavistara, ma appartenente
all’area mediterranea, alla cultura occidentale: l’Odissea. Il
confronto tra i due passi è estremamente significativo, e non può
non spingere a riflessioni profonde sulle radici della cultura
umana, al di là di ogni sciocca idea di appartenenza.
Kipling scrisse: “Oh,
l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno,
finché il Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio
del Giudizio di Dio”. Ma proseguì con queste parole: “Ma non
c’è né Est né Ovest, non Confine, non Razza, non Nascita,
quando due uomini forti si affrontano faccia a faccia, arrivando dai
lati opposti del mondo”.
Certo, resta da chiarire
e comprendere molto bene, da parte di ognuno di noi, quale
significato intendiamo attribuire al concetto di uomo forte…
Si legge
nel Lalitavistarasutra (testo forse del I sec. a.C. – I
d.C.: la prima versione cinese apparve nel 308 d.C.):
Allora Daṇḍapāṇi
rivolse queste parole ai giovani Śākya: Poiché abbiamo visto ciò
che volevamo sapere, mostrate ora l’arte del tiro con l’arco.
Subito Ānanda posò un
tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di due krośa. Dopo di
lui Devadatta posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza
di quattro krośa; quindi Sundarananda mise un altro tamburo di
ferro alla distanza di sei krośa. Dopo di lui, lo Śākya Daṇḍapāṇi
sistemò un tamburo di ferro alla distanza di due yojana. Infine il
Bodhisattva dopo aver posato un tamburo di ferro come bersaglio alla
distanza di dieci krośa, vi sistemò dietro sette alberi tāla e
più lontano una sagoma in metallo con l’immagine di un cinghiale.
Ānanda colpì il
tamburo posto come bersaglio alla distanza di due krośa, ma non
poté fare di meglio.
Devadatta colpì il
tamburo posto come bersaglio a quattro krośa, senza poter fare di
meglio.
Sundarananda colpì il
tamburo posto come bersaglio a sei krośa, senza poter fare di
meglio.
Daṇḍapāṇi colpì
il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due yojana e riuscì
a bucarlo, ma non poté fare di meglio.
Allora il Bodhisattva,
dopo aver spezzato uno dopo l’altro tutti gli archi che gli
venivano dati [chiese]: C’è qui in città qualche altro arco che,
teso da me, sia in grado di resistere alla forza del mio corpo e di
sostenere il mio sforzo?
Il re rispose: Ce n’è
uno, figlio mio. Il giovane domandò: O Re, dove si trova? E il re:
Si tratta di tuo nonno, chiamato Siṁhahanu (mascella di leone), il
cui arco è ora custodito e onorato nel tempio degli dei, tra
profumi e ghirlande; fino ad oggi nessuno è stato in grado di
sollevare e quindi di tendere quell’arco.
Il Bodhisattva disse: Mi
si porti quell’arco, o Re. Lo proveremo.
L’arco fu subito
portato; e tutti i giovani Śākya, benché facessero il massimo
sforzo, non poterono sollevare l’arco né, a maggio ragione,
tenderlo.
Quindi l’arco fu dato
allo Śākya Daṇḍapāṇi, ma sebbene impiegasse tutta la forza
del suo corpo egli riuscì soltanto a sollevarlo, senza poterlo
tendere.
Infine l’arco fu
consegnato al Bodhisattva; ed egli sollevò l’arco rimanendo
seduto sul trono con le gambe incrociate, lo impugnò con la mano
sinistra e lo tese con un solo dito della mano destra.
Nell’istante in cui
l’arco fu teso, il suono riecheggiò in tutta la grande città di
Kapilavastu e tutti gli abitanti, impauriti, si chiesero l’un
l’altro che cosa fosse quel rumore. Poi si dissero che il giovane
Sarvārthasiddha aveva teso l’arco di suo nonno e che quel rumore
proveniva di lì.
In seguito dei e uomini,
a centinaia di migliaia, emisero grida di stupore e di ammirazione e
i figli degli dei che si trovavano nelle distese dei cieli rivolsero
questi versi al re Śuddhodana e a quella grande moltitudine di
persone:
Poiché l’arco è
stato teso dal Muni senza che nemmeno si alzasse dal suo trono e
senza fare alcuno sforzo, certamente il Muni realizzerà presto i
suoi propositi, dopo aver sconfitto l’armata di Māra.
Quindi, o Monaci, dopo
aver teso l’arco e incoccato una freccia, il Bodhisattva la
scagliò con la sua forza, nella direzione in cui si trovavano i
tamburi di Ānanda, di Devadatta, di Sundarananda e di Daṇḍapāṇi.
Dopo averli attraversati tutti con la freccia, egli perforò, alla
distanza di dieci krośa, il tamburo di ferro che aveva piazzato
come bersaglio e oltrepassò i sette alberi tāla. Infine, dopo aver
bucato anche la sagoma del cinghiale, la freccia penetrò nel
terreno e scomparve sprofondando in esso. Nel luogo in cui la
freccia era entrata affondando nel suolo si formò un pozzo che
ancora oggi è chiamato Śarakūpa (pozzo della freccia).
E nell’Odissea (forse
800-700 a.C.) è detto:
E allora il porcaro
portava attraverso la sala l'arco e lo posò nelle mani di Odisseo. Poi Eumeo chiamò fuori
la nutrice Euriclea, le diceva: “Telemaco ti ordina, Euriclea, di
chiudere a chiave la porta della stanza. E se qualcuna delle ancelle
sente lamenti o rumori in casa, nel nostro recinto di uomini, non
esca fuori, ma stia là dentro in silenzio al lavoro”.
Così disse: e a lei la
parola restò senz'ali.
Ella chiuse la porta
della stanza. In silenzio Filezio andò
svelto fuori della sala e serrò il portone della corte. C'era là
sotto il portico una fune da nave, fatta di papiro: e con questa
appunto legò la porta e tornava dentro.
Andava a sedere, il
bovaro, sullo scanno di dove s'era prima alzato, e guardava Odisseo.
Questi già maneggiava il suo arco: lo girava e rigirava, lo provava
di qua e di là nel timore che i tarli avessero roso il corno mentre
era lontano.
E qualcuno diceva
volgendo lo sguardo al vicino: “Certo è un intenditore, lo si
vede bene, un esperto di archi: o ne ha di uguali anche lui a casa,
o pensa di farsene uno così. Guarda come se lo rigira fra le mani,
di qua e di là, quel vagabondo! È capace di tutto”.
E un altro diceva, di
quei giovani prepotenti: “Oh, gli auguro tanta fortuna a costui!
Proprio come gli può riuscire di tendere qui l'arco”.
Così dicevano i
Proci. E Odisseo, dopo che ebbe tastato e riguardato il grande arco
da ogni parte - come quando un uomo esperto di cetra e di canto
facilmente tende la corda intorno alla chiavetta nuova, fermando da
un lato e dall'altro il budello di pecora, ben ritorto - così
appunto, Odisseo, tese senza fatica il grande arco.
Con la mano destra
prendeva la corda: la tentò. Ed essa cantò bene, parve uno strido
di rondine.
I Proci allora ebbero
grande dolore e sbiancarono tutti in volto. E Zeus tuonò forte,
mostrando un segno di augurio.
Gioiva in cuore l'eroe,
il divino paziente Odisseo, che gli avesse mandato un prodigio, il
figlio di Crono, del dio dai tortuosi pensieri.
Prese la freccia che gli
stava vicino, nuda, sulla mensa: le altre erano dentro, nel cavo
della faretra. E ben presto gli Achei le dovevano assaggiare!
La prendeva e posava sul
gomito dell'arco: tirava la corda e la cocca di lì, dal suo scanno,
stando seduto.
Lanciò la freccia
mirando diritto. Di tutte le scuri, non sbagliò l'anello del
manico: da parte a parte andò fuori la freccia di pesante bronzo.
Ed egli disse a
Telemaco: “Telemaco, non ti reca vergogna questo straniero che
siede nella tua casa. Non sbagliai la mira, né faticai a lungo a
tendere l'arco. Ho ancora salda la mia forza. Non sono come i Proci
insultandomi mi rimproverano. E ora è tempo che si prepari agli
Achei una cena in piena luce, e che ci si diverta in altri modi con
musica e cetra: esse sono ornamento del banchetto”.
Disse e con le ciglia
fece un cenno. Ed egli cinse la spada acuta, Telemaco, il caro
figlio del grande Odisseo, e impugnò la lancia. E accanto a lui si
piantò presso a un alto seggio. Era armato di bronzo scintillante.
Ed egli si spogliò
dei cenci, Odisseo, e balzò sulla grande soglia tenendo in mano
l'arco e la faretra piena di frecce: ne versò fuori i veloci dardi
proprio lì, davanti ai piedi, e disse ai Proci: “Questa gara ben
dura ormai è finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro
bersaglio che mai nessun uomo colpì, e se Apollo mi concede questo
vanto”.
Disse, e contro Antinoo
drizzava la freccia aguzza.
Lui stava per alzare una
bella coppa d'oro, a due anse, e già la teneva tra le mani. Voleva
bere vino: non si dava certo pensiero della morte. E chi mai poteva
immaginare tra i convitati che uno solo in mezzo a tanti, anche se
era gagliardo, gli avrebbe procurato la mala morte e il nero
destino?
E Odisseo lo prendeva di
mira e lo colpì alla gola con la freccia: da parte a parte andò la
punta attraverso il tenero collo.
Si piegò da un lato, il
principe: la coppa gli cadde di mano appena fu colpito, e subito un
grosso fiotto di sangue gli andò su per le narici. Prontamente
spinse via da sé la mensa urtandola col piede e rovesciò le
vivande a terra. Il pane e le carni arrostite s'imbrattavano.
Si misero a vociare i
Proci per la sala quando videro cadere un uomo, e balzarono su dai
loro seggi, eccitati, guardando intorno alle pareti, da ogni parte.
Ma non c'era uno scudo in nessun posto né una robusta lancia a
portata di mano.
E sgridavano Odisseo con
parole di collera: “Forestiero, ti costerà caro, vedrai, colpire
così con l'arco uomini. Mai più prenderai parte ad altre gare. Ora
per te la morte è certa. Ecco, tu uccidesti poco fa un uomo che era
il più nobile e valente tra i giovani d'Itaca. Perciò ti
mangeranno qui gli avvoltoi. “
Così diceva ognuno di
loro, poiché credevano che senza volere avesse ucciso un uomo. E
non avvertirono, quegli stolti, che per loro tutti stavano annodati
i lacci della morte.
Il
passo dell’Odissea è tratto dalla versione in prosa di G. Tonna,
pubblicata da Garzanti Editore nel 1968.
Testo ripreso da http://zenvadoligure.blogspot.it/
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