06 gennaio 2018

ODISSEO E SIDDHARTHA



Oriente e Occidente per noi oggi rappresentano realtà profondamente diverse, eppure entrambe si rifanno ad una Tradizione primordiale comune che ha lasciato segni profondi.Il post è tratto da “Il Buddha delle ciminiere”, un affascinante blog dedicato alle filosofie orientali che invitiamo tutti gli amici a visitare. Ne vale davvero la pena. Ton Ko è il nome iniziatico di un Maestro nel senso tradizionale e vero della parola.

Ton Ko

Siddhartha e Odisseo

È noto che Siddhārtha Śākyamuni, figlio del re Śuddhodana, prima di abbandonare il palazzo paterno per dedicarsi alla ricerca della liberazione dalla sofferenza divenendo il Buddha, sposò una bellissima donna, la principessa Gopā, conosciuta anche con il nome di Yaśodharā. Per poterla sposare Siddhārtha dovette cimentarsi, su richiesta del padre della giovane, lo Śākya Daṇḍapāṇi, in una lunga serie di prove di ogni tipo contro altri cinquecento pretendenti alla mano di Gopā, tutti appartenenti, come lui, al clan degli Śākya, una stirpe di guerrieri. Superò tutte le prove: la conoscenza delle lingue, della scrittura, dei testi sacri, della matematica e della cosmologia, l’abilità nella lotta, nel nuoto, nella spada, nel cavalcare elefanti e cavalli, nel salto ecc.

Tutto questo si trova nelle tradizionali “vite” del Buddha, e lo stesso Bertolucci vi fece cenno in una scena del suo film Piccolo Buddha del 1993. In particolare le competizioni sono raccontate nel XII capitolo del Lalitavistara, il Sūtra buddhista che è in corso di traduzione in italiano, a cura di chi scrive, a partire da una versione francese del XIX secolo.

Anticipiamo qui un breve estratto del capitolo suddetto, dove è descritta dettagliatamente una delle prove di abilità a cui il giovane Bodhisattva si sottopose, uscendone trionfatore, il tiro con l’arco. E ne proponiamo la lettura facendo seguire il testo indiano da un altro passo, indimenticabile, che si trova nei capitoli XXI e XXII di un’opera fondamentale quanto il Lalitavistara, ma appartenente all’area mediterranea, alla cultura occidentale: l’Odissea. Il confronto tra i due passi è estremamente significativo, e non può non spingere a riflessioni profonde sulle radici della cultura umana, al di là di ogni sciocca idea di appartenenza.

Kipling scrisse: “Oh, l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno, finché il Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio del Giudizio di Dio”. Ma proseguì con queste parole: “Ma non c’è né Est né Ovest, non Confine, non Razza, non Nascita, quando due uomini forti si affrontano faccia a faccia, arrivando dai lati opposti del mondo”.

Certo, resta da chiarire e comprendere molto bene, da parte di ognuno di noi, quale significato intendiamo attribuire al concetto di uomo forte…
Si legge nel Lalitavistarasutra (testo forse del I sec. a.C. – I d.C.: la prima versione cinese apparve nel 308 d.C.):

Allora Daṇḍapāṇi rivolse queste parole ai giovani Śākya: Poiché abbiamo visto ciò che volevamo sapere, mostrate ora l’arte del tiro con l’arco.
Subito Ānanda posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di due krośa. Dopo di lui Devadatta posò un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di quattro krośa; quindi Sundarananda mise un altro tamburo di ferro alla distanza di sei krośa. Dopo di lui, lo Śākya Daṇḍapāṇi sistemò un tamburo di ferro alla distanza di due yojana. Infine il Bodhisattva dopo aver posato un tamburo di ferro come bersaglio alla distanza di dieci krośa, vi sistemò dietro sette alberi tāla e più lontano una sagoma in metallo con l’immagine di un cinghiale.
Ānanda colpì il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due krośa, ma non poté fare di meglio.
Devadatta colpì il tamburo posto come bersaglio a quattro krośa, senza poter fare di meglio.
Sundarananda colpì il tamburo posto come bersaglio a sei krośa, senza poter fare di meglio.
Daṇḍapāṇi colpì il tamburo posto come bersaglio alla distanza di due yojana e riuscì a bucarlo, ma non poté fare di meglio.
Allora il Bodhisattva, dopo aver spezzato uno dopo l’altro tutti gli archi che gli venivano dati [chiese]: C’è qui in città qualche altro arco che, teso da me, sia in grado di resistere alla forza del mio corpo e di sostenere il mio sforzo?
Il re rispose: Ce n’è uno, figlio mio. Il giovane domandò: O Re, dove si trova? E il re: Si tratta di tuo nonno, chiamato Siṁhahanu (mascella di leone), il cui arco è ora custodito e onorato nel tempio degli dei, tra profumi e ghirlande; fino ad oggi nessuno è stato in grado di sollevare e quindi di tendere quell’arco.
Il Bodhisattva disse: Mi si porti quell’arco, o Re. Lo proveremo.
L’arco fu subito portato; e tutti i giovani Śākya, benché facessero il massimo sforzo, non poterono sollevare l’arco né, a maggio ragione, tenderlo.
Quindi l’arco fu dato allo Śākya Daṇḍapāṇi, ma sebbene impiegasse tutta la forza del suo corpo egli riuscì soltanto a sollevarlo, senza poterlo tendere.
Infine l’arco fu consegnato al Bodhisattva; ed egli sollevò l’arco rimanendo seduto sul trono con le gambe incrociate, lo impugnò con la mano sinistra e lo tese con un solo dito della mano destra.
Nell’istante in cui l’arco fu teso, il suono riecheggiò in tutta la grande città di Kapilavastu e tutti gli abitanti, impauriti, si chiesero l’un l’altro che cosa fosse quel rumore. Poi si dissero che il giovane Sarvārthasiddha aveva teso l’arco di suo nonno e che quel rumore proveniva di lì.

In seguito dei e uomini, a centinaia di migliaia, emisero grida di stupore e di ammirazione e i figli degli dei che si trovavano nelle distese dei cieli rivolsero questi versi al re Śuddhodana e a quella grande moltitudine di persone:
Poiché l’arco è stato teso dal Muni senza che nemmeno si alzasse dal suo trono e senza fare alcuno sforzo, certamente il Muni realizzerà presto i suoi propositi, dopo aver sconfitto l’armata di Māra.
Quindi, o Monaci, dopo aver teso l’arco e incoccato una freccia, il Bodhisattva la scagliò con la sua forza, nella direzione in cui si trovavano i tamburi di Ānanda, di Devadatta, di Sundarananda e di Daṇḍapāṇi. Dopo averli attraversati tutti con la freccia, egli perforò, alla distanza di dieci krośa, il tamburo di ferro che aveva piazzato come bersaglio e oltrepassò i sette alberi tāla. Infine, dopo aver bucato anche la sagoma del cinghiale, la freccia penetrò nel terreno e scomparve sprofondando in esso. Nel luogo in cui la freccia era entrata affondando nel suolo si formò un pozzo che ancora oggi è chiamato Śarakūpa (pozzo della freccia).
E nell’Odissea (forse 800-700 a.C.) è detto:

E allora il porcaro portava attraverso la sala l'arco e lo posò nelle mani di Odisseo. Poi Eumeo chiamò fuori la nutrice Euriclea, le diceva: “Telemaco ti ordina, Euriclea, di chiudere a chiave la porta della stanza. E se qualcuna delle ancelle sente lamenti o rumori in casa, nel nostro recinto di uomini, non esca fuori, ma stia là dentro in silenzio al lavoro”.
Così disse: e a lei la parola restò senz'ali.
Ella chiuse la porta della stanza. In silenzio Filezio andò svelto fuori della sala e serrò il portone della corte. C'era là sotto il portico una fune da nave, fatta di papiro: e con questa appunto legò la porta e tornava dentro.
Andava a sedere, il bovaro, sullo scanno di dove s'era prima alzato, e guardava Odisseo. Questi già maneggiava il suo arco: lo girava e rigirava, lo provava di qua e di là nel timore che i tarli avessero roso il corno mentre era lontano.
 E qualcuno diceva volgendo lo sguardo al vicino: “Certo è un intenditore, lo si vede bene, un esperto di archi: o ne ha di uguali anche lui a casa, o pensa di farsene uno così. Guarda come se lo rigira fra le mani, di qua e di là, quel vagabondo! È capace di tutto”.
E un altro diceva, di quei giovani prepotenti: “Oh, gli auguro tanta fortuna a costui! Proprio come gli può riuscire di tendere qui l'arco”.
 Così dicevano i Proci. E Odisseo, dopo che ebbe tastato e riguardato il grande arco da ogni parte - come quando un uomo esperto di cetra e di canto facilmente tende la corda intorno alla chiavetta nuova, fermando da un lato e dall'altro il budello di pecora, ben ritorto - così appunto, Odisseo, tese senza fatica il grande arco.
Con la mano destra prendeva la corda: la tentò. Ed essa cantò bene, parve uno strido di rondine.
I Proci allora ebbero grande dolore e sbiancarono tutti in volto. E Zeus tuonò forte, mostrando un segno di augurio.
Gioiva in cuore l'eroe, il divino paziente Odisseo, che gli avesse mandato un prodigio, il figlio di Crono, del dio dai tortuosi pensieri.
Prese la freccia che gli stava vicino, nuda, sulla mensa: le altre erano dentro, nel cavo della faretra. E ben presto gli Achei le dovevano assaggiare!
La prendeva e posava sul gomito dell'arco: tirava la corda e la cocca di lì, dal suo scanno, stando seduto.
Lanciò la freccia mirando diritto. Di tutte le scuri, non sbagliò l'anello del manico: da parte a parte andò fuori la freccia di pesante bronzo.
Ed egli disse a Telemaco: “Telemaco, non ti reca vergogna questo straniero che siede nella tua casa. Non sbagliai la mira, né faticai a lungo a tendere l'arco. Ho ancora salda la mia forza. Non sono come i Proci insultandomi mi rimproverano. E ora è tempo che si prepari agli Achei una cena in piena luce, e che ci si diverta in altri modi con musica e cetra: esse sono ornamento del banchetto”.
Disse e con le ciglia fece un cenno. Ed egli cinse la spada acuta, Telemaco, il caro figlio del grande Odisseo, e impugnò la lancia. E accanto a lui si piantò presso a un alto seggio. Era armato di bronzo scintillante.
 Ed egli si spogliò dei cenci, Odisseo, e balzò sulla grande soglia tenendo in mano l'arco e la faretra piena di frecce: ne versò fuori i veloci dardi proprio lì, davanti ai piedi, e disse ai Proci: “Questa gara ben dura ormai è finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro bersaglio che mai nessun uomo colpì, e se Apollo mi concede questo vanto”.
Disse, e contro Antinoo drizzava la freccia aguzza.
Lui stava per alzare una bella coppa d'oro, a due anse, e già la teneva tra le mani. Voleva bere vino: non si dava certo pensiero della morte. E chi mai poteva immaginare tra i convitati che uno solo in mezzo a tanti, anche se era gagliardo, gli avrebbe procurato la mala morte e il nero destino?
E Odisseo lo prendeva di mira e lo colpì alla gola con la freccia: da parte a parte andò la punta attraverso il tenero collo.
Si piegò da un lato, il principe: la coppa gli cadde di mano appena fu colpito, e subito un grosso fiotto di sangue gli andò su per le narici. Prontamente spinse via da sé la mensa urtandola col piede e rovesciò le vivande a terra. Il pane e le carni arrostite s'imbrattavano.
Si misero a vociare i Proci per la sala quando videro cadere un uomo, e balzarono su dai loro seggi, eccitati, guardando intorno alle pareti, da ogni parte. Ma non c'era uno scudo in nessun posto né una robusta lancia a portata di mano.
E sgridavano Odisseo con parole di collera: “Forestiero, ti costerà caro, vedrai, colpire così con l'arco uomini. Mai più prenderai parte ad altre gare. Ora per te la morte è certa. Ecco, tu uccidesti poco fa un uomo che era il più nobile e valente tra i giovani d'Itaca. Perciò ti mangeranno qui gli avvoltoi. “
Così diceva ognuno di loro, poiché credevano che senza volere avesse ucciso un uomo. E non avvertirono, quegli stolti, che per loro tutti stavano annodati i lacci della morte.
Il passo dell’Odissea è tratto dalla versione in prosa di G. Tonna, pubblicata da Garzanti Editore nel 1968.

Testo ripreso da   http://zenvadoligure.blogspot.it/

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